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Strage Pioltello, la rete senza controlli: «Se accade qualcosa sono guai»

Il messaggio nella chat Rfi prima dell’incidente, uno dei tanti estrapolati dalla Polizia ferroviaria dai cellulari degli indagati. La Polfer: «Incuria dal 2014»

È il 26 novembre del 2017 quando sulla linea Torino-Alessandria un treno deraglia per la rottura di un giunto tra due rotaie. Alle 14,40 Umberto Lebruto, direttore di produzione di Rfi, posta un messaggio nella chat aziendale chiedendo ai suoi tecnici di «accelerare l’istallazione» di un particolare sensore che segnala i guasti nei giunti, perché «nel frattempo se dovesse accadere qualcosa di brutto non ce la caveremo facilmente». Tre mesi dopo, alle 6,56 del 25 gennaio 2018, accade più di qualcosa: per un giunto rotto il Cremona-Milano carico di pendolari esce a 130 km/h dai binari dopo la stazione di Pioltello, tre persone muoiono e altre 102 restano ferite. Si avvera la infausta profezia: Lebruto e dieci tra manager e dirigenti di Rfi finiscono indagati con la società per disastro ferroviario colposo, omicidio plurimo e lesioni colpose. Il messaggio WhatsApp, uno dei tanti estrapolati dalla Polizia ferroviaria dai cellulari degli indagati, secondo gli investigatori dimostrerebbe la consapevolezza dei vertici di Rfi del rischio che correva la circolazione ferroviaria. Non solo perché non erano stati istallati i sensori «Marini», ma sopratutto perché per più di un anno e mezzo nessuno ha controllato con gli ultrasuoni l’integrità dei binari della Rete ferroviaria italiana, dato che l’unico mezzo in grado di farlo per prevenire le rotture, il treno Galileo, era fermo per manutenzione dal 26 giugno 2016, rimanendoci fino al 6 marzo 2018, più di due mesi dopo il disastro.

Nel tratto dell’incidente di Pioltello la situazione era ancora più grave. In una relazione agli atti dell’inchiesta chiusa dai pm milanesi Maura Ripamonti e Leonardo Lesti, coordinati dall’aggiunto Tiziana Siciliano, Angelo Laurino, comandante della Pg della Polfer della Lombardia, scrive che «dal 22 luglio 2014 fino alla data dell’incidente non sono stati fatti esami ultrasuoni» che, invece, sarebbero dovuti avvenire «ogni sei mesi» su una linea ad alta velocità e alta capacità come quella, dove i treni transitano anche a 180 km/h. I vertici e i tecnici di Rfi avrebbero dovuto «garantire la sicurezza dell’esercizio», sottolinea Laurino, dato che avevano «la certezza» di quanto fossero indispensabili i controlli con gli ultrasuoni sulle linee sottoposte ad usura. In attesa che Galileo tornasse in servizio, a fine 2017 Rfi aveva noleggiato per le verifiche un «carrello» dalla società svizzera Sperry (costo quasi 400 mila euro) che aveva scoperto una quantità di problemi, tra cui giunti rotti, lungo la direttrice Nord-Sud che esclude Pioltello. Ma in Rfi c’era una consapevolezza: «Urge rimettere in pista Galileo», messaggiava molto preoccupato un tecnico.

Dopo il disastro la chat aziendale va in fiamme, i messaggi girano vorticosamente. A un collega che cerca di scaricare la responsabilità sulla qualità delle rotaie, Marco Gallini, dirigente di Rfi delegato alla diagnostica, risponde chiedendo «come mai in Inghilterra si fanno i rilievi ultrasuoni ogni quattro settimane e in Rfi ogni 6-12-24 mesi… da quando hanno intensificato i controlli hanno pressoché azzerato le rotture delle rotaie. Credo che la nostra normativa degli ultrasuoni non sia più adeguata».Sarà anche per la normativa, ma resta che su una tratta come quella di Pioltello dove passano 500 treni al giorno, dall’ultimo controllo di Galileo del 2014 «non risultano nemmeno eseguiti i rilievi ultrasuoni manuali», scrive Laurino. Se le verifiche fossero state fatte almeno dopo che un operaio ad agosto 2017 segnalò per la prima volta che quel giunto al km 13+400 si muoveva in maniera anomala, secondo la Polfer, il disastro «con moltissime probabilità non si sarebbe verificato».

Sorgente: corriere.it


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