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La rabbia e l’angoscia nella capitale libica che sente le armi ad appena 10 chilometri. Soltanto Erdogan si oppone ad Haftar che avanza aiutato da Mosca

dal nostro inviato VINCENZO NIGRO

TRIPOLI – Piazza dei Martiri, la “piazza Verde” di Gheddafi, è il cuore di Tripoli. È il luogo della festa e del dolore. Delle celebrazioni per la rivolta del 2011, come dei troppi funerali per i “martiri”. Per i combattenti uccisi in questi anni di guerra civile. C’è una piccola gazzella, i fotografi di strada la tengono ferma quando le famiglie mettono in posa i bimbi per uno scatto. Mariam, 8 anni, cosa vuoi tu oggi? «Voglio dare un bacio alla gazzella, poi le voglio dare da mangiare, e poi voglio dare da mangiare ai piccioni». E voi, genitori di Mariam, cosa volete? «Vogliamo la pace per Mariam. Vogliamo che questa guerra maledetta finisca. Ma che rimanga anche la nostra indipendenza: il nostro sangue non chiede un altro Gheddafi. Che siano i turchi, gli italiani, gli americani o anche nessuno a proteggerci. Noi ci difenderemo da soli».

L’“ora zero”
Khalifa Haftar giovedì notte aveva promesso: «È scattata l’ora zero, entreremo a Tripoli». Qui ancora non si vede. Ma a 10 chilometri dal centro della città combattono pesante. L’eco del cannone arriva con dei botti forti e cupi che scuotono anche la piccola gazzella. L’assedio del generale in pensione di Bengasi continua: dal 4 aprile ha ricevuto montagne di armi da russi, egiziani, emiratini e anche francesi. Eppure Tripoli resiste. Su un lato di piazza dei Martiri c’è Alsaraja Al Amra, il Castello Rosso. Non è superlativo, ma è un simbolo. Fu costruito e poi rinnovato dai turchi a partire dal 1600. Dai suoi spalti, il 2 ottobre 1911 i soldati turchi videro la torpediniera “Albatros” della Regia Marina italiana che prendeva terra alla dogana per consegnare un ultimatum dell’ammiraglio Thaon di Revel al defterdar turco. «Dietro a essa, allineate lungo l’orizzonte, dodici navi da battaglia italiane macchiavano di fumo il cielo bianco azzurro dell’autunno nordafricano», scriveva un ambasciatore diventato storico. Erano i primi colpi della guerra italo-turca che portò la Libia a diventare una colonia italiana.

Oggi la storia si ripete, al contrario. Ma non simmetrica. La Turchia è tornata in forze in Libia, difende il governo di Fayez al-Serraj. E in queste ore sta combattendo nell’ombra una battaglia decisiva per evitare che i mercenari di Haftar (ciadiani, sudanesi) entrino a Tripoli. Magari non per conquistarla, ma anche solo per scuotere il governo Serraj e farlo crollare. «Da quando Haftar ha iniziato l’attacco abbiamo visto feriti di ogni tipo, hanno fatto dei crimini di guerra che nessuno racconta», dice Mohammad M., un volontario paramedico che da allora entra e esce dagli ospedali da campo che Tripoli ha organizzato tutt’attorno ai quartieri meridionali della città, quelli su cui le forze di Haftar tirano con bombardamenti di droni e di artiglieria. Mohammad racconta la guerra vista dagli ospedali: «La cosa più schifosa è quando hanno iniziato a bombardare proprio gli ospedali: un giorno, alle 9.30, con i miei colleghi, con gli autisti delle ambulanze e gli infermieri, stavamo finendo la colazione tutti insieme. Hanno colpito l’ospedale con tre bombe, ma poi sono tornati. Ho visto salire dal terreno fili di fumo bianco: io ho lavorato con gli sminatori, quello era fosforo bianco che stava per attivarsi, siamo fuggiti via».

I droni
Gli attacchi a Tripoli sono messi a segno da droni fabbricati dai cinesi e operati da ufficiali emiratini nelle basi di Haftar dell’Est. L’aeroporto di Al-Khadim con una control room anche a Rajma, dove c’è il comando di Haftar. Nei comandi, a pianificare l’offensiva, ci sono ufficiali russi. Vicino al fronte, a Sud di Tripoli, ci sono altri mercenari russi della compagnia Wagner. I turchi hanno risposto a maggio con i loro droni, che per Erdogan sono anche un affare di famiglia: il velivolo Bayraktar è prodotto dalla fabbrica del genero del presidente turco, Selkuc Bayraktar. A Tripoli sono arrivati decine di consiglieri turchi, guidati dal generale Irfan Tur Ozsert. A settembre il sostegno turco si era esaurito, ma adesso miracolosamente — dopo l’accordo Tripoli-Ankara del 27 novembre — i droni sono tornati a volare.

Continua Mohammad: «Dai droni di Haftar lanciano anche bombe cluster, che all’interno hanno centinaia di altre piccole bombette, di quelle che poi esplodono ferendo soldati, civili, donne bambini. Tutti feriti che abbiamo curato nei nostri ospedali». All’improvviso, dice Mohammad, «da settembre abbiamo visto che cambiava il tipo di ferite che curavamo. I soldati venivano colpiti non tanto dalle schegge delle bombe, ma dai colpi dei cecchini. Al volto, al petto. Abbiamo raccolto i proiettili, abbiamo esaminato le ferite. I nostri militari hanno studiato il loro modo di agire. Una volta in un convoglio militare di 4 auto andavo anch’io verso il fronte. Prima hanno colpito l’autista della prima auto, il convoglio si è fermato. Alcuni dei nostri sono scesi per sparare a casaccio: e quelli hanno colpito i primi alle gambe. Così poi loro hanno colpito gli altri che scendevano per provare a salvare i feriti. Non erano cecchini libici, erano dei killer schifosi». Sono i cecchini della Wagner, la compagnia di contractor di Evghenij Prigozhin, amico di Putin.

L’intelligence di Tripoli ha iniziato a lavorare: hanno intercettato comunicazioni in russo, poi hanno trovato i corpi, i passaporti, i telefonini di alcuni mercenari russi uccisi dai bombardamenti dei droni turchi. Tutto, i documenti, le foto dei contenuti dei cellulari, adesso è sui social media libici. Così come gli elenchi, i passaporti dei turchi scesi perfino negli alberghi di Tripoli, pubblicati sugli account Facebook di Bengasi. Da piazza dei Martiri la guerra non è lontana, solo 10 chilometri. E i genitori di Mariam, mentre danno da mangiare ai piccioni per tenere allegra la bimba, aggiungono poche parole: «Qui c’è un governo che forse fa schifo, ma è il nostro governo. Non è il regime di un altro dittatore. Perché nessuno in Italia, in Europa capisce? Perché non vedete la differenza fra chi attacca e chi si difende? Perché dovete lasciarci nelle mani di turchi o di russi?».

A Tripoli stamattina arriva il ministro italiano Luigi Di Maio: verrà accolto all’aeroporto dal suo collega Syala, vedrà il vicepresidente Maitig, il ministro dell’Interno Bishaga. E poi il presidente Serraj. C’è un gran freddo fra Tripoli e il governo Conte. A Di Maio faranno le stesse domande della mamma di Mariam: perché lasciate che quei due imperi si sbranino la Libia?

Sorgente: L’urlo di Tripoli con i russi alle porte: “Dov’è l’Europa?” | Rep

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