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Il rapporto annuale fotografa un Paese impoverito, segnato dalle diseguaglianze, dove si è fermato l’ascensore sociale. Drammatiche le previsioni sulla natalità: in due anni potrebbero nascere 30mila bambini in meno. Ma reggono la famiglia e la coesione sociale

di Maria Novella De Luca

Un paese incerto, impoverito, segnato da profonde diseguaglianze. Reso ancor più fragile dalla pandemia e dalla crisi economica che ne è seguita e ne seguirà. Dove resiste però, oggi come ieri, il saldo rifugio del nucleo familiare. E nel quale, a sorpresa, nei giorni più duri del lockdown, è emersa una forte coesione sociale, “manifestata nell’alta fiducia che i cittadini hanno espresso nei confronti delle istituzioni impegnate nel contenimento dell’epidemia, e in un elevato senso civico verso le indicazioni sui comportamenti da adottare”.

E’ questo il filo rosso del Rapporto Annuale dell’Istat 2020, che racconta un Paese affaticato, una drammatica crisi dell’occupazione che penalizza in particolare le donne, un digital divide che durante la pandemia ha lasciato indietro i bambini e i ragazzi più disagiati. Un’Italia in cui si è fermato del tutto l’ascensore sociale, in pratica la speranza di migliorare la propria condizione economica, rispetto alla famiglia di origine. Anzi, si legge nel rapporto Istat, per il 26,6% dei nati nell’ultima generazione (1972-1986) l’ascensore è diventato “mobile” verso il basso e supera, per la prima volta, la percentuale di coloro la cui posizione sociale si muove verso l’alto, cioè il 24,9%. Insomma l’ascensore sociale oggi per buona parte della popolazione non è più ascendente, ma discendente. Una doccia fredda sulla speranza.

Un’Italia in cui non si nasce più, nonostante il desiderio di maternità, ma che nelle previsioni dell’Istat rischia l’assoluto tracollo demografico. Secondo alcune simulazioni, afferma l’Istat, la paura e l’incertezza causate dalla pandemia porteranno entro il 2021 a un calo di 10mila nuovi nati, passando dai 435mila del 2020 a 426mila alla fine del 2021. Se però la crisi economica non dovesse alleggerirsi, la previsione diventa tragica: i nati, sempre alla fine del 2021, potrebbero scendere, addirittura, a 396mila. In pratica un’Italia senza più figli.

La società italiana durante il lockdown

Alta la fiducia verso le principali istituzioni: in una scala da 0 a 10 i cittadini hanno assegnato 9 al personale medico e paramedico e 8,7 alla Protezione civile.

La stragrande maggioranza dei cittadini ha seguito le regole definite, specie il lavarsi le mani (mediamente 11,6 volte in un giorno), disinfettarsele (5 volte), rispettare il distanziamento fisico (92,4% della popolazione), ridurre le visite a parenti e amici (l’80,9% non ne ha fatte) e gli spostamenti (il 72% non è uscito il giorno precedente l’intervista). La cura dei figli ha riguardato l’85,9% della popolazione con bambini tra 0 e 14 anni. Il 67,2% vi ha dedicato più tempo (sia madri che padri), anche per la necessità di seguirli nella didattica a distanza.

Forte l’incremento di quanti si sono dedicati alla lettura (libri, riviste, quotidiani). S tratta del 62,6% della popolazione. Il 26,9% ha letto libri, il 40,9% quotidiani. La popolazione appare polarizzata nella frequenza di preghiera, il 42,8% ha pregato almeno una volta a settimana (il 22,2% tutti i giorni) ma altrettanti (48,3%) non lo hanno fatto mai.

La salute

L’Italia è uno dei Paesi più precocemente e intensamente coinvolti dalla pandemia, i contagi registrati sono stati quasi 240mila e hanno causato poco meno di 35mila decessi. Le regioni del Sud e delle isole sono state meno coinvolte di quelle del Centro e del Nord. L’epidemia ha colpito maggiormente le persone più vulnerabili, acuendo al contempo le significative disuguaglianze che affliggono il nostro Paese, come testimoniano i differenziali sociali riscontrabili nell’eccesso di mortalità causato dal Covid-19. Sono infatti le persone con titolo di studio più basso a sperimentare livelli di mortalità più elevati.

Popolazione anziana ed emergenza Covid-19

Gli anziani sono stati i più colpiti dalla pandemia, quasi l’85% dei decessi riguarda persone over70, oltre il 56% quelle sopra agli 80. Sono dunque i più fragili anche se negli anni hanno visto migliorare sia la salute che la qualità della vita. Tra gli ultraottantenni di oggi circa uno su quattro dichiara di stare male o molto male, a fronte di uno su tre nel 2009 e di circa il 36% nel 2000. Molti degli ultraottantenni vivono una buona qualità della vita; circa un terzo, pari a 2 milioni e 137mila, gode di buona salute, risiede soprattutto nel Nord e dichiara risorse economiche ottime o adeguate.

Il lavoro e la fine dell’ascensore sociale

La pandemia da Covid-19 si è innestata su una situazione sociale caratterizzata da forti e crescenti disuguaglianze. La classe sociale di origine influisce ancora in misura rilevante sulle opportunità degli individui, nonostante il livello di ereditarietà si sia progressivamente ridotto. Per la generazione più giovane però è anche diminuita la probabilità di ascesa sociale, sono sempre di più i figli che hanno una condizione economica inferiore a quella dei genitori. Sul fronte del mercato del lavoro la fotografia al 2019 indica crescita di diseguaglianze territoriali, generazionali e per titolo di studio rispetto al 2008. Rischi di amplificazione delle diseguaglianze a svantaggio delle donne sono associati alla precarietà, al part time involontario e alla conciliazione dei tempi di vita, dalla mancanza di nidi. Le disuguaglianze tra bambini crescono per il digital divide, la mancanza di attrezzature informatiche e l’affollamento abitativo.

La distribuzione di genere nei diversi profili occupazionali produce uno svantaggio ulteriore per le donne in termini di rigidità del lavoro. Nel 2019 l’orario di lavoro risulta rigido per quasi 17 milioni di occupati e, tra questi, 5,6 milioni dichiarano forti difficoltà a ottenere permessi per motivi personali. L’orario è rigido per il 77% delle occupate (molto per il 26%) contro circa il 68% degli occupati. Nel 2019 meno di un milione di questi occupati ha effettivamente lavorato da casa.

Data la diversa distribuzione nelle professioni, il lavoro da remoto potrebbe riguardare più le occupate (37,9% contro 33,4% degli occupati), gli ultracinquantenni (37,6% contro 29,5% dei giovani occupati), il Centro-nord (37% contro 28,8% del Mezzogiorno), i laureati (64,2%). Il lavoro da casa è un’opportunità ma c’è il rischio che il confine tra tempi di lavoro e tempi di vita diventi labile. Circa il 40% di chi lavora da casa dichiara di essere stato contattato fuori dell’orario di lavoro almeno tre volte da superiori o colleghi nei due mesi precedenti.

Dopo il lockdown il crollo demografico


L’Italia è un paese a permanente bassa fecondità. Il numero medio di figli per donna oggi è di 1,29, nonostante il desiderio dichiarato del 46% delle coppie sia quello di metterne al mondo due. La rapida caduta della natalità potrebbe subire un’ulteriore accelerazione nel periodo post-Covid. Recenti simulazioni, che tengono conto del clima di incertezza e paura associato alla pandemia in atto, mettono in luce un suo primo effetto nell’immediato futuro; un calo che dovrebbe mantenersi nell’ordine di poco meno di 10mila nati, ripartiti per un terzo nel 2020 e per due terzi nel 2021. La prospettiva peggiora ulteriormente se agli effetti indotti dai fattori di incertezza e paura si aggiungono quelli derivanti dallo shock sull’occupazione. I nati scenderebbero a circa 426mila nel bilancio finale del corrente anno, per poi ridursi a 396mila, nel caso più sfavorevole, in quello del 2021.

Resto alto il desiderio di figli anche dopo i 40 anni, quando purtroppo è già difficile diventare genitori. Infatti tra il 2010 e il 2017 il numero di coppie che ha fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita è aumentato del 12%, il numero di gravidanze ottenuto cresciuto del 24%.

Sorgente: Istat: “Dopo il Covid un paese sotto choc che ha rinunciato a mettere al mondo i figli” – la Repubblica

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