Perché poi, in fondo, la politica risponde a logiche semplici. E c’è anche chi, in questa psicosi da voto anticipato, anzi immediato, riesce a rimanere freddo. Uno di questi è Stefano Buffagni, il grillino anomalo, abile decifratore del potere e dei suoi ingranaggi. Nel corso di una riunione con qualche collega ha fotografato così il momento, a chi gli chiedeva perché mai, in questa situazione, Salvini dovesse continuare a preferire il governo attuale al ritorno al voto: “Perché voi non avete visto Red Dragon. Vi ricordate quel che dice il poliziotto?”. Nel silenzio degli astanti ha proseguito: “Dice: perché mai non devi continuare a fare una cosa che ti fa sentire Dio?”.
Già, perché mai? E deve aver colto l’essenza del ragionamento, o semplicemente dell’indole di Salvini se i primi ad essere “stupiti da Matteo” sono i suoi. Non ce n’è uno solo che, in questi giorni, non lo abbia chiamato per suggerire di passare all’incasso ora. È sembrato un disco rotto: “Costringiamoli a rompere, andiamo al voto prima della finanziaria, perché sarà una manovra lacrime e sangue poi sarà difficile monetizzare in termini di consenso, se non cogliamo l’attimo quando ci ricapita un momento così”. Non è solo il solito Giorgetti, ma l’intero gruppo dirigente della Lega a pensarla così: Molteni, Zaia, Fontana, il capogruppo alla Camera Molinari, consapevoli però che il suggerimento resta un’opinione perché Salvini esce così rafforzato dal voto di domenica che, alla fine, “deciderà lui e basta, ed è giusto così visto dove ci ha portato”. Sono gli stessi che però, pur avendo smisurata fiducia del “fiuto” del Capitano, temono di rimanere “incastrati”. Più di uno pensa che “adesso o mai più, ora oppure se ne riparla tra quattro anni perché se facciamo la finanziaria non possiamo andare a votare con l’Iva aumentata”.
E Salvini ha già scelto di proseguire il gioco in un contesto in cui si sente Dio o già, semplicemente, il capo del governo. Guardate la giornata di oggi: l’incontro al Mef, le provocazioni senza reazioni su Toninelli e la Trenta, l’agenda economica della Lega proposta come agenda del governo. Più che la preparazione della rottura, è un altro schema che il leader leghista ha posto in essere, con la forza di chi sa di avere il paese dalla sua e un alleato terrorizzato dall’eventualità del voto: “Guardate che Matteo la politica la sa fare – ha proseguito Buffagni, che lo conosce dai tempi della Lombardia – e sta mettendo in campo proposte, sapendo già dove noi diciamo dei no, perché così lui si presenta come l’uomo del fare, e noi siamo quelli che bloccano l’Italia, lui è l’Italia del sì, noi quella dei no, e scavallerà così la fase della manovra”. Anche perché sa bene che i no saranno circoscritti rispetto a un cedimento sui sì, già messo nel conto. A palazzo Chigi già si ragiona su come ridurre i danni, senza mettere in discussione l’esistenza del governo: “L’autonomia – dice una fonte di governo pentastellata – la reggiamo, dicendo che il provvedimento che esce è equilibrato, sulla Tav ci sono problemi però ogni giorno ha le sue pene”.
Nei Cinque stelle, ancora sotto shock, ogni testa è un tribunale. E ancora non è stata analizzata e metabolizzata la sconfitta. Al netto del processo ai comunicatori, il disegno politico ancora non c’è, figuriamoci in questa situazione se qualcuno si azzarda a pensare alla crisi di governo, mandando al diavolo l’onnipotente. Si visto sul caso Rixi, dove i Cinque Stelle hanno evitato di maramaldeggiare sulla questione morale della Lega, anche perché Salvini ha immediatamente tolto la mina dal terreno del governo. Il primo a sapere che, in questa situazione, è meglio stare fermi è Luigi Di Maio, che ha scelto una sorta di strategia dei due tempi: prima salvare la ghirba nel partito, poi rimettere la testa sul governo, senza intrecciare i due piani.
Il prezzo della stabilità è l’identità da perdere, l’alternativa è lo schianto nelle urne. Il dramma di Di Maio è la situazione perfetta per Salvini. Il gioco è questo, finché dura. Finora ha funzionato, perché non dovrebbe funzionare ancora? Qualcuno dei suoi si è anche stupito che, da domenica a oggi, non ha trovato il tempo né per una telefonata a Giorgia Meloni né a Berlusconi. Ma soprattutto alla prima, potenziale partner di un governo sovranista, artefice di un bel risultato nelle urne. È un atteggiamento che rivela un disegno di fondo perché la verità è che “preferisce stare al governo con Di Maio piuttosto che allearsi con la Meloni”, verso la quale nutre un sentimento di insofferente rivalità che i numeri di Fratelli d’Italia hanno accentuato: “Non esiste – dicono quelli attorno a Salvini – una alleanza a due con Giorgia, o il centrodestra o da soli”. Ma il centrodestra prevede ancora l’ingombrante presenza di Berlusconi. Immaginate un consiglio dei ministri con la Meloni al posto di Di Maio e Tajani al posto di Bonafede. Parafrasando il poliziotto di Red Dragon: “Perché mai fare una cosa che non ti fa ti fa sentire più Dio?”.