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Nonostante le promesse in campagna elettorale di “riempire gli aerei e riportare gli immigrati a casa loro” da parte di Salvini, non è un mistero che i numeri dei cosiddetti rimpatri, o espulsioni di extra-comunitari presenti sul territorio irregolarmente, non crescano. Anzi: sono addirittura inferiori rispetto ai governi precedenti. Come è noto, per rimpatriare qualcuno è indispensabile che:

a) l’immigrato non goda di protezione internazionale e sia stato raggiunto da provvedimento di espulsione;
b) il Paese d’origine lo riconosca come cittadino;
c) esistano validi accordi bilaterali con il suddetto Paese.

In Europa, c’è uno Stato che è particolarmente “efficiente” quando si tratta di eseguire espulsioni di immigrati irregolari: la Svizzera. Secondo il Corriere del Ticino, nel 2017 “ne ha rispediti in patria il 56,8%, contro un tasso del 36,6% per l’Unione europea”. Qual è stata la strategia seguita dalla Svizzera in questi anni, e perché funziona meglio rispetto a quella italiana?

I numeri, prima di tutto

Nel 2017, 7.147 persone hanno lasciato il Paese per via aerea sotto sorveglianza delle autorità (qui il rapporto del SEM, la Segreteria di Stato della migrazione). Secondo i dati comunicati dal SEM a Euronews, nel 2018 sono state 3.029 le persone riammesse nel proprio paese d’origine (il 95.5% di esse attraverso voli di linea, il 4.5% attraverso charter). Considerando che nella Confederazione elvetica si stima ci siano 76mila immigrati irregolari(ultimo dato disponibile: censo 2015), i rimpatriati sul totale dei clandestini nel 2017 sono stati il 9.4%; nel 2018, il 3.9%.

Una percentuale di gran lunga superiore a quella nostrana. In Italia nel 2018 sono stati rimpatriati 6.398 persone (dato: Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute, pag. 138), ovvero l’1.2% del totale di irregolari, ovvero privi di un valido titolo di soggiorno, stimati dalla Fondazione Ismu in 533mila unità. Nel 2017, sotto l’allora ministro dell’Interno Minniti, i rimpatri sono stati leggermente di più, 6.514.

Come si vede in questo approfondimento di Milena Gabanelli sul Corriere, da dieci anni i numeri sono fluttuanti ma si mantengono sempre sullo stesso ordine di grandezza: massimo 7mila rimpatri all’anno.
Un numero di molto inferiore a coloro che hanno ricevuto il cosiddetto “foglio di via” (36mila). Se accostiamo questo dato alla diminuzione dei Rimpatri Volontari Assistiti (una modalità più efficace e meno drastica rispetto ai rimpatri forzati), risulta evidente come l’Italia abbia qualche difficoltà a implementare una efficace strategia di rimpatri degli immigrati irregolari.

Cosa diceva il contratto di governo

Il punto 13 del contratto di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle prevede di “implementare gli accordi bilaterali, sia da parte dell’Italia sia da parte dell’Unione europea, con i Paesi terzi, sia di transito che di origine, in modo da rendere chiare e rapide le procedure di rimpatrio” dei “500mila migranti irregolari presenti oggi sul nostro territorio”. Così da garantire una “seria ed efficace politica dei rimpatri, indifferibile e prioritaria”.

Cos’è un accordo di riammissione

Gli accordi di riammissione sono strumenti che servono a facilitare l’esecuzione di un’espulsione (da non confondere con l’accordo di Dublino, un sistema multilaterale che serve a trasferire richiedenti asilo tra Stati europei e verso lo Stato che deve valutare la richiesta d’asilo).

L’accordo di riammissione interviene dopo che è stata decisa l’espulsione di un migrante che non ha diritto a protezione internazionale né permesso di soggiorno, è presente irregolarmente sul territorio e non proviene da Paesi in cui la sua incolumità è a rischio. Scatta una volta accertata l’identità e la nazionalità dell’immigrato ed effettuati i necessari controlli da parte delle autorità. Il diritto europeo è il quadro in cui tutti gli Stati Ue sono obbligati a muoversi e regola la materia dal 2010 (Direttiva Rimpatri): stabilsce come effettuare le espulsioni, su che basi e quali sono i diritti inalienabili delle persone da non violare. Anche la Svizzera, che è parte di Schengen, deve seguirne le indicazioni.

Gli accordi di riammissione sono materia concorrente tra Ue e Stati europei. Significa che esistono sia accordi a livello continentale – siglati tra Bruxelles e 17 Paesi (i più importanti: Turchia, Pakistan e quelli con Paesi balcanici) – sia accordi bilaterali tra Stati Ue e Stati extra-Ue. Ogni Stato Ue, può approfondire gli accordi in maniera parallela, se la cosa è prevista dalla convenzione quadro, ma in generale prevale sempre l’accordo Ue. Ad esempio, se un giorno dovessimo firmare un’intesa ufficiale con il Pakistan, quella italiana varrebbe un po’ come integrazione dell’accordo Ue a cui dovremmo comunque attenerci.

Esistono poi gli accordi bilaterali tra Paesi europei, che regolano come comportarsi – per esempio – nel caso in cui un migrante africano, a cui è stata concessa protezione internazionale dall’Italia, si rechi in Svizzera a cercare lavoro, ma questa è un’altra storia.

Leggendo un accordo di riammissione, si scopre che per la maggior parte si parla di questioni squisitamente pratiche. Per esempio, come effettuare i rimpatri (il Marocco, ad esempio, non accetta voli charter) oppure come stabilire la nazionalità di un migrante senza documenti, dato che spesso il Paese d’origine si rifiuta di riconoscerlo come suo cittadino, da cui discenderebbe l’obbligo di riaccoglierlo.

Chi annuncia rimpatri con cifre a più zeri sa di annunciare una cosa impossibile, qualunque sia il suo colore politico

Mauro Palma
Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale

L’accordo bilaterale è solo il primo passo: senza diplomazia serve a poco

Secondo gli esperti consultati, questi accordi avvantaggiano di solito la parte che sta “a nord”, mentre tendono ad essere quantomeno capestri per i Paesi di provenienza dei migranti. Proprio per questo motivo, messa la firma sul documento, è necessario un continuo lavoro di diplomazia ex post che include incentivi, negoziazioni, contatti pratici e contropartite a livello economico. Come sostiene il politologo Jean-Pierre Cassarino, uno dei massimi esperti in materia, “questi accordi mirano solo ad affrontare le conseguenze delle migrazioni irregolari, non le loro cause”.

“Se la riammissione è al contempo centrale (nelle relazioni esterne dei Paesi europei) e periferica (nei loro molteplici rapporti con i Paesi dell’Africa), la sua completa ed effettiva applicazione dovrebbe essere il risultato di variabili complesse, non necessariamente determinate dal bisogno o il dovere di “lottare contro l’immigrazione clandestina”. Non è quindi sufficiente che un accordo bilaterale venga concluso perché lo stesso sia applicato alla lettera o in maniera costante. “La sua applicazione deriva da un contesto di cooperazione di ampio respiro”.

Tutto è quindi parte di un puzzle largo e complesso: sta ai singoli Stati europei l’essere capaci di mantenere relazioni fruttuose con i partner e trattare ogni caso in maniera differente dagli altri. Come dice a Euronews Enrico di Pasquale, ricercatore della Fondazione Leone Moressa, “non è detto che, anche in caso di intese in essere, tutto vada liscio: bisogna negoziare per ogni persona che deve essere espulsa”.

Perché allora la Svizzera fa meglio dell’Italia?

  • Innanzitutto è partita prima. Il primo accordo di riammissione firmato dalla Svizzera data 1993 mentre, a livello europeo, ci si è mossi solamente a partire dal 2000; quanto all’Italia, abbiamo iniziato sì a inizio anni ’90 con l’Albania (erano i tempi dei barconi che arrivavano stracolmi in Puglia), ma siamo rimasti poi fermi fino al 1998;
  • Maggior numero di trattati bilaterali. Sono ben 64 in Svizzera. In Italia esistono tre livelli di accordi: quelli ufficiali, che sono solamente 4 (Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria); quelli di polizia, di tipo amministrativo e di natura provvisoria (un esempio: quello “segreto” firmato col Sudan il 3 agosto 2016 per il rimpatrio coatto di 40 sudanesi intercettati a Ventimiglia, mai ratificato né discusso in Parlamento); infine, accordi specifici e minimali che hanno permesso, tra i tanti, di reimpatriare un migrante verso il Vietnam e uno verso Singapore nel 2018;
  • La Svizzera non scambia quote di immigrazione legale (decreto flussi). Come puntualizza a Euronews il professor Gianni D’Amato, ordinario a Neuchâtel ed esperto di flussi migratori in Svizzera, gli accordi bilaterali elvetici – tra alti e bassi – tendono ad offrire come contropartita ai Paesi in via di sviluppo il finanziamento di infrastrutture. “La Svizzera, da questo punto di vista, ha investito molto nei Balcani”. Esistono poi progetti nel campo della formazione professionale, come in Camerun, o del sostegno all’amministrazione integrata delle frontiere, come in Libano. Non vengono dunque effettuati “scambi” tra quote di immigrazione legale in cambio della disponibilità ad accettare i rimpatri, come ha fatto in passato l’Italia.
  • Coordinazione con Austria e Germania. La Svizzera, fa notare D’Amato, lavora molto sul tessere relazioni diplomatiche proficue nei 64 Paesi con cui collabora. “Bisogna avere contatti, interessi comuni e ambasciatori abili a negoziare”, aggiunge. “È il Ministero degli Esteri, di concerto con il SEM, che se ne incarica, spianando la strada”. Berna, inoltre, vanta una stretta collaborazione con gli altri Stati di lingua tedesca, Austria e Germania.
  • Tempi celeri per l’identificazione. È bene ricordare che se non c’è identificazione, non può esserci espulsione. Secondo quando riferisce il SEM elvetico, dal 1 marzo 2019 la Svizzera è in grado di processare il 60% delle richieste di asilo entro 140 giorni – non si parla di anni, come in Italia. Durante questo periodo, i migranti sono ospitati in 14 centri salvo poi essere trasferiti in residenze dei singoli cantoni se i tempi dovessero allungarsi. Nel 2018, le procedure di asilo sono state espletate in una media di 562 giorni. La rapidità del sistema “fast-track” introdotto nel 2012 (e riformato quest’anno) fa anche da fattore deterrente per i migranti che sperano nelle lungaggini burocratiche per poter ritardare il loro ritorno in patria, si legge su InfoMigrants,
  • La consulenza per il ritorno e l’aiuto al ritorno. Fino all’inizio degli anni 1990 la Confederazione ha sostenuto uffici regionali di consulenza per il ritorno in tutti i cantoni. “L’offerta di base dell’aiuto al ritorno si è trasformata da un mero pagamento in contanti in un utilizzo efficace delle risorse attraverso aiuti ai progetti”, si legge qui.
Un bambino gioca con un giubbotto salvagente a bordo della Sea Watch 3 al largo delle coste di Lampedusa – Nick Jaussi/Sea Watch

Non tutto va sempre liscio neanche dall’altra parte delle Alpi. Osar, l’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati, denuncia che l’accordo con l’Etiopia implica una collaborazione con i servizi segreti etiopi e non offre garanzie sui diritti umani.

Il disordine e la mancanza di trasparenza del sistema italiano

Secondo quanto denuncia l’esperto Cassarino, “il modus operandi adottato dagli Stati membri dell’UE, nel quadro della cooperazione bilaterale con gli Stati africani, soffre in generale di mancanza di trasparenza. Mancanza che, in questi ultimi anni, è stata denunciata da numerose organizzazioni per la difesa dei diritti umani”.

Francesco Negozio, dell’Università La Sapienza di Roma, scrive che “il sistema italiano appare estremamente disordinato: le diverse modalità di conclusione degli accordi di riammissione e la loro incertezza a livello giuridico rendono difficile una loro elencazione”. Esistono infatti “memorandum, agende, partenariati, quadri di cooperazione, patti, compacts, ecc. Questi documenti, conclusi dai governi o da rappresentanti a livello ministeriale o amministrativo, non godono di alcuna pubblicità (ad esempio nella Gazzetta ufficiale, come invece i trattati conclusi in forma semplificata), oltre a non prevedere in alcun modo il coinvolgimento del Parlamento o del Presidente della Repubblica”, come prevederebbe la costituzione. “Ci troviamo di fronte a una volontà palese dei contraenti di evitare forme di pubblicità […] questi accordi informali possono facilmente dar luogo a violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo quando questi vengono conclusi con paesi non sicuri e attraverso modalità poco trasparenti”.

Dai primi mesi del 2016, l’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale monitora i voli di rimpatrio perché siano rispettati i diritti di chi è coinvolto in queste operazioni. L’Italia era stata richiamata dall’Unione europea nel 2014 per non essersi adeguata alla direttiva rimpatri 115 del 2008 e per non avere adottato un sistema di controllo e monitoraggio dei voli di rimpatrio.

Nonostante dal punto di vista numerico non sia cambiato quasi nulla, e le cifre siano sempre le stesse, questo monitoraggio ha dato un impianto più strutturato e controllato al sistema dei rimpatri, sottolinea a Euronews il Garante Mauro Palma. Tuttavia, gli accordi di polizia, come quello firmato con il Gambia, “dovrebbero avere una logica in una fase provvisoria e di sperimentazione. Dovrebbero portare ad un accordo ratificato dal Parlamento o alla loro interruzione”.

“Bisogna considerare che rimpatriare 10 persone significa metterne almeno 20 di scorta, e rimpatriarne 6mila ha implicato l’impiego di 12mila poliziotti”, conclude Palma. “I costi sono parzialmente coperti da Frontex, a cui però l’Italia contribuisce a sua volta. Il sistema dei rimpatri ha quindi un suo limite fisilogico: ecco perché chi annuncia rimpatri con cifre a più zeri sa di annunciare una cosa impossibile, qualunque sia il suo colore politico”.

Allo studio: i tentativi UE di fare accordi con i Paesi di transito e di monitorare cosa avviene dopo l’espulsione

Mauro Palma sottolinea come, di concerto con altri Paesi, l’Italia stia cercando di costruire “una rete mediterranea che garantisca di seguire la persona rimpatriata anche dopo il suo sbarco dall’aereo, nel Paese d’origine. Troppo spesso la polizia locale sale sull’aereo e di lui non si sa più nulla”.

A livello europeo, infine, la Ue è impegnata nella difficile missione di estendere gli accordi di riammissione anche ai Paesi di transito, nient’affatto tenuti ad accettare cittadini che non hanno il loro passaporto. Una dimensione che sarebbe fondamentale per Italia, Spagna e Grecia. “Nonostante la UE abbia tentato una politica di riammissione verso i Paesi di transito, dal punto di vista giuridico il rinvio verso questi luoghi può essere problematico o addirittura escluso. In Libia, per esempio, non sono garantite le condizioni di sicurezza”, commenta il prof. Francesco Maiani, esperto di leggi e politiche migratorie europee dell’Università di Losanna.

Quello tra Minniti e le autorità libiche è stato proprio un tentativo informale e bilaterale di rafforzare il controllo dell’immigrazione nell’impossibilità di impegnarsi legalmente e formalmente con uno Stato in guerra e in cui vengono negati i diritti fondamentali dell’uomo. Da allora, a livello diplomatico, l’Italia è ferma.

Sorgente: Rimpatri dei migranti irregolari: perché la Svizzera è più “efficiente” dell’Italia | Euronews

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