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La sala delle consultazioni a Montecitorio è silenziosa. Ma appena si apre la porta per un nuovo incontro, il premier incaricato avverte i rumori che vengono da fuori: sono le tensioni che percepisce nei ragionamenti di quanti vanno a parlargli, la loro incertezza su come andrà a finire. Il «metodo Draghi» è uguale per tutte le delegazioni. L’ex presidente della Bce fa una breve analisi sulla situazione del Paese, su una crisi che è insieme economica e sociale, scolastica e ambientale, contro la quale è necessario un approccio multidimensionale. Sui temi che non sono di sua competenza attende di ascoltare, sulle materie che gli appartengono ha una sua visione. E infatti annuncia a tutti che — dovesse ottenere la fiducia — la revisione del fisco sarà fondamentale, limitandosi per ora a illustrare la copertina del progetto. Sul resto delle riforme, prima di procedere, vorrà verificare cosa implementare e cosa scartare, per evitare la solita sovrapposizione di leggi.

Non si sente un salvatore della patria, e tiene a precisarlo quando dice che il suo approccio è umile, è quello cioè di chi inizia a vedere dall’interno cose che viste dall’esterno possono apparire deformate. Non si scopre, neppure quando le domande sono dirette. Perciò ogni qualvolta gli chiedono se i suoi ministri saranno tecnici o politici, risponde che il tratto decisivo è la competenza. Poi si dispone a prendere appunti, per accogliere proposte e suggerimenti. Un modo per conoscere e farsi conoscere, in attesa del secondo giro decisivo.

 

Ma c’è un limite oltre il quale s’intuisce che il tecnico è in realtà un politico. È accaduto ieri durante il colloquio con la delegazione del Pd, quando Nicola Zingaretti ha fatto presente che un programma di riforme può essere più forte se è sostenuto da una maggioranza coesa e omogenea: aveva evitato di porre veti ad altre forze politiche, aveva solo evidenziato che — con una composizione larga del governo — i provvedimenti rischiano di essere meno incisivi per effetto di inevitabili compromessi. È stato allora che, dopo averlo ringraziato, Draghi ha ricordato come la sintesi del programma spetti al premier: se la sintesi non piace, i partiti la possono bocciare. Dritto così.

D’un tratto sono apparse le colonne d’Ercole, la linea che separa le prerogative di chi è stato incaricato a formare il governo e le preoccupazioni dei partiti. Probabilmente il «metodo Draghi» sarà stato già applicato in altri incontri, di certo regolerà anche l’ultima giornata del primo giro di consultazioni. La verità è che, in attesa del secondo giro, fuori da quella stanza di Montecitorio si assiste a scene da girone dantesco. Rumori che presto raggiungeranno Draghi. Il Pd teme che la Lega possa entrare in maggioranza e confida che all’ultimo momento Matteo Salvini scarti per non lasciare campo libero a Giorgia Meloni. Se così non fosse, spingerebbe per una composizione tecnica della squadra, sapendo però che i grillini vogliono un gabinetto politico.

Mentre Draghi riceve, è tutto uno sgomitare di personaggi in cerca di poltrone. Si alimenta il mito della cartellina in cui l’incaricato terrebbe i nomi dei candidati e le alternative. Si vocifera di via vai dal Quirinale, dove ufficiali di collegamento dei partiti arriverebbero con i curricula dei candidati. Nel Pd ci si interroga sui posti, quanti, di che tipo, e se il capo del governo terrà per sé l’Economia. Appena giunge la notizia che Silvio Berlusconi ha telefonato a Draghi, Forza Italia si divide tra chi spera che il Cavaliere gli abbia consigliato una soluzione politica e chi teme che abbia indicato tecnici d’area.

C’è infine il «caso Conte», al quale il Pd avrebbe proposto la candidatura a sindaco di Roma o quella in un collegio toscano che è vacante. Il premier uscente, che è indeciso, starebbe anche valutando l’offerta grillina di entrare nel governo alla Farnesina, come aveva anticipato sul Corriere Monica Guerzoni. Sarebbe la vendetta contro Luigi Di Maio e soprattutto sarebbe clamoroso se finisse per sedersi accanto all’ex presidente della Bce. Se non altro perché ha fatto di tutto per sabotarlo. Fino alla sera dell’incarico, quando chiamò il senatore Andrea Causin, un «responsabile», per dirgli di tenere duro: «Ho il controllo del Movimento. Non voteranno la fiducia a Draghi e io tornerò al governo. Aspetta».

Sorgente: Tecnico o politico, Draghi espone il principio della competenza- Corriere.it

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