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La scelta per i migranti di passaggio in Libia è tra i barconi, con il rischio di morire in mare, e le galere sovraffollate. Medici Senza Frontiere: «Come può l’Italia fare finta di niente?»

di Goffredo Buccini

Le guardie hanno sparato nel mucchio, forse per placare il tumulto, in una cella dove sei umani si contendevano lo spazio vitale di uno, la notte tra l’8 e il 9 aprile. Così sono due profughi ragazzini di 17 e 18 anni, un morto e un ferito, le ultime vittime conosciute del «Centro di raccolta e rimpatrio» Al-Mabani, una delle cinque galere per migranti aperte attorno a Tripoli. Vittime ufficiali, s’intende: cioè quelle (poche) di cui Medici Senza Frontiere, una delle benemerite organizzazioni che riescono a mettere piede nella bolgia libica, può dare conto, raccontando che «la gente bloccata qui dentro per un periodo indefinito corre gravi rischi», come ha spiegato Ellen van der Velden, manager operativa della Ong. Pare si muoia facilmente, dopo essere stati «salvati».

Ad Al-Mabani a febbraio i migranti prigionieri erano trecento. Sono diventati in fretta mille e settecento perché la guardia costiera libica, da noi sovvenzionata, ne ha riacciuffati parecchi tra fine inverno e inizio primavera. Sopravvivono senz’aria né luce, con poco cibo e poca acqua, hanno spiegato i volontari di Msf. È così in tutti i campi sotto il controllo del Dcim (il Dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale) dove fughe e rivolte vengono stroncate nel sangue e dove all’inizio di marzo è stato impedito persino all’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati) di continuare a distribuire coperte, materassi e abiti. In Libia sono aperti in questo momento 15 campi governativi, con 4.152 migranti prigionieri, il 27% dei quali minorenni e il 12% donne (1.046 sono i più vulnerabili). «Le loro sconvolgenti condizioni di vita vanno peggiorando», testimoniano volontari che preferiscono restare anonimi. Solo a febbraio, il personale di Medici senza frontiere ha curato 36 prigionieri con fratture, abrasioni, ferite agli occhi e agli arti, gambe spezzate: tutti traumi recenti «a indicare che sono stati loro inferti nei campi di detenzione».

E i campi di detenzione di cui parliamo sono solo la punta dell’iceberg, neppure la più ignobile. Nel suo rapporto sui diritti umani, Amnesty International scrive che nel 2020 la guardia costiera libica ha «intercettato in mare 11.891 rifugiati e migranti, riportandoli indietro sulle spiagge libiche, dove sono stati sottoposti a detenzione arbitraria e indefinita, tortura, lavoro forzato ed estorsione». Ma neppure questi conti vergognosi tornano. Il capo missione dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Federico Soda, osserva che se gli ospiti dei campi ufficiali sono circa quattromila, mancano all’appello ottomila dei migranti catturati solo lo scorso anno. Alcuni vengono assistiti nei programmi dell’Unhcr o dell’Oim. Ma ne risultano svaniti ancora troppi. «Dobbiamo pensare che vengano trasferiti in campi non ufficiali, di cui nessuno conosce il numero», dice Soda. Di recente la Brigata 444 ha fatto irruzione nei centri clandestini di Bani Walid, liberando profughi torturati e stuprati, per ricondurli nel circuito formale. Ma la differenza tra strutture legali e illegali in Libia spesso è solo burocratica. E talvolta il percorso è inverso. Scrive Amnesty: «A migliaia sono sottoposti a sparizione forzata, dopo essere stati trasferiti in luoghi di detenzione non ufficiali, compresa la ‘Fabbrica del Tabacco’ di Tripoli, sotto il comando di una milizia affiliata al Gna (il governo nazionale). Di loro non s’è saputo più nulla».

Già dai rapporti Onu del 2018 era noto come profughi e migranti fossero catturati, seviziati e ricattati da gang spesso «parastatali», nelle quali confluivano banditi e funzionari governativi. Già da allora la famosa guardia costiera libica veniva definita alla stregua di una confraternita di pirati. A settembre dell’anno scorso l’Unhcr ha rilasciato una nota formale in cui si rigetta la nozione della Libia come posto sicuro di sbarco e «si invitano gli Stati a trattenersi dal rimandare in Libia qualsiasi persona salvata in mare». Nella mappa dei luoghi più mortali per i migranti in Africa, subito dopo il deserto tra Niger e Libia c’è la costa libica, con Bani Walid, Sabratha, Zuwara e Tripoli. E, appena venerdì scorso, l’Alto commissario Filippo Grandi è tornato a sollecitare «la fine delle detenzioni abusive», auspicando che «la nuova amministrazione libica dia segnali più forti di voler bloccare lo sfruttamento di migranti e rifugiati» (non va certo in questo senso la recente scarcerazione e promozione a maggiore della guardia costiera del trafficante Bija).

Tuttavia, questa storia ha un’altra faccia, che non è possibile ignorare. Un terreno minato per tutti i governanti italiani, sul quale si è mosso con fatica persino Mario Draghi nella sua visita a Tripoli, ringraziando la Libia «per quello che fa nei salvataggi». Frase impegnativa che, pur mitigata dal caveat sul «problema umanitario», ha provocato malumori e si presta in realtà a una domanda, non provocatoria, su chi siano davvero i salvati. Non i migranti, è di tutta evidenza, ormai. Dunque? Ancora una volta parlano i numeri. La crisi migratoria del 2014-17, con una media che si proiettava verso i 200 mila sbarchi l’anno, ha minato la nostra convivenza, trasformato i migranti in nemici e aperto autostrade (anche elettorali) all’estremismo xenofobo.Il contestatissimo memorandum libico firmato nel 2017 dal ministro pd Marco Minniti ha quasi chiuso i flussi. Ma è un gioco di pretese sempre al rialzo. Oggi la ministra Lamorgese è chiamata a ridiscuterne coi libici: noi chiediamo più umanità, loro più quattrini. Anche gli sbarchi, forse non casualmente, stanno crescendo: vanno triplicandosi, pur partendo dai numeri bassissimi garantiti dagli accordi coi guardacoste di Tripoli. Che da noi il fuoco covi sotto la cenere è dimostrato, ove servisse, dal Barometro dell’Odio 2021 di Amnesty: immigrati e minoranze religiose sono tra i bersagli preferiti degli odiatori online. «Non è questione che l’Italia può affrontare da sola», riflette Soda: «La mancanza di coerenza dell’Europa è grave». Abbandonati e soli alla frontiera delle migrazioni, dunque, i salvati siamo noi. Per adesso. Pagare buttafuori per garantirci la quiete non pare una strategia sostenibile a lungo.

Sorgente: Migranti in Libia, barconi o galere: come può l’Italia chiudere gli occhi?

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