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Clima. Dopo Cina, Usa e India qual è il paese che consuma più energia? La Rete, quell’universo digitale che ormai ha sconvolto anche la nostra vita

Daniela Passeri

Dopo Cina, Stati Uniti e India, il quarto paese al mondo per consumi di energia elettrica si chiama Internet & telecomunicazioni. Si stima che l’immateriale universo digitale, o per la precisione, l’insieme di quella che viene chiamata Information and Communication Technology (Ict) abbia un bisogno annuo di 4.000 TWh di elettricità (l’Italia in un anno «normale» come il 2019 ha consumato 320 TWh). Tanta è l’energia necessaria per creare, elaborare e trasmettere la strabiliante quantità di dati che usiamo per le attività lavorative, di intrattenimento, i social, i servizi bancari, l’intelligenza artificiale, l’e-commerce e quant’altro, i cui ordini di grandezza sfuggono all’umana immaginazione: nel 2020 il «peso» dei dati utilizzati dall’insieme delle strutture digitali è stato stimato in 59 Zettabyte (Zb), ovvero 59 trilioni di Gigabytes e si prevede che nel 2025 questa quantità triplicherà, per arrivare a 175 ZB.

IN TERMINI DI QUANTITA’ di emissioni di CO2-equivalenti si stima siano state circa 1100 Mt (Megatonnellate), il 3,6% di quelle globali nel 2020, raddoppiate rispetto al 2010. Questo significa che l’Ict contribuisce ai cambiamenti climatici più dell’aviazione (2,4% delle emissioni nel 2019), più di tutte le navi del mondo (2,9%). Con i ritmi attuali di crescita, nel 2040 la quota di emissioni potrebbe arrivare addirittura al 14% di quelle globali. I dati sono estrapolati dalle proiezioni di uno dei più accreditati studi del settore (Assessing Ict global emissions footprint: Trends to 2040 & recommendations, L. Belkhir, A. Elmeligi, 2018), portato a termine prima della pandemia, che ha preso in considerazione tutto l’universo digitale, escludendo i televisori intelligenti, per mancanza di dati, le stampanti, l’Internet delle cose e l’elaborazione delle criptovalute (queste ultime sono estremamente energivore: le transazioni di bitcoins e simili comportano consumi ulteriori pari a quelli di uno stato come l’Irlanda o la Nuova Zelanda, tanto che un’azienda come Tesla ha deciso di non accettare più pagamenti in criptovalute ufficialmente per considerazioni di carattere ambientale).

LA PARTE PIU’ CONSISTENTE delle emissioni (il 45%, cioè 494Mt di CO2) è ascrivibile ai data centre, i centri elaborazione dati che contengono milioni di computer dedicati a questa funzione, i cosiddetti server. Seguono le strutture della rete di comunicazione (24%, 269 Mt) cioè l’insieme delle torri per i cellulari, i ripetitori, i routers disseminati in tutto il globo; i computer (13%); gli smart phone (11%); schermi e varie (7%).

TRA I DATA CENTRE, LA SPINA dorsale dell’Itc, ce ne sono circa 600 classificati come hyper-scale (contengono almeno 5000 server) che stanno crescendo al ritmo di 110 ogni 2 anni. Uno dei più grandi al mondo, The Citadel, nel Nevada, per funzionare è servito da una centrale termoelettrica da 815 MW, come quella di Vado Ligure. Secondo David Mytton, esperto di Ict del Centro per le politiche ambientali dell’Imperial College di Londra, «ci sono opinioni contrastanti sul fatto che i consumi di energia dei data centre continueranno a crescere oppure si siano già stabilizzati. Quello che è certo è che, come i nostri computer sono sempre più efficienti, così i computer dei server consumano progressivamente meno. Inoltre, il ricorso crescente al cloud consente economie di scala impensabili fino a poco tempo fa. Questo significa che la domanda più importante da porsi è da dove viene l’energia che alimenta l’Ict. La maggior parte è ancora fossile, quindi sarà il passaggio alle rinnovabili la chiave per mitigare l’impatto ambientale del settore».

TRA I BIG DEL DIGITALE, GOOGLE e Microsoft figurano come primo e secondo acquirente di energia da fonti rinnovabili (solare, eolico e mini-idroelettrico) negli Stati Uniti, pubblicano dati – ma solo aggregati – dei loro impatti ambientali, si dichiarano già carbon-neutral. Anche Tencent, il maggiore fornitore di sevizi cloud cinese, ha annunciato di recente l’intenzione di lavorare per la neutralità delle proprie emissioni e di cominciare ad approvvigionarsi da fonti rinnovabili. In Italia, Aruba può dichiarasi carbon-free perché ha acquisito la proprietà di 5 centrali idroelettriche (in Italia), oltre ad aver installato nuovi impianti fotovoltaici. La pecora nera è stata per anni Amazon, molto restia a fornire dati, con un vago impegno alla neutralità climatica per il 2040: alla fine di aprile, però, il colosso di Seattle ha svelato piani ben più ambiziosi, dichiarandosi primo acquirente globale ed europeo di energia rinnovabile.

PER FARE DAVVERO LA DIFFERENZA, però, i big del digitale dovrebbero aggiungere forniture di fonti rinnovabili alla rete e non limitarsi ad acquistare una fetta di quello che viene già immesso in rete. Lo sottolinea da tempo Greenpeace nella sua campagna Clicking Clean: Chi vince la gara per costruire un Internet verde?. «Le aziende che si pongono l’obiettivo di utilizzare fonti rinnovabili al 100% dovrebbero agire per apportare energie rinnovabili nuove e aggiuntive alla rete elettrica per contribuire a sostituire le fonti fossili, invece di limitarsi ad accaparrarsi capacità energetica già esistente». SOLO AMAZON RECENTEMENTE ha annunciato piani per lo sviluppo di nuovi impianti eolici e fotovoltaici in Usa e Europa. Inoltre, come sanno a Bruxelles, perché lo sottolinea uno studio del Joint Research Centre, centro di ricerca di riferimento della Commissione, non esiste ancora un quadro legislativo per limitare gli impatti dei consumi nei data centre: questi esistono per i singoli elettrodomestici, per gli edifici (Ape), ma non per strutture così complesse.

SONO GLI SMART PHONE, E LA LORO CRESCITA implacabile, l’inciampo maggiore degli obiettivi di de-carbonizzazione dell’Itc. In uso ce ne sono circa 5,6 miliardi e nel 2040 potrebbero diventare 8,7 miliardi. Con questi apparecchi ogni giorno vengono inviati 500 milioni di tweets, 65 miliardi di messaggi whatsapp, gran parte dei 294 miliardi di email e dei 3,5 miliardi di ricerche su Google. I consumi elettrici di uno smartphone sono molto bassi: per ricaricarlo nell’arco di un anno intero servono 4-8kWh (come alcuni cicli di lavatrice).

AD ESSERE ALTAMENTE ENERGIVORA è la fase di produzione dei telefonini: l’85-90% delle emissioni imputabili agli smartphone sono da ricondurre all’estrazione dei minerali e dei metalli che li compongono, e alla fasi di manifattura e trasporto. Per questo, secondo gli autori dello studio, è del tutto «insostenibile e dannoso per il clima e l’ambiente» continuare ad utilizzare questi apparecchi in media solo 2 anni, come i piani tariffari delle compagnie telefoniche ci spingono a fare (alcune anche solo 1 anno). Il consiglio ai decisori politici è di imporre almeno il raddoppio del periodo di vita utile degli smartphone tramite incentivi fiscali. L’Ue ha calcolato che allungare anche solo di 1 anno la vita degli smartphone da qui al 2030 equivarrebbe a togliere dalle strade 1 milione di automobili.

SU COME TAGLIARE LE BOLLETTE astronomiche dell’Ict i pareri non sono univoci. C’è chi invoca la sobrietà digitale, coma fa The Shift Project, un think tank francese che si occupa di de-carbonizzazione, e chi invece ritiene che la sostenibilità del sistema sia responsabilità dei fornitori dei servizi. «Come abbiamo sperimentato durante la pandemia, – dice Mytton – quando il traffico Internet è aumentato del 40% in un mese, faremo sempre più ricorso ai servizi dell’Ict. Le persone non vogliono ridurre, semmai aumentare il loro accesso ai servizi della rete. Dunque, sta agli operatori costruire servizi in modo ambientalmente sostenibile. Questo significa che devono impegnarsi per aumentare l’efficienza e fare sempre più ricorso alle energie rinnovabili».

SERVIRANNO SIA LA SOBRIETA’ sia l’efficienza. Lo sostiene Ale Agostini di Avant Grade, società di consulenza digitale che ha messo a punto il Karma Metrix, un programma che valuta l’efficienza energetica e l’impatto ambientale in termini di CO2 di un sito Internet. «Si tratta di un gioco-stima per far riflettere le aziende sul fatto che i siti devono essere non solo attraenti ma anche efficienti. L’algoritmo che sta alla base delle ricerche di Google valuta anche l’efficienza energetica dei siti: quindi un sito efficiente sarà anche più facilmente visibile e più facile da trovare. L’efficienza si può migliorare tenendo puliti i codici Html, alleggerendo alcuni elementi delle pagine, scartando dati vecchi che non si usano più e con altre semplici accortezze. Tutti noi, inoltre dovremmo diventare utilizzatori più consapevoli dei servizi di rete, imparando ad usare il necessario ed evitare il superfluo. Per questo abbiamo elaborato un decalogo che serve per ottimizzare lo spazio digitale».

Sorgente: Internet divora troppa energia e scalda la Terra | il manifesto

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