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Pochi ne sono consapevoli, ma già oggi l’UE svolge importanti funzioni in campo sociale. Per quanto limitato, il suo bilancio mette a disposizione dei paesi membri risorse non trascurabili per combattere povertà e disoccupazione, per promuovere istruzione, formazione e sviluppo locale. L’Italia riceve ogni anno circa 11 miliardi di euro dai fondi strutturali. Molte innovazioni legislative nel campo delle pari opportunità fra uomini e donne, della non discriminazione, dei congedi parentali, della sicurezza sui luoghi di lavoro, delle tutele contrattuali per i lavoratori più deboli sono state il frutto di direttive decise a Bruxelles. In molti paesi membri (Italia compresa) l’UE ha sollecitato, favorito l’introduzione degli schemi di reddito minimo garantito, e co-finanziato i servizi di accompagnamento. La “dote lavoro” della Regione Lombardia è in parte finanziata proprio dalla UE [per inciso: Bruxelles non si è detta contraria in via di principi al Reddito di Cittadinanza, ma solo preoccupata perché viene finanziato in deficit e perché non sono affatto chiare le sue modalità operative].

Il rilancio della dimensione sociale e alcuni ostacoli

Sulla scia della crisi finanziaria e in vista delle elezioni di maggio, le istituzioni di Bruxelles e alcuni leader politici nazionali (soprattutto Macron) hanno inaugurato un nuovo discorso pubblico, più vicino ai temi dell’Europa sociale e al ruolo che essa può svolgere nella ri-legittimazione della UE e nel contenimento dei fenomeni populisti. Un effettivo ed efficace rilancio della dimensione sociale si scontra tuttavia con due problemi. Il primo riguarda, molto banalmente, il linguaggio.  La nozione di Europa sociale è ambigua.  In alcuni casi essa è usata in senso “verticale” (le politiche sociali degli stati membri: il sociale nell’Europa); in altri è usata in senso “orizzontale” (le politiche sociali della UE: l’Europa nel sociale). Il secondo problema è di natura istituzionale.  L’espressione Europa Sociale non rimanda oggi a un sistema di politiche e di governance sistematico e riconoscibile. Occorre superare entrambi gli ostacoli con un’iniziativa lungimirante di innovazione linguistica e istituzionale. Abbiamo un’Unione Economica e Monetaria. È opportuno creare un “dirimpettaio” e la denominazione più appropriata è quella di Unione Sociale Europea (USE). Dal punto di vista istituzionale, non si tratta di iniziare da zero. Si può e si deve partire mettendo in connessione una serie di istituzioni e politiche già esistenti, portandole “a sistema” e riconducendole sotto il nuovo “ombrello” USE.

Per un’Unione Sociale Europea

Un primo inventario conta almeno sei possibili componenti:

(1) Gli Spazi Sociali Nazionali, ovvero l’insieme dei sistemi di protezione sociale degli Stati membri, che poggiano sulla tradizione condivisa dell’economia sociale di mercato e del dialogo sociale. Come suggerisce il nome, l’USE si configurerebbe come una unione di stati sociali già esistenti, autorizzati a mantenere le loro legittime diversità ma (i) impegnati nell’adattamento reciproco basato su criteri definiti congiuntamente e (ii) pronti ad impegnarsi in una messa in comune di alcuni rischi.

(2) Gli Spazi Sociali Transnazionali, ovvero l’insieme di schemi e politiche sociali caratterizzati da un elemento transfrontaliero. La maggior parte di queste iniziative coinvolge le regioni, grazie ai fondi UE, sotto l’egida della cooperazione territoriale europea. Ma un altro interessante sviluppo su questo fronte è la creazione (principalmente da parte delle parti sociali) di regimi assicurativi professionali transnazionali per le pensioni e le prestazioni sanitarie, resa possibile da una direttiva del 2004.

(4) Lo Spazio di Mobilità intra-UE, che coincide con le frontiere esterne dell’UE, all’interno del quale tutti coloro che hanno la cittadinanza europea possono accedere alle prestazioni sociali del luogo in cui scelgono di lavorare e stabilirsi. Come è noto, a partire dagli anni ’70, l’UE ha un articolato quadro giuridico per il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale degli Stati membri e dal 2011 una direttiva disciplina la mobilità transfrontaliera dei pazienti.

(5) La Politica Sociale dell’UE in senso proprio, ovvero l’insieme di quelle politiche sovranazionali che hanno una finalità sociale esplicita, siano esse di natura regolativa o (re) distributiva, direttamente finanziate dal bilancio UE (se implicano spese) e basate sul diritto europeo.

(6) I Principi Sociali Fondamentali della UE, ovvero l’insieme degli obiettivi di natura sociale contenuti nel Trattato di Lisbona, compresi quelli che assegnano le responsabilità tra i livelli di governo e definiscono le procedure decisionali in questo campo. Data la supremazia del diritto dell’UE rispetto al diritto nazionale, tali obiettivi e regole costituiscono il quadro generale che guida le altre cinque componenti.

Quale solidarietà

L’USE dovrebbe poggiare su due tipi di solidarietà, guidate da criteri diversi: una solidarietà paneuropeatra paesi e tra singoli cittadini dell’UE, incentrata su istituzioni sovranazionali; e le forme più tradizionali di solidarietà incentrate sulle istituzioni nazionali (e regionali / locali). La solidarietà paneuropea è una questione delicata ed è diventata ancora più spinosa in seguito alla crisi. Sul piano funzionale, la necessità di meccanismi efficaci di stabilizzazione (e, inevitabilmente, trasferimento fra paesi membri) è sempre più riconosciuta in generale, ma vi sono acuti disaccordi su cosa, quanto, come e quando. A livello politico, sono invece emerse forti divergenze sull’equilibrio tra responsabilità nazionale e collettiva, autonomia e controllo, regole stringenti o flessibili. Servono dunque criteri condivisi di scelta.

Il punto di partenza può essere la distinzione tra rischi simili comuni. I primi sono il risultato di dinamiche analoghe (ad esempio l’invecchiamento demografico) che non hanno alcun legame significativo con l’integrazione economica o le esternalità transnazionali. Qui la definizione di alcuni obiettivi concordati congiuntamente, il coordinamento aperto e l’apprendimento reciproco sono certamente importanti e utili, ma non vi è necessità di un’azione comune e di regole vincolanti. I rischi comuni sono invece quelli direttamente prodotti dall’integrazione e/o da dinamiche esterne che colpiscono l’Unione in quanto tale: ad esempio shock economici asimmetrici in presenza dei vincoli dell’UEM; le implicazioni dei disavanzi commerciali o degli avanzi commerciali interni per la crescita complessiva della zona euro, o l’impatto negativo di improvvisi aumenti nei flussi di mobilità intra-UE o di immigrazione dall’esterno dell’UE. Per tale tipo di rischi, la soluzione appropriata è l’azione congiunta (ad esempio, sotto forma di schemi di condivisione dei rischi o di riassicurazione, ma anche di investimenti pubblici congiuntamente finanziati per promuovere la crescita paneuropea).

Ipotesi ambiziose di assicurazione interstatale sul tavolo

Sulla base di quanto accaduto durante la crisi dell’euro, il dibattito ha già iniziato a pensare a forme ambiziose di assicurazione interstatale per attenuare le conseguenze economiche e sociali causate da drammatici e improvvisi shock che colpiscono con particolare virulenza un singolo paese o un gruppo limitato di paesi. Un’opzione che è già stata ampiamente esplorata (anche grazie al governo italiano) è l’istituzione di un regime di riassicurazione della disoccupazione nell’UE. Fra le altre proposte, vi sono quella di un bilancio comune dell’Eurozona per sostenere la convergenza economica e sociale, l’ampliamento del mandato del Fondo europeo di stabilità, compresa l’introduzione di una linea di credito dedicata per shock asimmetrici. Nelle proposte della Commissione vi è anche quella di uno schema denominato European Investment Stabilisation Function, che si attiverebbe automaticamente in momenti di crisi, con forme attenuate di condizionalità ex ante. Queste innovazioni sono attualmente discusse sotto l’ombrello della riforma della governance dell’UEM, ma si intrecciano ovviamente anche con il negoziato sul quadro finanziario pluriennale.

Non sarà politicamente facile muoversi in questa direzione. Ma è proprio su avanzamenti, seppur incrementali, su questo fronte che si misureranno i margini di manovra e di successo per la proposta dell’Unione Sociale Europea. Se deve essere la controparte dell’UEM, l’USE deve essere in grado di correggere i malfunzionamenti allocativi e distributivi generati dalla prima allo stesso livello (sovranazionale), con un’adeguata dotazione di risorse e prerogative. I governi nazionali e i cittadini dell’UE dovranno a loro volta imparare come distinguere tra giustizia e solidarietà interna alla propria comunità nazionale e giustizia interstatale, a bilanciare attentamente le due dimensioni, a mettere in pratica la seconda e gestire l’interdipendenza fra le due.

C’è consenso tra i cittadini europei

I sondaggi d’opinione indicano che ampie maggioranze di cittadini europei favorirebbero effettivamente passi in questa direzione, anche in Germania. Sembra cioè esistere una base elettorale per un consenso trasversale in merito a iniziative di solidarietà transnazionale europea: sicuramente più ampia di quanto ipotizzato dagli esperti, dai funzionari governativi e soprattutto dai leader dei paesi creditori. Dovremmo anche ricordare che gli stati sociali nazionali non sono nati con un big bang: con poche eccezioni, i loro inizi furono piuttosto modesti e ci è voluto molto tempo perché i primi schemi prendessero slancio. Ci sono voluti circa due decenni – gli anni Settanta e Ottanta – per partorire, attraverso tentativi ed errori, un progetto dettagliato e consensuale per l’UEM, la cui progettazione si è svolta parallelamente a varie sperimentazioni di policy e innovazioni incrementali (ad esempio il cosiddetto serpente monetario degli anni Settanta, poi sostituito dal Sistema monetario europeo nel 1979).  La politica dei piccoli passi è dunque inevitabile, ma occorre una cornice strategica chiara e il più possibile condivisa. Nel 2017 la UE ha adottato un Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, il quale ha articolato e precisato i principi fondamentali del Trattato di Lisbona. Il PEDS potrebbe trasformarsi nel motore propulsivo per l’istituzione di una più ambiziosa Unione Sociale Europea.  E sarebbe ovviamente auspicabile che questo obiettivo entrasse a pieno titolo fra le proposte della prossima campagna elettorale.

Sorgente: Una Unione Sociale Europea: perché si dovrebbe (e si potrebbe) costruire – Europea

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