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I doveri del dottore

La legge 833 del 1978 all’art. 25 dice: «L’assistenza medico-generica è prestata dal personale dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale operante nelle unità sanitarie locali o nel Comune di residenza del cittadino». Tra le due alternative, la scelta è caduta sulla libera professione in convenzione (legge 502 del 1992, art. 8), vuol dire che il lavoro dei medici di famiglia è disciplinato da accordi collettivi triennali sottoscritti dalle loro rappresentanze sindacali e dalla Conferenza Stato-Regioni. Ogni prestazione aggiuntiva deve quindi passare da una contrattazione sindacale.

L’accordo in vigore prevede che lo studio debba essere aperto 5 giorni a settimana, e il numero di ore dipende dal numero di assistiti: va dalle 5 ore settimanali fino a 500 pazienti, alle 15 per 1.500 assistiti, numero massimo consentito. La visita domiciliare deve essere eseguita nel corso della stessa giornata, se la richiesta avviene entro le ore 10, altrimenti entro le ore 12 del giorno successivo . L’organizzazione delle visite a casa, comunque, poi spetta al medico. La paga forfettaria complessivamente arriva più o meno a 86 euro a paziente. Calcolando che ogni medico ha mediamente 1.200 assistiti, lo stipendio annuo è di circa 104.000 lordi. Le spese a loro carico.
Chi deve assistere il paziente a casa

Per l’Agenzia italiana del Farmaco, il medico di famiglia deve fare la «vigile attesa» nella fase domiciliare del paziente, e trattare di fatto solo i sintomi febbrili. Il decreto dell’8 aprile 2020 dice che devono sorvegliare a casa i pazienti fragili e cronici gravi. A Milano sono stati segnalati ai dottori dall’Ats 127.735 malati da contattare telefonicamente per verificare la necessità di un supporto sociale, della terapia assunta e delle condizioni cliniche generali. L’incentivo previsto è di 3 euro a paziente. Ebbene, ne sono stati presi in carico solo 48.624. Gli altri 79.110 sono rimasti scoperti. Parliamo di pazienti il cui rischio di morte, in assenza di vigilanza, è di otto volte superiore. Lo stesso decreto sollecita i medici del territorio ad occuparsi dei loro pazienti in quarantena, o dimessi dagli ospedali ma non ancora guariti, attraverso il controllo telefonico o visite a domicilio. Di fatto ognuno decide per se stesso: chi vuole lo fa (abbiamo visto medici prodigarsi oltre i limiti umani senza attendere il decreto), chi non vuole non lo fa. Va detto che la distribuzione di dispositivi di protezione individuale, è arrivata con il contagocce, come anche la disponibilità di saturimetri (e ancora peggio va per gli strumenti minimi di diagnosi come l’ecografo toracico, al momento non pervenuti).

Per coprire questo «buco» di assistenza sono stati incaricati i Dipartimenti di Prevenzione delle Asl di fare le telefonate quotidiane per verificare lo stato di salute (temperatura, grado di ossigenazione misurato con saturimetro e test del cammino). Funziona un po’ si e un po’no, visto che il personale è sempre lo stesso. Invece per le visite a domicilio sono state create le Usca, ma sulle 1.200 previste, e finanziate con 721 milioni di euro, ne sono state istituite secondo gli ultimi dati disponibili la metà (Dl n. 14 del 9 marzo 2020, art. 8).
I test rapidi al via

Intanto il virus corre. Per una identificazione veloce dei focolai e l’isolamento dei casi, il 28 ottobre l’accordo collettivo nazionale in vigore è stato integrato su proposta dei ministri Roberto Speranza e Francesco Boccia: i medici di base sono chiamati a fare i test antigenici rapidi ai loro pazienti sospetti e ai relativi contatti stretti asintomatici. La retribuzione aggiuntiva è dai 12 ai 18 euro a tampone. Il 4 novembre il commissario straordinario Domenico Arcuri ha iniziato la distribuzione di 50 mila kit al giorno e oltre 3 milioni di pezzi a settimana di mascherine, visiere, guanti e tute. A questo si aggiunge la dotazione delle Regioni. I medici che non li fanno possono essere sottoposti a procedimento disciplinare. Ma l’accordo è sottoscritto solo dalla Fimmg che rappresenta il 63% dei medici di famiglia, e pure fra questi ci sono contrari e pronti a restituire la tessera sindacale. Il problema più ricorrente: gli studi sono dentro ai palazzi e i condomini si oppongono perché temono il va e vieni di contagiati. E’ però possibile farli in aree esterne messe a disposizione dai Comuni. Sta di fatto che la categoria è in subbuglio: in Lazio, per ora, hanno dato la disponibilità in 341 (su 4.600). In Veneto il governatore Luca Zaia ha firmato un’ordinanza: tutti i 3.198 medici di medicina generale sono obbligati a effettuare i test rapidi ai propri assistiti pena la perdita della convenzione. Il numero di adesioni in Emilia-Romagna è in alto mare, in Lombardia si conoscerà solo nei prossimi giorni.

Il giuramento di Ippocrate

Sono comprensibili le paure (la maggior parte di loro ha un’età compresa fra i 50 e 60 anni), e condivisibili i timori per il carico di responsabilità che nessuno ha definito, ma ogni medico il giorno della laurea giura «di prestare soccorso nei casi d’urgenza e di mettermi a disposizione dell’Autorità competente, in caso di pubblica calamità». Negli ospedali, abbiamo visto, nessuno è stato tanto lì a discutere. Quello che sappiamo è che, anche per la semplice richiesta di esecuzione del tampone tradizionale, da marzo a ottobre a Milano il 39% dei casi sospetti Covid ha dovuto arrangiarsi da soli, mentre quelli segnalati dai medici di base sono stati il 61%. Fra questi c’è chi si è tirato il collo (l’8% ha segnalato oltre 200 casi) e chi ha fatto il meno possibile (il 20% si è fermato a 50 casi).

In ogni caso nell’accordo con i sindacati nulla è stato previsto sulle visite a domicilio che consentirebbero agli ospedali di mandare a casa un po’ di pazienti. Ci sono solo iniziative in ordine sparso: il 30 ottobre la Regione Lazio ha fatto una call per trovare medici generici disponibili a fare le visite a domicilio nei primi due giorni di comparsa dei sintomi. Ci sarà anche un compenso economico, ma il quanto non è esplicitato nel bando.
I paradossi

Da mesi l’ordine è: potenziare la medicina del territorio. Nei fatti però i medici di base sono considerati dall’inizio una categoria di serie B, per almeno tre ragioni. 1) La borsa di studio dei neolaureati che si iscrivono al corso di formazione triennale per diventare medici di famiglia è di 11 mila euro l’anno, sono soggetti a Irpef e con contributi a carico; mentre quella per chi sceglie il corso di specializzazione è di 26 mila, contributi inclusi e senza Irpef. E’ evidente che il giovane laureato punterà alla specialità, anche se deve pagare 2.400 euro l’anno in media di retta universitaria. 2) Ne vengono formati sempre meno di quelli che servono: lo scorso anno 2.864 medici di medicina generale sono andati in pensione, ma sono solo 1.765 le borse di studio previste; nel 2020 scendono a 1.032 per sostituire 3.493 che quest’anno smettono l’attività. 3) Il finanziamento per i corsi di formazione triennale è di 38 milioni l’anno, la stessa cifra del 1989.

 

 

Sorgente: Corriere della Sera

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