Matteo Salvini se ne frega: dal giubbotto Pivert alla difesa di Altaforte, continua a lisciare il pelo al mondo fascistoide | L’HuffPost
Mentre l’antifascismo di maniera di Di Maio si ferma a Casal Bruciato
Il libro sfoggiato come il giubbetto blu, con il marchio Pivert in bella vista, il brand di cui è titolare Francesco Polacchi, che Matteo Salvini indossò all’Olimpico un anno fa, omologandosi alla moda di Casapound. Lo stesso che indossava Simone Di Stefano, il 25 febbraio del 2015, il giorno della manifestazione della Lega a Piazza del Popolo, con le falangi neo-fasciste che scendevano dal Pincio in una nuvola di fumogeni e un militante col fazzoletto al collo che issava un ritratto di Mussolini con la scritta: “Salvini, ti aspettavo”. Un segnale politico, di vicinanza, se non di appartenenza, come a dire “sono uno di voi”, “rappresento anche voi”. Ed è questa appartenenza comune che, in fondo, Francesco Polacchi, l’editore di Altaforte escluso dal Festival del libro di Torino, rivendica nel suo urlare alla censura: “La mia esclusione è un attacco a Salvini”.
Ecco, attaccano me, per attaccare lui. Attaccano noi. L’attaccato, professionista dello sberleffo e del qualunquismo per cui “mi interessa poco il derby fascisti-comunisti, ma il futuro del nostro paese e liberarlo dalla camorra e dalla ’nrangheta”, al dunque però quel derby lo accende e lo alimenta, mal celando, nel festival della grossolanità, da che parte sta col suo giubbotto e col suo libro. Ed evoca la “censura” e il “rogo dei libri che non mai portato fortuna a chi lo accende”. Difende se stesso, il libro che sta fatturando una fortuna, e difende loro, perché non sente l’esigenza di marcare una distanza e un argine, neanche nel suo ruolo istituzionale di ministro dell’Interno verso un movimento che molto ha a che fare con la violenza politica. E, nel caso del suo editore, dell’apologia di reato.
Imprenditore, picchiatore, orgogliosamente fascista, Polacchi, l’editore del ministro dell’Interno, già pregiudicato, è sotto processo per apologia di fascismo e nella sua biografia compaiono diversi episodi di violenza. Di fronte alla sua foto con una spranga in mano, Salvini ospite di Otto e Mezzo, non ha pronunciato una sola parola di condanna, né una sola parola di verità sui loro rapporti, di fronte alle foto che lo immortalavano seduto a cena a con lui. Immaginate cosa accadrebbe se in Germania il ministro dell’Interno pubblicasse per una casa editrice gestita da un nazista nostalgico di Hitler, che nel tempo libero, va in giro con una spranga a picchiare la gente.
Solo in Italia questi argomenti entrano nel grande spettacolo della campagna elettorale, non come questioni di fondo, di principio, valori non negoziabili, ma come ennesimo terreno di questa competizione all’interno del governo, dopo le province, l’autonomia, Siri, e prima di chissà cosa. Perché questo è accaduto oggi, nel giorno in cui il titolare del Viminale evoca i roghi dei libri, a proposito dell’esclusione del suo, affidando all’immagine la piroetta logica per cui i fascisti, in questo caso, sarebbero gli altri e non il suo editore. Luigi Di Maio ricorda che l’Italia è un paese antifascista, con lo spirito del novello partigiano che fiuta l’occasione per proseguire nella sua strategia di recupero a sinistra, come l’aveva colta con la tardiva scoperta del 25 aprile, a favor di telecamera, ma tutto rimane sulla superficie, senza che la parole precipitino nella sostanza, come accaduto quando accusò Salvini di andare a braccetto in Europa con chi nega l’Olocausto. Altrimenti, il leader penstastellato dovrebbe tradurre in azione l’evocazione, perché magari il governo può essere il terreno di scontro tra garantisti e giustizialisti, tra chi vuole la tav e chi no, chi vuole le province e chi no, chi vuole la flat tax e chi no, ma è tra gli amici dei fascisti e gli antifascisti diventa più complicato.
E dice molto di più di questa patente di antifascismo a parole, l’ennesimo atto che rivela una complicità su una svolta a destra, dopo i tanti provvedimenti securitari, con la critica verso il sindaco Raggi che, sfidando la rabbia e l’impopolarità si è fatta garante, a Casal Bruciato, della difesa di un diritto verso la famiglia rom, in un contesto di violenza aizzato proprio da Casa Pound. Perché in quel giorno, lo spettacolo di questa campagna elettorale prevedeva l’esibizione dello scalpo di Siri, non la tutela di una famiglia, legittima assegnataria di un alloggio, giudicata. Ma che cosa è, quel che è accaduto a Casal Bruciato se non l’ennesimo episodio rivelatore di un clima e, con esso di un cortocircuito democratico. Il cortocircuito dei due vicepremier che, ignari del sacrosanto diritto di quella famiglia, si affrettano a lisciare il pelo alla pubblica intolleranza, precipitandosi col “prima gli italiani”, proprio nelle ore in cui le forze dell’ordine (dello Stato) stanno cercando di tutelare l’esercizio di un diritto?
L’antifascismo di maniera dell’uno, indossato come uno sgraziato pret a porter, si infrange nell’egemonia culturale dell’altro, nel suo vitalismo futurista, che si nutre di un rapporto ambiguo col passato, fatto di “dico e non dico”, di parole che banalizzano i valori – Resistenza, Liberazione, Antifascismo – e di evocazioni e simboli che dicono molto, come il balcone di Forlì, solcato con la postura di un’icona pop, il “me ne frego” come intercalare, il “molti nemici molto onore”, quasi fosse un’espressione comune. Il libro è un altro modo di lisciare il pelo a un’opinione pubblica fascistoide e qualunquista, con l’abilità comunicativa di chi si dichiara al tempo stesso figlio della modernità e del tempo nuovo, perché “basta con questo derby”, dice irridendo chiunque denunci i sintomi di un ritorno del neo-fascismo in Italia. E la curva nera, sdoganata, applaude, fuori dal Salone del libro e nelle tante Casal Bruciate del paese.
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