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Il 7 maggio il Don Gnocchi ha licenziato Hamala Diop, uno dei diciotto dipendenti della Ampast, una grossa cooperativa (225 addetti, 127 soci e 6 milioni di euro di ricavi) diretta dal senegalese ‘Ndiaye Papa Waly. I diciotto lavoratori del Palazzolo avevano denunciato pubblicamente le condizioni di lavoro ad altissimo rischio durante la pandemia. Con un bilancio di 140 decessi da Covid-19 forse non avevano tutti i torti, anche perché tutti e diciotto si sono ammalati.

Diop è l’uomo simbolo della protesta. Ha 25 anni ed è arrivato dal Mali quando ne aveva dieci. Il suo processo di integrazione è rispecchiato meglio di tutto dalla qualità impeccabile del suo italiano.

È cresciuto a Milano con la passione del basket e ha giocato da ala piccola nelle squadre satellite dell’Olimpia in B silver e C silver. Un mondo di sport dilettantistico con piccoli rimborsi spese che non ha nulla a che vedere con gli ingaggi di un Mario Balotelli.

«Al don Gnocchi», racconta Hamala all’Espresso, «ho iniziato esattamente tre anni fa, il primo giugno 2017 dopo un periodo in una ditta come operaio e un’esperienza in un’altra struttura sanitaria. Mi piaceva fare un lavoro che aiuta la gente e l’Ampast mi ha preso come operatore sanitario con un contratto part-time di 35 ore settimanali da mille euro mensili».

Diop è stato positivo al Covid-19 per cinquanta giorni fra marzo e maggio. Era ancora malato il 17 aprile quando è stato raggiunto da una “dichiarazione di non gradimento dell’azienda nei suoi confronti”, da un sommario procedimento disciplinare e, come si è detto, dall’interruzione del rapporto di lavoro con l’Ampast.
Diop e i suoi colleghi avevano reso di dominio pubblico le loro contestazioni attraverso un comunicato ripreso dalle piattaforme del sindacato Usb e per mezzo di dichiarazioni ai media che l’azienda, in una replica firmata dai legali della Fondazione diffuso il 23 marzo, contesta dicendosi perfettamente in regola con i dispositivi di sicurezza fin dal 24 febbraio. La fondazione parla di “grave e infondata accusa” in relazione all’ordine dato agli addetti di non usare le mascherine per non spaventare i pazienti.

L‘Espresso è però in grado di pubblicare una mail del management del don Gnocchi, i cui vertici sono sotto inchiesta per omicidio colposo e strage colposa, di tenore molto differente rispetto alle dichiarazioni precedenti.
La lettera, datata 9 marzo, è spedita dal direttore del personale Enrico Mambretti a una ventina di dirigenti, alla presidenza (don Vincenzo Barbante) e alla direzione generale (Francesco Converti) e ha come oggetto le linee di comportamento per la gestione e le presenze dei collaboratori in base al Dpcm pubblicato il giorno precedente, domenica 8 marzo.
Si parla di «favorire la messa in ferie del personale che attualmente, e in vista delle intuite evoluzioni, possa non essere immediatamente utile, soprattutto se poco collaborante VEDI AD ES. LA “PRETESA” DI ESSERE DOTATI DEI DPI ANCHE NEI CASI NON PREVISTI (in maiuscolo nel testo, ndr)».

«Semplicemente», conclude Mambretti, «limiterei il ricorso al lavoro da casa, contenendo eventuali derive da panico, mettendo piuttosto il personale che tende a polemizzare o a volere i DPI in ferie
come sopra». Insomma, i piantagrane che insistevano per lavorare con i Dpi (dispositivi di protezione individuale) venivano tenuti a casa.

All’inizio i dipendenti che avevano firmato la causa erano in 22. Poi quattro non hanno retto alla pressione e si sono ritirati. Altri quattro che erano a partita Iva si sono visti cancellare il contratto e tre degli altri lavoratori in causa sono stati trasferiti in provincia di Varese dove la fondazione ha una Rsa, la Santa Maria al Monte di Malnate, anche questa colpita dal Covid-19 con nove morti e almeno 85 positivi.

«Qui pensano soltanto ai soldi, sia alla fondazione sia alla cooperativa», dice Hamala. «Non è giusto che chi lavora nella sanità pensi unicamente al profitto. Va bene guadagnare ma non puoi pensare solo ai soldi. Non so come andrà la causa ma non tornerei a lavorare per chi mi ha quasi ammazzato e non parlo solo della fondazione ma anche della cooperativa che avrebbe dovuto difenderci. Un mio collega che si è ammalato vive da solo, non riusciva nemmeno a fare la spesa. I vicini di casa ogni tanto gli passavano un piatto di pasta».

L’avvocato romano Romolo Reboa che segue il caso di Diop punta l’indice anche sulla sospetta interposizione della cooperativa Ampast nel rapporto di lavoro. «Abbiamo constatato», dice, «che c’erano due tipi di contratto: uno di serie A con la fondazione Don Gnocchi e uno di serie B con la cooperativa, con costi ovviamente inferiori». E qualche controllo in meno. «Spesso ho avuto problemi con le buste paga», racconta Hamala. «Un mese mi hanno tolto quasi trecento euro su mille perché non avevo compilato il foglio ferie. Anche sui turni c’erano problemi. Un mese lavoravo di più, fino a tre giorni consecutivi con diciotto ore al giorno, il mese dopo lavoravo di meno».

Adesso Hamala Diop è tornato negativo al tampone. Può pensare di tornare al lavoro nel settore dove ama lavorare ma adesso è un whistleblower che per qualcuno si traduce con segnalatore, per altri significa infame.

Sorgente: «Lavoravo senza difese e ho preso il virus: licenziato dal Don Gnocchi dopo la denuncia»

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