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Ognuno di noi consuma in media 160-170 litri di acqua al giorno, di cui l’1% solo per bere. La spesa media annua per una famiglia ammonta a 250-300 euro, con un fatturato per chi gestisce il sistema idrico (approvvigionamento, fornitura, depurazione) che si aggira sugli 8 miliardi di euro. Eppure un italiano su due vive ancora dove gli standard del servizio sono bassi, mentre c’è una riforma, presentata in Parlamento dal M5S, che intende rivoluzionare il sistema.

In base a un’analisi della società Ref ricerche di prossima pubblicazione, realizzata su un campione di 80 gestori per una popolazione servita di 38 milioni di abitanti, ampie zone del territorio nazionale registrano perdite di rete tra il 35 e il 55% dei flussi, con punte massime nel Mezzogiorno; oltre il 60% dei gestori distribuisce acqua di non alta qualità, da cui derivano ordinanze di non potabilità, con conseguente blocco del servizio; oltre 50 gestioni rilevano sversamenti da fognatura (i liquidi non finiscono nei depuratori); poco più del 20% degli operatori smaltisce in discarica parte dei fanghi di depurazione, anche qui con rilevanti differenze tra Nord e Sud. Alla fine, le gestioni non conformi alla legge le troviamo in Sicilia, parte della Campania e Calabria, ma hanno avuto problemi anche le province di Macerata, Viterbo, Como, Varese, Cuneo.
Quando l’acqua la gestivano 7000 enti locali

La situazione attuale è figlia della legge Galli del 1994. Fino ad allora ad occuparsi della gestione dell’acqua erano direttamente i Comuni, che spesso per mantenere tariffe basse e consenso elettorale non investivano nel sistema idrico, abbandonandolo al proprio destino. Nel ‘94 l’acqua diventa demaniale e nasceranno gli Ato (Ambiti territoriali ottimali) per dare un confine al servizio, le Aato (Autorità d’ambito territoriale ottimale) per individuare i nuovi gestori unici integrati e autorizzare le tariffe, e l’Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente), organo di secondo grado che vigila sul comparto. Obiettivo: i costi si ripagano con le tariffe.

Cosa è cambiato in 25 anni

Oggi l’85% della popolazione italiana è servito da società controllate dal settore pubblico, il 12% direttamente dai Comuni, il 2% da società private e l’1% da società miste a maggioranza privata.

Fra i titolari del servizio ci sono 54 operatori specializzati che hanno in carico acquedotti, fognature e depurazione, e 12 multiutility (con gas ed energia), di cui quattro quotate in Borsa e controllate dai Comuni: Hera, Iren, A2a e Acea. Ognuna di queste a bilancio 2018 ha registrato utili netti significativi, servendo in tutto circa 10 milioni di abitanti tra Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lombardia, Liguria, Piemonte, Lazio, Umbria e Marche. Se il modello industriale dell’acqua pubblica ha attecchito soprattutto nel Centro-Nord, altre Regioni non hanno fatto nulla per realizzare la riforma. In Calabria l’alta morosità nel pagamento delle bollette, allacci abusivi sulle reti e dispersione idrica hanno messo in crisi il gestore grossista Sorical e contribuito al dissesto finanziario di molti Comuni.
Dove è migliorato il servizio e dove no

Il grosso degli utili, dicono i gestori, viene reinvestito. In media, gli investimenti per rendere più efficiente il sistema sono finanziati per due terzi dalle tariffe e per un terzo dallo Stato. In Italia, al netto dei contribuiti statali, nel 2019 ammontano a 2,2 miliardi. Ref ha calcolato che gli investimenti netti pro capite, tra il 2016 e il 2019, sono di 47 euro al Nord, 57 al Centro e 18 al Sud e nelle isole. Tanto, poco? In Norvegia arrivano a circa 170 euro, in Danimarca a 160, in Gran Bretagna 140 (ma qui le bollette sono ben più salate). E le tariffe? Dove i gestori hanno investito di più nella rete, sono aumentate, come accaduto in Toscana o Emilia-Romagna (perdite da tubazione però del 20% contro il 40% nazionale). Il quadro, comunque, appare variabile: al metro cubo, nel 2017, le tariffe risultano essere di 3 euro a Firenze, 1,9 euro a Palermo, 1,66 a Venezia, 1,49 a Roma, 1,28 a Napoli e 0,76 a Milano (dati Global water intelligence). Ref segnala come nel periodo 2018-2019, nel Nord Italia, in alcuni casi le tariffe siano diminuite: meno 13% nel Veneto orientale, meno 11,5% a Bologna, meno 6% a Reggio Emilia. Viceversa, nel Lazio, Toscana, Marche e Umbria sono aumentate, in media del 4%, così come al Sud e nelle isole. Altroconsumo, su dati Istat, tra il 2014 e il 2017 ha calcolato in Italia un aumento medio dell’11% per una famiglia tipo di tre persone. Le città più care? Pisa con 596 euro, Siena a 560. Quelle dove si spende di meno Campobasso con 138 euro e Milano con 181.

La riforma che vuole il M5S

In questo quadro si inserisce la proposta di legge del M5S, orientata a riportare agli enti locali la gestione diretta dell’acqua, «bene non mercificabile». La riforma, da fine maggio in Aula, intende dar voce alla volontà popolare che nel giugno 2011 votò sì al referendum sull’acqua, sebbene allora non fosse stato sancito che la gestione fosse solo pubblica. Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua contesta la sua sostanziale privatizzazione, a vantaggio delle tasche dei propri azionisti. In Italia, tra i casi in cui un Comune gestisce direttamente il sistema idrico secondo l’impostazione del M5S, figura quello di Napoli, dove però Utilitalia (associazione che rappresenta 470 imprese idriche, ambientali ed energetiche) punta il dito contro la società Abc Napoli perché ritiene il servizio inadeguato finanziariamente. Il tema dell’acqua è nel contratto di governo con la Lega (divisa al suo interno). Il M5S vuole che le aziende di gestione non siano separate da chi eroga i servizi, tornino a essere di diritto pubblico, siano aziende speciali e non spa, senza finalità di lucro, e riportare il controllo al ministero dell’Ambiente sottraendolo all’Arera. Le concessioni non potranno avere durata superiore ai dieci anni, mentre per quelle in essere è stabilito che decadano al 31 dicembre 2020. Il testo in discussione prevede che sia di nuovo la fiscalità generale, cioè lo Stato attraverso le imposte, a coprire il grosso delle spese per realizzare e gestire i servizi.

A conti fatti

Dunque, le tariffe dovrebbero diminuire, ma non la pressione fiscale (a meno che non si riducano pure gli investimenti che determinano la qualità dei servizi). La proposta di riforma ha creato il panico tra gli attuali gestori e le lobby si sono attivate. La società di consulenza Oxera, per conto di Utilitalia, ha calcolato tra gli 8,7 e i 10,6 miliardi di euro il complesso d’indennizzi da versare ai concessionari a causa delle revoche, cui si sommerebbero 3,2 miliardi per il rimborso del debito finanziario a carico degli enti locali, altri 2 miliardi per i mancati introiti da canoni di concessione e gli 0,7 miliardi per il rimborso del debito intercompany sempre a carico dei Comuni. Alla fine il costo totale a carico dei contribuenti si aggirerebbe fra i 14,6-16,5 miliardi.

Sorgente: Acqua: ritorno alla gestione pubblica? Il conto da pagare | Milena Gabanelli – Corriere.it

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