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L’ex presidente della Repubblica Antonio Segni è raccontato in un libro del figlio Mario che tenta di smontare il presunto tentativo di golpe del 1964 denunciato dall’Espresso. Ma i documenti lo smentiscono

Il figlio dell’ex presidente della Repubblica Antonio Segni – morto nel 1972 e capo dello Stato dal 1962 al 1964 – , ha scritto un libro sul ruolo svolto dal padre nel corso della crisi dell’estate 1964, una delle più drammatiche della storia repubblicana (Il colpo di Stato del 1964, Rubbettino). Non si tratta propriamente di un instant book, essendo ormai trascorsi 57 anni dai fatti, ma l’autorevolezza di Mario Segni e la perentorietà delle sue tesi (“si tratta della più grande fake news della storia repubblicana”) appaiono meritevoli di alcune puntualizzazioni.

La vicenda, tenuta nascosta all’opinione pubblica, emerse soltanto il 14 maggio 1967, grazie alle rivelazioni del settimanale L’Espresso, allora diretto da Eugenio Scalfari, uscito con un’inchiesta a cura di Lino Jannuzzi intitolata Complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano un colpo di Stato. Le inchieste giudiziarie successive dimostrarono l’esistenza del cosiddetto Piano Solo, così denominato perché doveva vedere in azione unicamente i carabinieri. In base a questo “piano di contingenza”, se fossero sorti dei disordini di piazza, i militari dell’Arma avrebbero dovuto prendere il controllo dei principali centri strategici del Paese. Il piano era stato elaborato, a partire dal marzo 1964, dal generale Giovanni De Lorenzo, responsabile dei servizi segreti militari (Sifar) dal 1955 al 1962, che il 26 giugno 1964 lo comunicò in un incontro coi vertici dell’Arma. In quella circostanza egli aggiornò anche la lista dei cosiddetti “enucleandi”, già presistente, ossia l’elenco di 732 militanti della sinistra azionista, socialista e comunista del mondo politico, sindacale e culturale dei quali era previsto l’internamento nel caso in cui fosse scattata l’emergenza.

Secondo le memorie postume dell’ex ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani il piano prevedeva la loro deportazione anche in Sardegna, a Capo Marrargiu per l’esattezza, ove, nel 1990, si sarebbe scoperto che era stata stabilita, sin dall’ottobre 1956, la base di addestramento di Stay-Bhind, il cui atto istitutivo era stato seguito, sul piano militare, dal generale De Lorenzo e, su quello politico, da Taviani, quando Segni era presidente del Consiglio.
Le rivelazioni dell’Espresso ebbero l’effetto paradossale di trasformare De Lorenzo, che aveva partecipato alla Resistenza, nel prototipo del generale neofascista col “monocolo”. In realtà egli funzionò da parafulmine e da capro espiatorio per sfumare le responsabilità istituzionali, coraggiosamente denunciate dall’inchiesta del settimanale, che investivano anche il presidente della Repubblica Segni. Sia chiaro: in base alla documentazione nota e a quella superstite, il capo dello Stato, nel corso della crisi dell’estate 1964, non avallò mai un golpe ma alimentò il progetto di una “intentona”, ossia un tentativo di esercitare una pressione di tipo militare capace di condizionare gli equilibri politici e di frenare la spinta riformatrice del governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro.

Oggi sappiamo che, in quei frangenti, il dipartimento di Stato americano si oppose al progetto potenzialmente eversivo, preferendo puntare su un centrosinistra moderato in funzione anticomunista. Una scelta oculata in base alla quale, però, non si escluse che delle strutture della Nato potessero essere messe a disposizione dei carabinieri, nel caso in cui fosse scattata l’emergenza. Di certo, l’apposizione del segreto e di numerosi omissis da parte del presidente del Consiglio Moro ai documenti relativi alla crisi di quella estate o la loro deliberata distruzione e sparizione ostacolarono le indagini della magistratura e della successiva Commissione d’inchiesta parlamentare. Ad esempio, nel diario storico del Quirinale, a suo tempo vanamente richiesto dalla magistratura, non c’è traccia dell’incontro del 16 luglio 1964 tra Segni e De Lorenzo (questa è la data corretta, attestata dalle agende del generale e non quella del 14 luglio che comparve nell’articolo, peraltro assai informato, di Jannuzzi).

Così anche dal telegramma inviato il 26 giugno 1964 dalla base militare Usa da Verona per l’Europa meridionale risultava che gli statunitensi erano al corrente dell’esistenza di un piano che riguardava i carabinieri e che lo stesso presidente Segni ne era a conoscenza (“President Segni aware this plan”). Ma la frase in questione per lungo tempo è stata coperta dagli omissis americani ed è stata pubblicata nel 2012 nel volume Il riformismo alla prova, a cura di Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone (Fondazione Feltrinelli, pagg. 456), che Mario Segni non parrebbe conoscere.

La gestione della crisi del 1964 raggiunse gli effetti minimi sperati perché è indubbio che il centrosinistra, nei mesi e negli anni successivi, subì un processo di progressiva normalizzazione trasformandosi in una sorta di centrismo aggiornato sicché l’asse della politica italiana subì di nuovo una correzione verso destra. In ogni caso la vicenda è significativa anche per un secondo motivo in quanto rimanda al nodo della libertà di stampa in questo Paese e del ruolo svolto dal giornalismo di inchiesta nella sua storia. Scalfari e Jannuzzi vennero condannati per il loro lavoro in un processo dove le forze erano impari perché la controparte era rappresentata da un ex capo di Stato ancora vivo e dai vertici delle Forze armate e dei servizi nazionali. In quei mesi, però, scrissero una pagina gloriosa sul diritto di informazione che spiace notare come oggi non sia considerata un patrimonio comune del giornalismo italiano.

Il 7 agosto 1964 un ictus colpì Segni impedendogli l’esercizio delle funzioni presidenziali. L’incidente accadde a seguito di un acceso diverbio durante un colloquio con Moro e Saragat che il primo riferì nell’immediatezza degli eventi al suo collaboratore Corrado Guerzoni. Nella circostanza Saragat avrebbe accusato il presidente della Repubblica di avere “tramato” con i carabinieri in occasione del Piano Solo come lo stesso Guerzoni ha raccontato in un libro su Aldo Moro (Aldo Moro, Sellerio, pagg. 94-95) e sostenuto, con dovizia di particolari, in un’intervista registrata concessa al principale studioso del Piano Solo in Italia Mimmo Franzinelli.

Rispetto a questa ricostruzione, suscettibile come tutti i tentativi di interpretazione storica di essere oggetto di una costante revisione critica, cosa apporta di nuovo il libro del figlio di Segni? È una testimonianza interessante, riprova di un tenerissimo amore filiale di cui sarebbe sbagliato non tenere conto in un Paese pieno di buoni sentimenti come il nostro. A questo proposito non è inutile ricordare una frase di Francesco Cossiga, che sono certo il suo padrino politico Antonio Segni avrebbe apprezzato: “La grandezza politica dell’uomo non è necessariamente legata alla sua statura morale. Conoscere il male per averlo frequentato: è questa la caratteristica dei grandi leader politici così come dei santi”.

Sorgente: Il piano Solo e la libertà di stampa – la Repubblica

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