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di Federico Fubini

Per misurare quanto profonda sia la linea di faglia che si sta aprendo fra l’Unione europea e gli Stati Uniti, basta sfogliare un rapporto pubblicato un paio di mesi fa dal Defense Innovation Board. Questa struttura di consiglieri indipendenti del Pentagono riassume in trentatré pagine gli sviluppi del G5, la nuova tecnologia di comunicazione mobile che supera di venti volte in velocità e portata i migliori sistemi esistenti. «Chi muove per primo guadagnerà miliardi di ricavi, accompagnati da una notevole creazione di posti e dalla leadership nell’innovazione tecnologica», si legge.

Quindi gli esperti del Pentagono passano a descrivere la gerarchia fra i Paesi che si stanno avvicinando all’uso di queste frequenze che trasformeranno quasi tutto: dal traffico urbano, all’intelligenza artificiale nell’analisi dei dati, all’uso della realtà virtuale nelle catene globali di produzione, alla difesa. Prima è la Cina – si legge – seguita dagli Stati Uniti. «Subito dietro» Corea del Sud e Giappone. Gran Bretagna, Germania e Francia sono «seconda classe», obbligate ad adottare le tecnologie della Cina o degli Stati Uniti. Esiste poi una «terza fascia» con Canada, Russia e Singapore, mentre l’Italia resta fuori. Neanche citata. Si sottolinea però che vari alleati europei si stanno rifiutando di escludere i cinesi come fornitori di questa tecnologia.

È da osservazioni del genere che si intravede come in questa stagione di gelo fra gli Stati Uniti e l’Europa dell’euro esistano almeno due livelli diversi. Il primo passeggero, presto o tardi, perché prodotto dalle provocazioni di Donald Trump; ma il secondo molto più intenso e radicato. Sono passati appena quattro anni da quando Barack Obama telefonò a Angela Merkel per impedire che la Grecia venisse «sospesa» dall’euro, bloccando così una mossa che poteva mandare in pezzi l’unione monetaria. Ne sono passati poco più di tre da quando quel presidente americano dichiarò a Londra la sua preferenza per il «Remain» nel referendum sulla Brexit: «Essere amici significa essere sinceri – disse -. Noi ci stiamo concentrando nel negoziare un accordo commerciale con un grande blocco, l’Unione europea. Il Regno Unito andrebbe in fondo alla fila».

Succedeva poche primavere fa, ma per voltare pagina bastano. Quello di Trump è un universo antitetico. Da molto prima dei suoi attacchi di ieri alla Banca centrale europea, l’attuale presidente parla e agisce come se smembrare l’Unione europea fosse un suo obiettivo strategico. Come se un’Europa più debole rendesse davvero l’America più forte. Due settimane fa a Londra Trump ha dato il suo sostegno a Boris Johnson come prossimo premier poiché questi (per ora) si dice pronto una Brexit rapida e brusca. Gli ha promesso: «Un grande accordo commerciale è possibile, una volta che il Regno Unito si sia liberato delle catene». Non è chiaro invece quale sia stato due giorni fa il messaggio del vicepresidente Mike Pence e nel segretario di Stato Mike Pompeo a Matteo Salvini, ma il vicepremier è uscito dai suoi incontri di Washington sempre più deciso a sfidare le regole di bilancio europee. Del resto anche quando Giuseppe Conte andò alla Casa Bianca nel luglio scorso, Trump promise vagamente al premier sostegno finanziario se l’Italia avesse avuto problemi per aver violato il Patto di stabilità.

La stessa tattica del «divide ed impera» è stata tentata alla Casa Bianca persino con Emmanuel Macron: un anno fa il Washington Post rivelò un anno fa al presidente francese in visita Trump offrì un «migliore accordo commerciale» se avesse portato il suo Paese fuori dalla Ue. Alla Germania non sono state proposte idee del genere ma Pompeo il mese scorso ha cancellato un incontro con Angela Merkel poche ore prima: uno sgarbo senza precedenti nel dopoguerra a un leader tedesco.

Tutto questo risentimento, naturalmente, ha le sue radici nel modo in cui Trump legge i rapporti commerciali: «La Ue è stata creata per estrarre vantaggi dagli Stati Uniti» dice spesso. Un rapporto del Tesoro americano del mese scorso cita Germania, Italia e Irlanda come Paesi sospettati di manipolare la propria moneta a questo scopo: il surplus tedesco nello scambio di beni con l’America nel 2018 è di 68 miliardi di dollari, quello italiano di 32.

Gli europei possono rispondere che il mondo non funziona come pensa Trump: gli Stati Uniti non sono in deficit con il resto del mondo solo a causa del mercantilismo tedesco e del collasso dei consumi in Italia. Magari una spiegazione del genere può anche aiutare Bruxelles a sminare – o spostare in avanti – la minaccia di dazi sulle auto europee sui quali la Casa Bianca si riserva di decidere in autunno. Dipenderà soprattutto dai sondaggi che avrà in mano Trump per allora, a un anno dalle presidenziali del 2020.

Ma offrire lezioni di economia all’inquilino della Casa Bianca rischia di accecare gli europei quanto livello più profondo del grande gelo con l’America. E questo è quello che resterà. Osserva il politologo Ivan Krastev: «Siamo così chiusi in noi stessi che non abbiamo visto iniziare la guerra fredda di Washington con Pechino. Presto dovremo scegliere da chi comprare la tecnologia più essenziale: dagli americani o dai cinesi». A quel punto, per l’Italia e per l’Europa, la neutralità e l’ambiguità non basteranno più.

Sorgente: Trump attacca l’Europa e la Bce: ecco perché il «grande gelo» rischia di durare a lungo

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