Morti sul lavoro: dal caso Thyssen alla Torre Piloti di Genova | Rep
Inchiesta sulla più silenziosa delle stragi. Perché in Italia, ogni giorno, tre lavoratori perdono la vita nell’indifferenza di tuttidi CARLO BONINI (coordinamento editoriale e testo), SARAH MARTINENGHI (Torino), MARCO PATUCCHI (Roma). COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI. GRAFICHE E VIDEO A CURA DI GEDI VISUAL
L’Italia celebra l’11 ottobre la sua settantesima giornata nazionale per le vittime del lavoro. E mai come quest’anno nella ricorrenza, nei numeri di una strage silenziosa che non conosce contrazioni, sono le stimmate della cattiva coscienza del nostro Paese, della sua distratta e cinica classe dirigente. Da gennaio ad agosto di quest’anno, 830 donne e uomini hanno perso la vita uccisi dal lavoro. Uno ogni 8 ore. Dal lunedì alla domenica. In cantieri non a norma, nelle campagne, negli anfratti dell’economia in nero. Abbiamo dato un volto e dei nomi ad alcuni di quei caduti, provando a restituire il senso di una statistica rubricata nei database dell’Inail alla voce “denunce con esito mortale”. Un viaggio in una notte di cui non si vede la fine. Espunta dal nostro racconto quotidiano, perché considerata parte del paesaggio. Come l’alternarsi del sole e della pioggia. Dove i morti vengono sepolti e dimenticati in fretta e i sopravvissuti convivono con il senso di colpa di avercela fatta e il tormento di un trauma di cui è impossibile cancellare il ricordo. Come Antonio Boccuzzi, operaio della Thyssen di Torino, unico superstite del rogo del 6 dicembre 2007. Simbolicamente, la madre di tutte le stragi sul lavoro. Non solo per le ragioni che la provocarono. Ma per la solitudine e il disinteresse in cui si è spenta la vicenda giudiziaria che pure, nella sua sentenza di primo grado, sembrava destinata a costituire le fondamenta di una nuova cultura della sicurezza e della prevenzione nei luoghi di lavoro.
“Un crimine di pace”
“È un crimine di pace e sa perché non si riesce a frenarlo? Perché i morti non votano”. Il giudice Bruno Giordano si ferma un attimo percorrendo uno degli interminabili corridoi del “palazzaccio” e la sua voce buca il silenzio irreale del Palazzo di Giustizia in piazza Cavour a Roma, il mastodontico transatlantico di travertino che ospita la Corte Suprema di Cassazione.
Già, i morti non votano. Non voteranno più Davide, 22 anni, e Francesco, 25, i due fratelli Gennero che qualche settimana fa hanno chiuso gli occhi per sempre a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Una staffetta struggente iniziata nel silos per lo stoccaggio del mais dell’azienda agricola di famiglia a Madonna del Pilone di Cavallermaggiore, pianura cuneense, quando Davide si è accasciato soffocato dai gas di fermentazione e il fratello non ci ha pensato un attimo a calarsi giù per soccorrerlo, svenendo a sua volta. Davide è morto quel mattino stesso nel silos, Francesco qualche giorno dopo in ospedale.
“Gabriele aveva 25 anni ed era pieno di sogni che non è riuscito a realizzare” dice Massimo Di Guida, il padre di Gabriele, morto in fabbrica il 10 aprile 2019 a Cavenago, in provincia di Monza e Brianza. Di Massimo Pisa, video di Edoardo Bianchi
I morti non votano. Non voterà mai più il magazziniere modenese di quarant’anni che, la settimana scorsa, è rimasto schiacciato tra due autocarri nel piazzale antistante il magazzino di un’azienda tessile. Non voterà mai più Gabriele Di Guida, 25 anni, stritolato da una macchina robot in una fabbrica del milanese, così come Giuseppe Tusa, una vita spezzata, ad appena trent’anni, dal crollo della torre piloti del porto di Genova: 9 vittime nel 2013.
Adele Chiello Tusa, mamma di Giuseppe, una delle nove vittime del crollo della torre piloti di Genova, avvenuta il 7 marzo 2013 e il suo impegno perché non si ripetano tragedie come quella in cui perse la vita suo figlio. Di Marco Lignana e Matteo Macor
Salvatore Pellegrinello invece ha continuato a votare, ma ogni volta nell’urna, prima di segnare con la matita la sua scelta, sfiora con le dita quella cicatrice che dal collo percorre tutto il braccio: una decina di anni fa è rimasto sospeso a oltre cento metri di altezza dopo che il cavo della gru che stava riparando gli aveva lacerato carne, muscoli e tendini. Una settimana di coma e il respiro riacciuffato quando ormai sembrava finita. E poi la via crucis giudiziaria che ancora oggi non vede la parola fine.
Salvatore Pellegrino, installatore di gru, nel 2009 è vittima di un incidente che lo terrà in coma dieci giorni e che lo renderà inabile al proseguimento della professione. La ditta appaltatrice era senza coperture assicurative, perciò Salvatore non ha ricevuto alcun risarcimento. Di Marco Patucchi
I morti non votano. Non potranno farlo più gli 830 caduti sul lavoro (“denunce con esito mortale”, recita con freddezza burocratica il database dell’Inail) dall’inizio dell’anno a fine agosto: oltre tre persone di media al giorno, uno ogni otto ore, che escono di casa per andare al lavoro e non tornano più. Per andare al lavoro, non in guerra.
“È un crimine di pace”, ripete Giordano che oggi è magistrato di Cassazione e insegna diritto della sicurezza del lavoro alla Statale di Milano, ma che per vent’anni, prima a Torino e poi a Milano, è stato il pretore di processi simbolo come quello del 1995 per l’amianto, l’anno dopo quello che ha condannato le compagnie petrolifere per inquinamento da benzene, i primi processi sui tumori professionali o sugli effetti dell’attività da videoterminale. “Ho firmato io quasi tutte le sentenze di Raffaele Guariniello”.
Non hanno mai più votato le quattro operaie che, esattamente nove anni fa (il 3 ottobre del 2011), morirono sotto le macerie della maglieria di Barletta, in Puglia, in cui lavoravano in nero: un locale a pianterreno che rimase sepolto dal crollo di una vicina palazzina in costruzione. E non aveva neanche mai votato la bambina di dieci anni che era andata a trovare la mamma in quel laboratorio.
Proprio in questi giorni è atteso il deposito delle motivazioni della sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna per sei degli otto imputati del processo in Appello (all’inizio del primo grado, nel 2015, erano in quattordici tra progettisti, costruttori, vigili urbani e funzionari del Comune di Barletta). Delle contestazioni di reato iniziali (disastro colposo, omicidio colposo e lesioni colpose plurime, omissione di atti d’ufficio, violazione di norme antinfortunistiche) è rimasta ben poca cosa.
“Ma quel processo è stato comunque importante – racconta Giordano – perché l’incidente, causato dal crollo di un cantiere edilizio adiacente oggetto di ripetute e inascoltate segnalazioni da parte delle operaie del maglificio, ha portato alla sbarra i responsabili degli atti amministrativi e non solo i datori di lavoro, insomma lo Stato che doveva prevenire e controllare”.
Un decesso ogni tre ore
Sono i numeri a ritmare come un metronomo la Spoon River infinita di quelle che un tempo venivano definite “morti bianche”, come esistessero diverse gradazioni del dolore e, soprattutto, delle responsabilità. Vediamo quelli ufficiali più aggiornati, continuando a pensare che ogni giorno che è passato e che passerà, la contabilità aggiungerà altri tre nomi di caduti sul lavoro.
E non si tratta di “pesare” statisticamente la morte, perché ogni vita strappata è una tragedia incommensurabile e altrettanto vittime sono le migliaia di genitori, mogli, figli e fratelli che hanno visto stravolto da un momento all’altro il proprio futuro. La stessa Inail avverte che i confronti e le analisi sull’andamento statistico vanno ritenuti “poco significativi”, perché il lockdown per Covid tra il 9 marzo e parte di maggio ha determinato il calo delle denunce d’infortunio nel complesso.
Mentre, d’altro canto, l’inclusione nel database delle denunce relative a infezioni da coronavirus avvenute in ambiente lavorativo o per l’attività professionale stessa, ha determinato un impatto significativo sull’aumento dei decessi. Eppure, anche al netto di queste eccezionalità, Spoon River ha proseguito il suo corso inesorabile e, anzi, proprio la pandemia di Covid che, per tanti versi, avrebbe potuto rappresentare un’occasione di intervento strutturale nella sicurezza sul lavoro, si è rivelata un paradossale alibi per la politica e per le istituzioni che, con l’arrivo dell’emergenza, hanno ulteriormente frenato quel poco di impegni e programmi avviati. Quantomeno a parole.
Vediamoli, dicevamo, gli ultimi numeri. Da gennaio a tutto agosto le denunce all’Inail di incidenti sono state 322.132 (284.131 sul posto di lavoro, 38.001 “in itinere” cioè accaduti nel tragitto di andata e ritorno tra casa e il luogo di lavoro), in calo di circa 95mila casi rispetto alle 416.894 dei primi otto mesi 2019 (-22,7%).
“Questa diminuzione – spiegano all’Inail – è influenzata dal sostenuto calo delle denunce tra marzo e agosto, con 91mila casi in meno rispetto marzo-agosto 2019 (-29,3%) e questo soprattutto per lo stop forzato tra marzo e maggio di ogni attività produttiva considerata non essenziale per il contenimento dell’epidemia e per le difficoltà incontrate dalle imprese nel riprendere la produzione a pieno regime nel periodo post-lockdown”.
I decessi sono stati 823, vale a dire 138 in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (+20,1%), a causa delle morti “protocollate” quale effetto dell’infezione da Covid in ambito lavorativo.
Il triste primato delle fabbriche
In termini assoluti si muore di più nelle fabbriche (721 denunce) rispetto all’agricoltura (70) o lavorando per lo Stato (32); più al Nord-ovest (298) che al Sud (165), al Nord-Est (161), al Centro (147). Settecento sono stati i decessi tra i lavoratori italiani, 41 tra i lavoratori comunitari, e 82 tra gli extracomunitari. Vite, storie, nazionalità, passioni, famiglie. Mondi interi cancellati da un giorno all’altro, sotto lo sguardo distratto di qualche passante e la disperazione dei colleghi. Un trafiletto nella cronaca locale e le frasi di circostanza della politica.
Le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail sempre nei primi otto mesi di quest’anno sono state 27.671, 13.271 in meno rispetto allo stesso periodo del 2019 e, anche in questo caso, di riflesso al lockdown visto che a pesare sulla flessione è il calo delle denunce tra marzo e luglio.E proprio l’effetto Covid emerge a tutto tondo da altri dati: nel solo settore “Sanità e assistenza sociale” le denunce di infortunio in occasione del lavoro sono balzate del 124% nei primi otto mesi 2020 (da 18mila a 40mila casi), con punte di oltre il +500% a marzo e del +450% ad aprile. E due denunce su tre hanno riguardato il contagio da Covid.
La legge come la tela di Penelope
Insomma, la classe operaia continua ad andare in paradiso ogni giorno e ai numeri ufficiali andrebbero aggiunti quelli ancora più inquietanti delle vittime del lavoro in nero. La politica in questi anni si è indignata, ha solidarizzato e annunciato, poi è rimasta ferma. “L’emergenza Covid ci ha insegnato che serve un sistema pubblico di prevenzione, ma temo che l’occasione non sia stata colta e che, dunque, torneremo a piangere lacrime di coccodrillo – ragiona Giordano –. Si sono varati decreti legge e, notte tempo, si sono schierate in campo tutte le forze, esercito e prefetti compresi.
È il paradigma di tutto quello che si è fatto e, soprattutto, non si è fatto in passato”. Fin dal 1978, quando la legge 833 ha istituito il Sistema sanitario nazionale assegnando alle Asl (che allora si chiamavano Usl) la competenza generale su prevenzione e salute nei luoghi di lavoro. Una distribuzione territoriale dei ruoli che ha determinato negli anni l’inevitabile movimento disarticolato delle Regioni con un unico comun denominatore: la scarsità di risorse e la riduzione degli organici degli ispettori che, oggi, sono scesi a un totale di 2.500.
Dalla legge 833 in poi, la sicurezza del lavoro è rimbalzata da un intervento normativo all’altro: nel 1994 il Decreto legislativo 626 ha recepito tardivamente quanto ci chiedevano le direttive europee, provando a regolamentare la sicurezza sui luoghi di lavoro. Nel 2001, un altro decreto introduce nel nostro Paese la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: imprese, società e associazioni risponderanno per reati commessi dal personale nell’interesse dell’azienda stessa e, qualche anno dopo, la responsabilità verrà estesa anche agli infortuni sul lavoro.
Con la Legge delega 123 del 2007, il governo si impegna a procedere al riassetto e alla riforma delle disposizioni in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, in conformità all’articolo 117 della Costituzione, impegno poi rispettato l’anno successivo con il Testo unico (noto anche con gli acronimi Tus o Tusl): un complesso di norme con l’ambizione di aggiornare e rimettere in ordine l’intera materia.
Un’ambizione, appunto, rimasta sulla carta e scompaginata di nuovo nel 2015 dal Jobs Act del governo Renzi. “C’è uno scollamento tra regole formali e tutele sostanziali – sottolinea Maria Giovannone dell’Anmil (Associazione nazionale lavoratori mutilati e invalidi del lavoro), che ha curato il rapporto annuale sulle vittime del lavoro – e la colpa è solo in parte della mancata semplificazione e completamento della disciplina sulla prevenzione. A undici anni dall’entrata in vigore del Testo unico sicurezza, sono ancora una ventina i provvedimenti da attuare”.
Un coacervo di interventi, per lo più “obbligati” dal pressing europeo, senza mai risolvere un’emergenza che i numeri, appunto, definiscono quotidiana. Mentre il caos di competenze e ruoli, tra Stato, Regioni, Asl, ispettori del lavoro, Inail, Inps e chi più ne ha più ne metta, ha di fatto vanificato ogni idea di riforma. Ci aveva provato anche il Jobs Act istituendo l’Ispettorato nazionale del lavoro, di fatto l’accorpamento degli ispettori Inps, Inail e del ministero, ma le resistenze burocratiche e sindacali hanno fatto naufragare miseramente il progetto che non è arrivato neanche all’obiettivo minimo della banca dati unica.
“Senza contare che anche l’Ispettorato nazionale avrebbe comunque dovuto coordinarsi con le Asl – spiega ancora Giordano –. Sarebbe stato comunque un primo passo importante. Invece niente, siamo al solito caos. E mentre si sono fatte authority in ogni settore, l’agenzia unica per la sicurezza del lavoro resta nel libro dei sogni”.
I governanti, i controllori, gli accusatori
Otto imprese su dieci fuori regola
Così oggi un’azienda continua a ricevere, magari nel giro di poche settimane, la visita di almeno tre ispettori diversi. Incongruenza che si aggiunge all’endemica carenza di organici. Secondo i dati Anmil, lo scorso anno l’azione ispettiva ha riguardato un totale di appena 142mila aziende e di queste oltre 99mila sono risultate irregolari.
Considerando il solo ambito della salute e sicurezza sul lavoro, i numeri sono ancora più eclatanti, per scarsità di ispezioni e incidenza delle irregolarità: 15.859 aziende fuori norma su 18.466 accertamenti definiti, cioè un tasso di irregolarità dell’86%. Carenze insopportabili se si considera che nel frattempo, tra piattaforme digitali, smart working, riders, e quant’altro, il mondo del lavoro si sta completamente trasformando. “La sicurezza non è più un concetto sanitario – dice Giordano – ma organizzativo. Non basta più l’ispettore che controlla se le scarpe dell’operaio sono a norma. Qui in Italia siamo ancora fermi agli anni Settanta…”.
E quasi sempre se ne vanno vite precarie, di chi non ha fatto in tempo a conoscere la dignità del lavoro. È successo in un giorno di luglio di due anni fa, quando più o meno nello stesso momento in una cava delle Alpi Apuane un operaio di 37 anni con un contratto di lavoro della durata di appena sei giorni, è morto schiacciato da una lastra di marmo e a Campodarsego, Padova, un ragazzo al primo giorno di lavoro ha perso la vita precipitando da un macchinario che stava imballando per conto di una ditta. Perché è evidente che la sicurezza è inversamente proporzionale alle tutele, ai diritti, alla formazione.
Nell’era dell’industria 4.0 li abbiamo chiamati “fast jobs”, come se un nome ammiccante mimetizzasse meglio la desolazione di contratti a zero tutele. Ne sanno qualcosa, appunto, i fattorini ribattezzati riders senza però guadagnare un solo diritto in più.
Il libro delle promesse
Anche l’ultimo governo e l’attuale Parlamento non hanno mancato di aggiungersi alla lista delle grandi promesse con annesse delusioni. La ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, un minuto dopo l’insediamento ha annunciato che quello della sicurezza del lavoro sarebbe stato il primo punto nell’agenda del proprio mandato, prefigurando “un’azione da concretizzarsi in diversi interventi di legge”.
Tutto si è risolto, però, nell’insediamento di tavoli con le parti sociali e nell’avvio di una consultazione pubblica, di cui si sono perse le tracce da mesi (qualcuno ha sollevato il grottesco alibi dell’emergenza Covid, cioè di un caso che impatta proprio sulla sicurezza del lavoro). La stessa Catalfo ha stanziato nell’ultima manovra finanziaria 6 milioni di euro in tre anni al fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di infortuni sul lavoro. Ma nell’ultimo triennio sono state tagliate di mezzo miliardo le risorse per la prevenzione, sono state ridotte le tariffe Inail e, secondo la Cassazione, anche i risarcimenti.
Si è persa nelle sabbie mobili del Senato la proposta dell’economista Tommaso Nannicini (Pd) di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta su sicurezza del lavoro e sfruttamento, così come varie proposte di legge in materia. E alla Camera non ha avuto alcun seguito l’ordine del giorno, sempre a firma Pd, per l’estensione della copertura Inail ai Vigili del Fuoco, perché, incredibile ma vero, in Italia quelli che il politico di turno esalta definendoli “eroi” e piangendo lacrime di coccodrillo dopo ognuna delle sciagure che flagellano il nostro Paese, devono pagarsi l’assicurazione privata contro infortuni e malattie professionali.
“Ma sia chiaro che oltre alla politica, anche la magistratura ha le sue colpe – dice Giordano con il tono di una mezza autocritica –. Nell’ultimo decennio si sono contati quasi 15mila morti sul lavoro, ma ci sono stati non più di duecento processi. Dunque, non è solo un problema dello Stato o delle Regioni che non investono in prevenzione e sicurezza, che non fanno assunzioni. Anche l’attività giudiziaria non va e, secondo me, per un eccesso di prudenza, cioè per evitare di danneggiare l’attività produttiva nel Paese”.
Prima di eclissarsi, il tavolo di confronto tra governo, parti sociali e istituzioni aveva prodotto una prima serie di idee. Una patente a punti da assegnare alle imprese in base al grado di impegni e investimenti sul fronte della sicurezza: più alto il rating, maggiori le possibilità di accedere agli appalti pubblici. Il rafforzamento dei corpi ispettivi, procedendo ad almeno una parte delle 1.400 assunzioni già decise ma mai attuate nell’Ispettorato nazionale del lavoro. Creazione della fantomatica banca dati unica tra Inl, Inps, Inail e Asl. Investimenti nella formazione, magari utilizzando il surplus di bilancio della stessa Inail, che in precedenza aveva reso possibile il taglio delle tariffe assicurative alle imprese.
Solo suggestioni. Le riunioni al tavolo ministeriale si sono eclissate a gennaio e da allora i caduti sul lavoro sono stati un altro migliaio. Gli ultimi in ordine di tempo mentre scriviamo queste righe: tra i capannoni dell’area industriale di Botriolo, in provincia di Arezzo, un operaio è rimasto schiacciato dalle ruote anteriori di un camion-betoniera. Constantin Danut Macovei, un operaio romeno di 42 anni, è precipitato a Forlì dal tetto di uno stabile in fase di ristrutturazione. Spoon River continua a scorrere inesorabile.
Tragedie sconosciute e stragi epocali, come i 136 minatori italiani scomparsi nel 1956 in Belgio nel crollo di Marcinelle, le 7 vittime della Thyssen di Torino nel 2007, chi è precipitato con il ponte Morandi mentre andava al lavoro o stava lavorando nell’agosto di due anni fa e, sempre in quella maledetta estate, i 12 immigrati morti nello scontro frontale nel 2018 tra un tir e il furgone che li portava al lavoro nella campagna pugliese. Anime perse che un attimo prima di chiudere gli occhi avranno magari pensato nel loro dialetto, nella loro lingua, quello che Francesco De Gregori ha scritto in una canzone:Sono solo un operaio
Lungo la massicciata
Il mio pane sa di polvere
La mia acqua è salata
E lavoro per la ruggine
E respiro il carbone
Costruisco per niente
E non ne vedo la fine”Francesco De Gregori
Thyssen. La ferita mai rimarginata
Le voci di Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Giuseppe e Rosario. I loro volti sorridenti. Le mani che lavorano, che si passano oggetti, che premono bottoni. Le risate per una battuta lanciata da dentro alla sala comandi, il “pulpito”, per sdrammatizzare la fatica di un turno durato troppe ore, che anche quella sera sforava in uno straordinario forzato fin dentro al cuore della notte.
E poi la carta inceppata da rimuovere in continuazione, un piccolo fuoco che divampa per la cascata di scintille dovuta a un attrito della lamiera sul nastro trasportatore, nel rumore incessante della lavorazione dell’acciaio, lungo la linea 5, quella di ricottura e decapaggio. Il pensiero, uguale a troppe altre volte: “Ora lo si spegne”. “Prendi l’estintore”, “Questo è scarico: non basta”, “Anche questo”, “Vai ad aprire l’acqua della manichetta”. “Lo faccio io”. In un attimo, l’esplosione micidiale: una nuvola di olio incandescente che alimenta lingue di fuoco nell’aria, che inghiotte tutta la squadra, strappando alla vita, uno dopo l’altro sette lavoratori.
Tutti tranne un solo operaio, protetto da un muletto, salvato per essersi accucciato ad aprire il rubinetto dell’acqua: un gesto che in quel momento ha segnato per lui il bivio tra la vita e la morte da ustione, poco dopo la mezzanotte del 6 dicembre 2007 alla Thyssenkrupp di Torino.
Dall’archivio di RepTv, il racconto di Antonio Boccuzzi, l’unico operaio sopravvissuto, la mattina dopo l’incidente: “I miei colleghi erano torce di fuoco”. Intervista di Niccolò Zancan, riprese di Alessandro Contaldo
Per tutti è “il sopravvissuto”. Antonio Boccuzzi da 13 anni convive con una definizione che lo accompagna dovunque vada e qualsiasi cosa faccia: il tempo trascorso da quell’incidente diventato simbolo di tutti gli infortuni sul lavoro, non ha cancellato nessuno dei suoi ricordi.
“Non posso e non voglio dimenticare quel che è successo” spiega con una serenità disarmante, che ha quasi il suono della saggezza che c’è nei racconti dei vecchi. “Ricordare per me è un’esigenza: sapevo che cacciare il ricordo di quella sera sarebbe stato impossibile, e allora ho deciso di non provarci nemmeno. Tutti mi chiedono dell’incendio, ma io voglio ricordare anche quello che è stato prima: le facce dei miei amici nel pulpito, le loro voci, le cose che ci siamo detti. Perché un attimo prima di quel maledetto rogo nella linea 5 c’era la vita. C’erano tutti i nostri sogni, che potevamo avere grazie allo stipendio della Thyssen: l’auto nuova, le scarpe da comperare, la famiglia da poter creare.
Un sogno che stavamo difendendo, anche quella sera, con il nostro lavoro in una fabbrica che sapevamo non essere più la stessa, con la linea 5 che di lì a poco sarebbe stata dismessa per essere trasferita a Terni, ma che per noi continuava a essere tutto. Quel che è successo per me è il simbolo di un sogno portato via, a tutti noi, che consideravamo la fabbrica come una “madre”. Una madre ma anche una crudele matrigna, un po’ come la natura per Leopardi, indifferente ai nostri sogni e capace anche di spezzare per sempre le nostre vite”.
L’ultima beffa
La memoria indelebile è diventata per Boccuzzi trampolino di un percorso politico (fino al parlamento per il Pd) e sociale che ancora oggi, ogni volta che viene chiamato a parlare nelle scuole o ai convegni di sicurezza sul lavoro, ruota intorno a quello che accadde la notte del 6 dicembre in corso Regina Margherita a Torino. Una ferita destinata a non rimarginarsi, in cui il destino da 13 anni sembra ancora continuare a divertirsi e mischiare beffe e illusioni continue. L’ultima è quella più amara. Il senso di giustizia negata che come uno schiaffo è arrivata dalla Germania all’Italia, quando l’ex amministratore delegato Harald Espenhahn, considerato il principale responsabile e per questo condannato in via definitiva a 9 anni e 8 mesi di carcere, ha ottenuto ancora una volta del tempo per evitare il carcere.
Un dribbling che gli è riuscito ancora una volta, nonostante tutte le rassicurazioni istituzionali che questo non sarebbe più stato possibile. Sarebbe dovuto entrare in un penitenziario tedesco il 16 luglio scorso. Ma proprio quel giorno gli è stata concessa una sospensione della pena in attesa che la Corte Costituzionale della Germania valuti la congruità della sua pena. “Una cosa incredibile. La dimostrazione del potere che si pone sopra la giustizia. Dove chi ha la possibilità di pagare gli avvocati per trovare qualsiasi cavillo legale a cui appigliarsi riesce a non farsi un giorno di carcere, mentre in Italia c’è chi, come il direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri, ha già scontato la propria pena”.
Per le madri delle sette vittime, le loro mogli, i figli nel frattempo cresciuti e diventati ragazzi o adulti, è stato sale gettato su una ferita rimasta aperta ormai da 13 anni. “Nessuna condanna avrebbe potuto essere ritenuta congrua, ma l’alternarsi di sentenze e processi e veder scivolare sempre più in là per i due manager tedeschi il traguardo del carcere è ancor più per loro comprensibilmente inaccettabile”.
Le condanne per l’incidente sul lavoro considerato tra i più gravi d’Italia ci sono state, e sono state travagliate ma comunque esemplari. Non alte, alla fine, come quelle che nel 2011 videro per la prima volta infliggere proprio a Espenhahn 16 anni e sei mesi di carcere, trasformando quello che era stato un gravissimo infortunio sul lavoro, per la prima volta nella storia giudiziaria, in un omicidio volontario con dolo eventuale.
“Un reato che avrebbe segnato davvero una svolta – spiega Boccuzzi – ma che poi non ha retto in appello riportando tutto a un salto indietro nel tempo. Ormai quella sentenza è totalmente sparita nella memoria del paese, ed è anche per questo che si continua a morire sul lavoro. Sapere di poter davvero scontare così tanti anni di carcere doveva essere un freno inibitore per quegli imprenditori meno virtuosi che mettono al centro di tutto il business e lo fanno sulla pelle dei lavoratori”.
Le indagini dell’allora procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, e delle due pm Francesca Traverso e Laura Longo erano state da record. Sei mesi per chiudere il cerchio su sei responsabili. Perquisizioni a sorpresa avevano portato prove inconfutabili e ricostruito con documenti e scambi di mail la situazione della fabbrica di corso Regina, uno stabilimento in agonia e abbandonato a se stesso dove la logica del risparmio aveva prevalso sulla sicurezza.
Flashfire
Lo ricorda ancora Boccuzzi: “La linea 5 avrebbe dovuto essere trasferita a Terni. Noi sapevamo che non era più “nostra”, che non c’erano più prospettive, ma eravamo aggrappati a quel lavoro che continuavamo a portare avanti con la dedizione di sempre. Spesso è stato detto che quella sera io e i miei compagni siamo stati degli eroi.
L’eroismo vero è stato avere questa consapevolezza di non far più parte della Thyssen ma di aver provato a difendere fino alla fine quella linea”. Gli incendi, piccoli spesso, ma a volte anche importanti, erano ormai all’ordine del giorno. Un sistema di rilevazione avrebbe dovuto essere il primo investimento da fare, e i dirigenti sapevano quanto fosse necessario. Ma con l’idea di portare la linea 5 a Terni, il progetto prescritto dall’assicurazione stessa era stato accantonato, portando ad accettare, secondo la tesi della procura, il rischio che qualcosa di grave potesse succedere ai lavoratori.
“Proprio il fatto di essere ormai abituati a spegnere il fuoco è stato uno dei fattori chiave di ciò che è successo. Per noi quell’incendio, la sera della tragedia, era una cosa fisiologica, non eravamo spaventati, non c’era più la paura o la sensazione di mettere a rischio la nostra vita. Era una cosa a cui eravamo abituati. Ecco perché quando vado ai convegni o incontro operai per parlare di sicurezza sul lavoro suggerisco loro due cose: di informarsi bene dei diritti che esistono e vanno rispettati, e poi di non abbandonarsi mai a quell’eccesso di confidenza che gesti abitudinari e consuetudini, a volte anche sbagliate, ti portano ad avere.
Noi quella sera, sbagliando, ci sentivamo in grado di fare tutto, ci credevamo scioccamente più potenti del fuoco. Forse la colpa sta anche nel fatto che la siderurgia è un settore in cui trasformi un materiale solido come l’acciaio in qualcosa che diventa totalmente altro, con la fusione. Ma il fatto è che invece eravamo inermi e l’unica cosa che pensavamo di fronte agli incendi costanti era “posso farlo anche questa volta, come ho sempre fatto sinora”.
Al processo davanti alla Corte d’Assise fu proiettato un filmato che ricostruiva quello che era avvenuto, poco dopo la mezzanotte del sei dicembre del 2007. Non fu un incendio uguale agli altri perché si ruppe un flessibile contenente olio idraulico alla pressione di 140 bar (corrispondente a quella che si può misurare sott’acqua a 1.400 metri di profondità) che venne sparato nell’aria come uno spray nebulizzato per un’estensione di 12 metri.
Il “Flashfire” travolse tutta la squadra. Il primo a perdere la vita fu Antonio Schiavone, aveva 36 anni ed era padre di tre figli. Il più piccolo Michele, aveva solo due mesi. “Oggi Michelino ha 13 anni – racconta Boccuzzi – e quando lo vedo penso che lui rappresenta esattamente il tempo che è trascorso da quel giorno. Ha conosciuto suo padre tramite solo i ricordi degli altri, e per questo quando mi vede mi chiede sempre di parlargli di lui, e spiegargli cosa faceva e com’era”.
A distanza di poche ore, il 7 dicembre, morirono anche Roberto Scola, 32 anni, Angelo Laurino, 43 anni, Bruno Santino, 26 anni. Il 16 dicembre Rocco Marzo, 54 anni, il più anziano. Tre giorni dopo fu la volta di Rosario Rodinò, di 26 anni, e il 30 dicembre di Giuseppe Demasi, anche lui di 26 anni.
A Torino, il murale in corso Valdocco per ricordare le vittime della Thyssen con l’ora della tragedia
La colpa di essere vivo
Non è facile per Boccuzzi scrollarsi di dosso il fardello di essere sopravvissuto quella notte. “Il senso di colpa me lo porto addosso, all’inizio era pesantissimo, e ammetto che ce l’ho ancora. Molti di loro erano più giovani di me, erano i miei amici, eravamo “noi”. E anche per questo il rapporto con le loro madri inizialmente è stato difficile e durissimo: nei loro sguardi leggevo il dolore più grande, e quella domanda: “Perché lui c’è e mio figlio no?”.
La stessa che mi facevo anche io. Inoltre io avevo un incarico sindacale che per qualcuno è stato anche letto in modo distorto. Ma poi con il tempo io sono diventato parte della loro famiglia. Eravamo solo noi in Cassazione a Roma, ad aspettare la sentenza. Non c’era nessuno della società civile o delle istituzioni. E il legame anno dopo anno si è rafforzato. Loro hanno capito che è anche per via di quel senso di colpa, di essere sopravvissuto che ho portato avanti il percorso politico, come un riscatto per tutti, il desiderio di battermi anche per loro”.
Sono stati cinque i processi penali affrontati. Dopo il primo grado, in cui oltre ai 16 anni e 6 mesi, vennero inflitte condanne tra i 10 anni e 10 mesi e i 13 anni e 6 mesi, nel 2013, in appello, la tragedia della Thyssen fu riportata nei ranghi dell’omicidio colposo per tutti i manager della Thyssen. A Espenhahn 10 anni, 9 a Daniele Moroni, 8 a Raffaele Salerno e a Cosimo Cafueri, 7 a Gerald Priegnitz e Marco Pucci. L’anno successivo, la Cassazione confermò l’impianto accusatorio ma stabilì che il processo doveva tornare in secondo grado per ricalcolare le pene.
Nel 2015, l’appello bis ritoccò di poco le condanne, rese definitive dalla Cassazione nel 2016: 9 anni e 8 mesi all’ex ad, 7 anni e 6 mesi a Moroni, 7 anni e 2 mesi a Salerno, 6 anni e 8 mesi a Cafueri e 6 anni e 3 mesi a Pucci e a Priegnitz. In Germania, però, la pena massima stabilita per un infortunio sul lavoro è al massimo di 5 anni. E così i due dirigenti tedeschi, tra un ricorso e l’altro, sono arrivati al 2020 senza effettive espiazioni della pena. Poi, a luglio, Priegnitz ha iniziato il regime di semilibertà, con il permesso di uscire dal carcere per andare al lavoro.
Mentre Espenhahn ha ottenuto la sospensione. “Ecco perché la tragedia della Thyssen continua ad essere non solo simbolica, ma totalmente eccezionale. Con il fatto che gli italiani hanno effettivamente scontato solo un anno e mezzo di carcere prima di iniziare ad avere dei benefici, e che i due tedeschi tra semilibertà e sospensione non hanno scontato davvero la pena, a 13 anni da quell’evento e a 4 dalla Cassazione rimane l’idea di una giustizia negata. Una cosa epocale si è ridotta a una sentenza banale, e in Italia di lavoro si continua a morire”.
I dati dimostrano che la percentuale di incidenti è in crescita. “Il trend è preoccupante – conferma Boccuzzi – gli infortuni mortali sono oltre il 20 per cento in più rispetto a un anno fa nello stesso periodo”. La Thyssen sembrava essere stata la tragedia in grado di cambiare le cose: “In parte all’inizio l’ha fatto, ad esempio ha portato alla nascita del decreto 81 sulla sicurezza sul lavoro. Ma adesso è tempo di fare un’analisi vera per comprendere quello che c’è ancora da fare”.
Servono più controlli e più investimenti, non solo per i lavoratori, ma anche per chi è delegato a controlli e ispezioni: “Serve una riflessione vera, in questo tempo di crisi, per far sì che non accada più quello che è successo quella sera e nemmeno il giorno successivo, quando alla Thyssenkrupp furono emanate ben 108 prescrizioni di sicurezza. Il segno che davvero, in una fabbrica, non si sarebbe mai dovuti arrivare fino a quel punto di insicurezza”.
Sorgente: Morti sul lavoro: dal caso Thyssen alla Torre Piloti di Genova | Rep
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