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– di Maurilio Lima Botelho –

La pandemia ha sconvolto il tessuto sociale brasiliano e ha messo al sole le viscere di una struttura sociale frammentata, segnata da condizioni economiche estreme e, soprattutto, ha portato alla luce un’esclusione sociale che ora non può più essere ignorata. Tuttavia, questo shock della realtà non servirà a niente, fino a che gli strumenti che ci potrebbero permettere di osservarlo rimarranno sepolti sotto i filtri di quelle che sono delle teorie ammuffite.
Alla fine del 2019, in Brasile, quasi 25 milioni di persone hanno svolto un lavoro come «autonomi», svolgendo attività giornaliere per «proprio conto». Inoltre, erano 11,7 milioni le persone disoccupate e 52,7 milioni quelle che vivevano di previdenza sociale, sotto forma di pensioni e indennità varie, ecc. Vale a dire, una parte considerevole della popolazione brasiliana, più di un terzo, si è trovata al di fuori di qualsiasi rapporto salariale: metà di quella che è l’intera popolazione del Brasile che ha più di 14 anni di età (legalmente idonea al lavoro). Ovviamente. alcune di queste fonti di reddito derivano da un lavoro precedente (per esempio, la pensione), ma altre sono temporanee (come il sussidio di disoccupazione) ed altre ancora si trovano continuamente a rischio di essere sospese, come il sussidio per la famiglia (che dipende sempre da quello che è l’umore politico), o l’alloggio (che dipende dalla congiuntura) oppure ancora le stesse pensioni (soggette ad un costante attacco da parte dell’austerità economica). Mentre una parte enorme della popolazione si trova esclusa da qualsiasi rapporto di lavoro, c’è ancora una parte più piccola, ma non trascurabile, che tenta di ritornare, ma senza successo, in quella posizione precedente: 4,5 milioni di disoccupati, da più di un anno sono alla ricerca di un lavoro e, di questi, 2,9 milioni lo cercano da oltre due anni, senza riuscire a trovarlo.
Ingenuamente, una popolazione di migliaia di persone si affolla davanti alle agenzie della Caixa Econômica, cercando di ottenere un aiuto di emergenza di solo 600 reales brasiliani [poco più di 110 dollari], che il titolare del portafoglio economico federale vuole ridurre a 200 [nemmeno 37 dollari]. Ancora più ingenua appare essere la pressione per il confinamento sociale, volontario o meno, nel momento in cui ci sono decine di milioni di persone che, per il pane, dipendono la loro guadagno quotidiano, senza avere nessuno cui rivolgersi. Quando hanno chiuso i negozi nei sotto-centri commerciali dei quartieri che si trovano più lontano dalla metropoli, una moltitudine di venditori ambulanti, piccoli commercianti e venditori di ogni genere si è affollata nei «calçadões» [strade pedonali], approfittando di un allentamento delle repressione sociale al servizio degli interessi delle reti della grande distribuzione. È stata una fotografia della realtà che però viene ignorata dalle interpretazioni sociologiche: una parte della popolazione, espulsa dalla società del lavoro, vive concentrata sulla propria riproduzione, e lo fa in quella che è una sub-economia, ed ha legami inconsistenti con il grande mercato, i quali scompaiono del tutto nel momento in cui questo si ferma. Una tale realtà dell’esclusione, è dominante in Brasile, dove la maggioranza vive ai margini delle istituzioni ufficiali – siano esse statali o private, politiche o economiche – e molto al di là di qualsiasi diritto, subendo la propria sorte completamente «senza alcuna regola», nell’instabilità economica e nella costante insicurezza sociale.

Con la registrazione per gli aiuti di emergenza, ha avuto inizio la lotta per dimostrare l’esistenza di coloro che per le istituzioni «non esistono». Ottenere certificati, rinnovi delle iscrizioni, regolarizzare il codice fiscale e perfino ottenere per la prima volta un qualche documento ufficiale è stata una vera e propria tortura in un paese dove ci sono 3 milioni di persone che non posseggono alcun documento. La visibilità degli invisibili è diventata una necessità nel momento in cui l’economia si è fermata a causa della pandemia, e molti non sono nemmeno più in grado di riprodursi a partire da quelle che erano le loro attività «autonome» quotidiane. Ma ciò che è venuto alla luce, è stato quello che è il limite della società dell’esclusione, e che ha dimostrato la nostra inadeguatezza teorica: ogni 10 domande di aiuto di emergenza, 4 si sono rivelate «inammissibili». Disoccupati informali e di lunga durata che non sono in grado di dimostrare la propria condizione di esclusione. «Il colmo dell’informalità, consiste nel non poter dimostrare formalmente la propria informalità» (Javier Blank).
L’indifferenza sociale e la freddezza istituzionale delle agenzie statali, sono state superate solo dal sociologismo riduttivo. Negli ambienti della teoria sociale, si continua ad insistere nel ridurre questa drammatica complessità a quello che è il luogo comune delle classi: in fin dei conti, sono tutti lavoratori che stanno lottando per gli stessi interessi. Vale a dire, di fronte all’incapacità di saper rendere conto di quelle che sono  le eterogeneità, le frammentazioni e la disparità inconciliabile esistente tra i disoccupati di lunga durata, i lavoratori autonomi e coloro che dipendono dalla previdenza sociale diretta ecc., si fa rientrare tutto sotto l’astratta etichetta – sempre più ampia – della cosiddetta «classe operaia». Si tratta della dinamica di crisi della società del lavoro, una realtà ovvia per la maggior parte delle persone che dev’essere negata dal sociologismo più grezzo: oggettivamente ignorato dal governo, il processo di declassamento viene inoltre represso teoricamente, trascurando così la maggior parte della popolazione, la quale viene disconnessa da qualsiasi relazione lavorativa.
Per far sì che abbia senso questa ignoranza, è necessario aggrapparsi a quella parte della popolazione che è ancora soggetta alle relazioni lavorative. Ma qui, quella che è la disconnessione tra la teoria e la realtà salta subito agli occhi: sindacati, partiti e intellettuali continuano a mettere in campo tutta la verbosità politica della lotta di classe, e del «punto di vista del lavoro», anche quando il rapporto salariale abbia ben poca identità oggettiva tra coloro che ne costituiscono le diverse componenti. L’inefficacia politica di queste formule teoriche è del tutto evidente: durante la campagna per la riforma della Previdenza, nessuno ha parlato del fatto che una parte considerevole della popolazione occupata (circa il 40%) non versa più alcun contributo, ragion per cui i cosiddetti «collettivi per uno “sciopero generale”» hanno incontrato solo indifferenza, dal momento che la maggior parte della società non può fermare le sue attività economiche quotidiane, perché correrebbe il rischio di dover smettere di mangiare.
Anche tra i salariati, la visione di un’identità collettiva “classista” non riscuote molto credito ed ha poco senso, non solo perché la condizione salariale non è affatto decisiva ai fini di una definizione di classe (così come lo era ai tempi del capitalismo industriale classico), ma soprattutto a causa delle differenze interne tra coloro che sono ancora soggetti ad una relazione lavorativa, per esempio, nell’industria, nei servizi o nel commercio. Tra i salariati, in Brasile, ci sono più di 10 milioni di persone che non hanno alcun contratto di lavoro, e c’è una netta discrepanza tra chi è salariato nelle imprese e chi è un salariato domestico, o tra coloro che lavorano a tempo pieno e quelli che vengono «sottoutilizzati», e quindi non lavorano sufficientemente. Se si tiene conto della dimensione razziale e di quella di genere, la disoccupazione tra i «pretos e pardos» [i neri e i marroni] è superiore al 50%, e gli uomini bianchi percepiscono, in media, quasi il 30% in più di quanto guadagnano le donne e i neri. Per non parlare di quegli strati di reddito in cui la stragrande maggioranza percepisce addirittura un salario minimo, mentre allo stesso tempo ci sono alcuni (pochi) che guadagnano 50 mila reali [8.500 €] netti al mese. Tutto ciò si verifica nel contesto della medesima condizione salariale (ed è qui che la differenza di status, vale a dire, di qual è il genere di consumo, dovrebbe essere determinante per definire i comportamenti sociali).
Quando i teorici della lotta di classe sprecano inchiostro e carta sulle diatribe contro le «politiche dell’identità», fingono che le loro stesse formulazioni non siano delle mere proiezioni, e ignorano quella che è la complessità sociale: in realtà, si basano anche su una minoranza che non è altro che un residuo di una società industriale, e del lavoro, che in Brasile non si è mai pienamente realizzata; e la cosa suona ancora più ridicola nel momento in cui l’equivoco dell’«identità di classe» viene attribuita ad un’«arretratezza» tipicamente brasiliana, poiché qui si manifesta il presupposto che ritiene che esista un percorso di tappe da seguire per arrivare ad uno sviluppo capitalistico che non sarebbe stato ancora realizzato nei territori periferici, e che non avrebbe portato ancora ad una «coscienza di classe» per tutti.
Con la pandemia, l’eterogeneità della struttura sociale brasiliana diventa ancora più complessa. Il boom esplosivo di disoccupazione conferisce maggior drammaticità al quadro generale, ma occorre considerare la differenza quotidiana tra coloro i quali si trovano in cassa integrazione, senza sapere se la settimana successiva avranno ancora un lavoro, e quelli che sono stati esonerati dalle loro attività; tra chi svolge un servizio a domicilio e chi può fare il telelavoro. È qui che cominciano le proteste contro i «privilegiati» che possono starsene a casa, mentre quelli che lavorano nei servizi essenziali devono affrontare i rischi di contagio da parte del nuovo coronavirus. Non è un caso che il discorso cospirazionista dell’estrema destra riscuota sempre più successo: di fronte a quello che è il discorso astratto classista, la denuncia dei «privilegi» dei servizi pubblici (anche se la grande maggioranza dei dipendenti statali percepisce il salario minimo) appare più realistica di quanto lo sia la critica ai «grandi baroni» borghesi; il 70% dei salariati brasiliani lavora in piccole imprese. È ovvio che in Brasile, i centri decisionali dell’economia e della politica siano negli uffici delle grandi imprese che impiegano migliaia di persone, ma la realtà quotidiana di tutto questo è inaccessibile alla grande massa dei brasiliani.
In un contesto di disgregazione sociale come il nostro, non è solo il discorso classista a sembrare totalmente al di fuori della realtà. Anche la lotta politica per i diritti sembra che abbia raggiunto il suo limite, e da questo ne deriva sempre più l’identificazione popolare dei diritti con i privilegi. Per la maggior parte della popolazione brasiliana, i diritti economici o sociali, ormai non esistono più da tempo, ecco perché oggi è facile che venga mobilitato quello che è il diffuso odio neofascista contro coloro che ancora li possiedono. A causa della frammentazione sociale, il conflitto di classe è ormai imploso da tempo, e questo ha portato al diffondersi del conflitto a vari livelli, ovunque e di ogni tipo, in una società  che è sempre più informe. Questi sono i sintomi distruttivi della società del lavoro che è al collasso, dove a livello centrale il rapporto di lavoro ormai non esiste più  ed è sempre più residuale, e laddove ancora appare non ha più alcun supporto legale. Saper comprendere questo processo di crisi costituisce il primo passo per poter riformulare una critica radicale che sappia implicare anche una trasformazione sociale.

– Maurilio Lima Botelho – Pubblicato il 25/5/2020 su  Ensaios E Textos Libertarios –

Sorgente: blackblog francosenia: Al di là del Diritto

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