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Il rapporto fra donne e politica europea ai tempi del populismo di destra.

Giulia Blasi giornalista e scrittrice. Il suo ultimo libro è “Manuale per ragazze rivoluzionarie” (Rizzoli).

L’ Europa sarà femminista, o non sarà.” Lo dice senza giri di parole Iratxe García Pérez, europarlamentare appartenente al Gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici. È solo il secondo giorno di un seminario di tre al Parlamento Europeo, organizzato nell’ambito della campagna #thistimeimvoting (#stavoltavoto, nella versione localizzata italiana) e intitolato Women’s Power in Politics, e non c’è tempo da perdere a fare convenevoli: ogni speaker ha pochi minuti per andare dritto al punto. García Pérez è molto chiara: se il femminismo non entra a far parte del discorso politico generale, come pratica ma anche come visione del mondo improntata alla collegialità, alla condivisione e alla tutela delle fasce più vulnerabili della popolazione, il conservatorismo avrà la meglio e sarà sempre più difficile difendere i diritti acquisiti in decenni di lotte. Non si parla solo dei diritti delle donne, ma in generale di tutte le libertà civili che abbiamo imparato a dare per scontate, e che si notano solo quando non esistono più. Più tardi, uscendo dal seminario, ci imbatteremo in un flashmob a tema #metoo, con cui si chiede agli europarlamentari di impegnarsi per affrontare in maniera concreta il problema delle molestie sessuali.

L’Europa forse non sarà ancora femminista, ma al Parlamento Europeo la parola non crea alcun imbarazzo, a differenza di quanto avviene in Italia: un paese in cui il femminismo rimane per lo più escluso dai palazzi del potere e considerato dall’opinione pubblica un movimento di nicchia, dedito a estremismi o al perseguimento di lotte marginali. Nel migliore dei casi, il femminismo è percepito come una lotta di trincea per la difesa di alcuni diritti propri di una specifica sezione della popolazione (e passi che quella sezione conta più della metà dei cittadini: le donne, dopotutto, valgono almeno il 20% in meno rispetto agli uomini, e vengono pagate di conseguenza). Un ritratto che fa bene alla conservazione dello status quo, malissimo all’evoluzione della società, perché costringe una filosofia avanzatissima a giocare sempre sulle stesse quattro caselle. Autodeterminazione, diritto all’autonomia fisica ed economica, diritto di rappresentanza, equo compenso: tutte cose sacrosante, ma che non segnano alcuna svolta evolutiva. Si limitano a occupare spazio in un mondo progettato a misura di maschio, un mondo competitivo, basato sull’individualismo, sul successo personale ed economico. Poca cosa, quando il femminismo produce visioni della società che vanno ben oltre il conosciuto, traccia scenari, disegna possibilità future.

Il femminismo in Italia entra nel discorso solo per parlare di se stesso o per parlare di diritti civili: sono rare le economiste femministe, le ingegnere femministe, le astrofisiche femministe. La politica ne fa un uso spesso strumentale, di convenienza (con il politico maschio di turno che si dichiara sensibile alla “questione femminile” essendo circondato interamente da maschi, interloquendo con altri maschi e guardandosi bene dal farsi da parte per lasciare spazio a una leadership femminile e femminista), quando non cerca addirittura di usurparne le istanze per imporre una sua visione, necessariamente riduttiva, dei temi sollevati dalle attiviste. Le recenti uscite dei rappresentanti del governo sull’intenzione di aggravare le pene per i femminicidi non lasciano dubbi: nessuna intenzione di agire in maniera preventiva sulle cause culturali e sociali della violenza di genere, solo interventi a valle, che non hanno alcun valore deterrente dal momento che il femminicida spesso si suicida subito dopo aver compiuto l’atto.

Il femminismo in Italia entra nel discorso solo per parlare di se stesso o per parlare di diritti civili.

Altro tema che in Italia suscita imbarazzi è quello delle quote di genere. Il paradosso del cambiamento è proprio questo: lo si auspica senza attuarlo, anche se uno studio condotto dall’ONU evidenzia che se lasciamo andare la barca, come cantava l’Orietta nazionale, arriveremo alla parità in un tempo stimato fra i 150 e i 180 anni. Al Parlamento Europeo si dà quasi per scontata la necessità di quella che da noi è sentita come una forzatura: nei paesi in cui è stata introdotta una forma di quota di genere – sempre García Pérez parla di “liste cremagliera” che alternano uomini e donne – la rappresentanza femminile è notevolmente aumentata. Le quote sono più che mai giustificate dai dati forniti dall’Eurobarometer Survey del 2018: le donne rappresentano il 63,4% dei laureati. In Italia, secondo Eurostat, il 32,9% delle donne ha una laurea (media europea: 44%), contro il 19,9% degli uomini (33,6% in Ue). E se la media europea delle donne occupate è del 60%, l’Italia, con il suo 48%, supera soltanto la Grecia: ovvero un paese colpito di recente da una gravissima crisi economica.

L’economia, peraltro, risulta essere uno dei temi che interessano di più le donne residenti nei paesi maggiormente colpiti dalla recessione. È uno dei dati che emergono dallo studio presentato da Philipp Schulmeister sul rapporto fra le donne e la politica europea: ed è facile da comprendere. Quando l’economia crolla, le donne sono le prime a rimetterci: i loro stipendi (già in media del 16,2% più bassi, secondo dati della Commissione Europea relativi al 2018) calano ulteriormente, i loro posti di lavoro sono i primi che saltano quando il mercato si contrae.

Sempre dallo studio di Schulmeister emergono altri dati interessanti, per esempio sul fronte dei valori ritenuti fondamentali dai cittadini europei che si affacciano alle elezioni. Scopriamo così, con non molto stupore, che in media agli uomini la parità di genere interessa meno che alle donne: il divario è del 12% (46% di donne la ritengono fondamentale, contro il 34% di uomini). Un numero che nasconde un’ombra, un doppio inquietante: un 54% di donne intervistate che non ritengono la parità con gli uomini un valore da preservare nell’ambito dell’azione politica europea.

Le donne hanno meno fiducia degli uomini nelle istituzioni europee, e sono meno interessate alle politiche dell’Unione e alle elezioni in arrivo.

Vale la pena, a questo punto, citare anche un altro dato: le donne hanno meno fiducia degli uomini nelle istituzioni europee, e sono meno interessate alle politiche dell’Unione e alle elezioni in arrivo. Pochi punti percentuali, ma significativi nell’ambito di un quadro generale in cui la scarsa partecipazione corrisponde poi a un’ancora più scarsa rappresentazione: un problema di cui l’Unione europea sembra avere contezza, ma al quale è difficile porre rimedio in assenza di autentiche politiche culturali condivise, o anche solo a un obiettivo comune fra tutti gli stati membri. Insomma: quello che pare ovvio agli spagnoli non lo è altrettanto per gli italiani, i polacchi o gli ungheresi.

Nonostante le resistenze, o forse proprio in virtù delle resistenze che rendono ancora più evidente il problema, l’Europa e il mondo intero sono percorsi da un moto di lucentezza femminista che non accenna a spegnersi. È proprio fra i corridoi ampi dei palazzi di Bruxelles, davanti alla galleria di ritratti dei presidenti del Parlamento Europeo (solo due donne, solo una dopo Simone Veil, prima presidente in assoluto eletta dal Parlamento nel 1979) che nasce EWA, European Women Alliance, promossa da un gruppo di donne italiane capitanato dalla romana Alessia Centioni. Un’associazione che punta a creare legami e fare rete fra le donne italiane che si muovono in ambito istituzionale e non, favorendo la collaborazione per raggiungere obiettivi condivisi. In Romania, l’organizzazione delle donne del Partito Social-Democratico ha lavorato in maniera capillare sulle sue iscritte, arrivando a raddoppiare il numero delle presenze femminili in un Parlamento che ha da poco eletto la sua prima premier, Viorica Dăncilă. È di pochi giorni fa la proposta di Beatrice Brignone, segretaria di Possibile, di creare una lista di donne trasversale agli schieramenti con cui presentarsi alle elezioni europee con un programma femminista, ecologista e solidale. Un’idea non proprio nuova, e che in altri momenti e contesti storici si è rivelata efficace: la Northern Ireland Women’s Coalition, fondata in Irlanda del Nord al tempo dei Troubles, la guerra fra fazioni religiose, riuscì a scavalcare gli steccati, a influenzare l’esito del Good Friday Agreement e a far eleggere tre candidate al Parlamento nordirlandese nella tornata del 1997.

Questo senza contare le lotte in difesa dei diritti di base, la Czarny Protest delle donne polacche contro il divieto totale di aborto e la campagna delle irlandesi che ha portato all’abrogazione dell’ottavo emendamento della Costituzione che impediva l’interruzione di gravidanza in tutta la Repubblica d’Irlanda, e mentre in Iran e Arabia Saudita le attiviste vengono imprigionate. Nasrin Sotoudeh, condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate per il suo impegno in difesa dei minori e delle donne maltrattate. Loujain al-Hathloul, Aziza al-Yousef e  tutte le donne arrestate dalla monarchia saudita per la campagna con cui chiedevano la semplice libertà di poter guidare. Mohammed bin Salman, il principe ereditario, ama atteggiarsi da monarca illuminato: con una mano dà (il permesso di mettersi al volante) e con l’altra toglie (la libertà a chi per anni ha lottato per ottenerlo).

Nell’inconscio collettivo, aborto, divorzio e autonomia decisionale delle donne non sono diritti, ma gentili concessioni sociali che possono essere revocate a seconda di chi comanda.

Questo genere di atteggiamento nei confronti dei diritti umani, e nello specifico di quelli delle donne, è la matrice di ogni arretramento, per quanto temporaneo. Nell’inconscio collettivo, aborto, divorzio e autonomia decisionale delle donne non sono diritti, ma gentili concessioni sociali che possono essere revocate a seconda di chi comanda: i “progressisti” elargiscono, spesso obtorto collo (si tratta pur sempre, come si diceva, di bande di maschi) e i revanscisti tolgono, facendo affidamento sul falso senso di sicurezza delle donne stesse e sull’idea che certi diritti siano fin troppo spinti, e che ci si debba fare scrupolo a chiedere che vengano conservati. La matrice cattolica e patriarcale della società italiana, in particolare, ha sempre raccontato la maternità come un evento mistico e un dono alla società, un sacrificio per cui le madri vengono coperte di gloria retorica, l’unica vera funzione della donna nella società. Per contro, l’aborto è come minimo una “profonda sofferenza”, come massimo un omicidio. Non esiste una narrazione pubblica dell’aborto come atto di decisione autonoma sul proprio corpo: l’interruzione di gravidanza deve essere raccontata solo come lutto, decisione difficile e inevitabile, altrimenti il corpo della donna incinta viene automaticamente espropriato, diventa demanio pubblico. Da cui la proposta della Lega di rendere adottabile il concepito, conferendogli personalità giuridica e impedendo di fatto alle donne di abortire. Una proposta abominevole, che viene dalla stessa area ideologica che si oppone alla GPA: partorire per altri va bene solo se non è una scelta della donna, a quanto pare.

Opporre resistenza a queste derive che sembrano ispirate alla più cruda fantascienza distopica dovrebbe essere la priorità di qualsiasi formazione politica contemporanea, come dovrebbe esserlo la difesa di uno spazio comune in cui coltivare le specificità e i talenti di tutti, al di là delle frontiere. Il Parlamento e le istituzioni europee, con tutti i loro limiti, rappresentano quello spazio comune, creato da un trattato di pace, suggellato da decenni di collaborazione e dialogo. Un luogo fisico e metafisico in cui incontrarsi e creare insieme un futuro più libero per tutti gli esseri umani.

Sorgente: Eurofemminismo – il Tascabile

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