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di Alberto Cairo

“La rivalità etnica è la rovina dell’Afghanistan”, Faridùn lo ripete oggi con particolare tristezza. Lo è in tanti Paesi, cerco di consolarlo, anche l’Italia non è immune da regionalismo e pregiudizi. Gli racconto di mio nonno, persona degnissima, che un giorno disse del mio migliore amico Sergio, barese-napoletano: “è del Sud, ma è un bravo ragazzo”. Chiese subito scusa per lo sproposito, ma il lapsus era chiaro.

In Afghanistan di etnia invece si può morire. I talebani sono quasi tutti pashtun e vogliono tutto. Le altre etnie si sentono escluse. I libri dicono che è così da sempre.  Nel dissolto Parlamento, deputati pashtun urlavano che l’Afghanistan era loro, gli altri solo ospiti, Tajiki, hazara e uzbeki reagivano fieri. Divisioni forti e tante, matrimoni misti e quartieri multi-etnici pochi.

 

 

Nei nostri centri di riabilitazione tutti i gruppi sono rappresentati. La convivenza è pacifica, ma la rivalità cova. Faridùn, pashtun e capo reparto, sa di dovere essere cauto trattando con chi è di altra etnia, pena l’accusa di favoritismi. Non è un caso che io sia regolarmente chiamato in causa in occasione di richiami ufficiali agli impiegati: poiché straniero sono considerato super partes. Ma neppure a me critiche sono mancate, soprattutto durante le assunzioni. Due le maggiori difficoltà riscontrate: la convinzione che funzioni e mestieri siano riservati a certe etnie; la difficoltà di fare capire il concetto di merito.

Tempo fa, dovevamo impiegare svariati addetti alle pulizie. I candidati erano numerosi, essendo richieste solo resistenza fisica e buona volontà, in maggior parte hazara poverissimi e tajiki. Solo tre i pashtun. Capire dal colloquio l’idoneità di una persona a svolgere semplici lavori manuali è difficile. Decidemmo una prova pratica e di ammettere alla rosa finale le quindici persone col maggior numero di figli piccoli: sei hazara, sette tajiki e due pashtun.

 

 

Faridùn non era convinto di questi ultimi, “essere poveri non basta”, diceva. Non lo ascoltammo. Superarono la prova gli hazara e tre tajiki. Uno di questi e un pashtun se ne andarono scoprendo che pulire i bagni era parte del lavoro. L’altro pashtun si disse pronto alla posizione di capo del gruppo. Quando spiegammo che il capo sarebbe stato scelto più avanti in base alle prestazioni, rispose di non poter rischiare di essere soggetto ad altre etnie. Pensavo scherzasse. Era serio. “Cosa ti dicevo?” commentò Faridùn. Se questo avviene per un lavoro umile, figurarsi per governare il Paese. L’accusai di generalizzare, “aspetta e vedrai”, rispose.

 

Sorgente: Diario da Kabul, qui l’etnia decide anche chi fa le pulizie – la Repubblica

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