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Nei quartieri più poveri volontari e Comune integrano 25 mila stranieri, Ballarò rivive con Moltivolti e con i commercianti bengalesi che denunciano gli estortori della mafia. Un modello alternativo. E ora Orlando annuncia la sospensione del decreto Salvini

imbalzano nei vicoli stretti di una pavimentazione resa scivolosa dagli umori del mercato le urla dei venditori: pane e panelle, pani c’a meusa, crocchè, fritturiedda, sfincioni, purpi, sfrigolano le stigghiole e gli odori delle verdure, i colori della frutta si mischiano con l’odore delle spezie, del kebab, del cous-cous.

Bastano naso e palato per capire che straordinario miscuglio sia diventato Ballarò, il quartiere del mercato in pieno centro storico di Palermo. Poi, quando cala la sera, i negozi ancora aperti degli immigrati danno vita e luce al quartiere. Ecco la barberia di Salim, che viene dal Benin, dove mentre dentro la minuscola bottega lui ti aggiusta barba e capelli accompagnato da musica africana e altri ragazzi ballano, seduti ai tavolini esterni immigrati e palermitani sorseggiano birre e spinelli. Sarà tutto legale? Non lo so e francamente m’importa poco: «L’esclusione sociale non ha colore, qui il tema della legalità è complicato per tutti: al mercato non sono soltanto gli immigrati a essere fuori dalle regole della Ue», spiega Claudio Arestivo, uno dei fondatori di Moltivolti, ristorante multietnico, centro sociale, fucina culturale e gastronomica con la sua cucina “siculo-africana”, dove a pranzo puoi mangiare un cous-cous afgano e involtini palermitani e la sera assistere a un affollatissimo concerto di musica dei Balcani.

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«Qui a Ballarò», continua Claudio, «abbiamo un 35 per cento di migranti, e siamo un Laboratorio Sociale». «Hanno fatto un po’ come a Riace», spiega Gianmauro Costa, giornalista e scrittore, che nel suo prossimo romanzo in uscita per Sellerio farà agire proprio a Ballarò, alle prese con la Black Axe, la nuova mafia nigeriana, la sua nuova eroina, la poliziotta Angela Mazzola, «i migranti hanno preso vecchie case fatiscenti e le hanno rifatte con le loro mani».

Dice il presidente del Municipio, Massimo Castiglia: «Ti sei mai chiesto perché la Vucciria è un mercato morto mentre Ballarò è vivo? Perché la gente che vive qui, in primo luogo gli immigrati, fa la spesa al mercato, lì, no. Per fare vivere un mercato non basta chi viene a fare la foto, serve chi viene a fare la spesa». «Più che la Vucciria, in qualche modo santificata ma ingabbiata nell’irripetibile quadro di Guttuso, è Ballarò, nella sua tumultuosa vitalità, a rappresentare oggi meglio l’identità di Palermo», dice la scrittrice Evelina Santangelo che, insieme a Gian Mauro Costa e il suo rinato cinema Rouge et Noir, anima la sezione palermitana della scuola di scrittura Holden.

«Gli immigrati hanno fatto rivivere un quartiere: a giugno sono venuti i Reali d’Olanda, e docenti dell’università di Cardiff. Caro Salvini, invece di cavalcare le paure che possono sdoganare la violenza pur di semplificare e ottenere consenso perché non vieni a vedere come funziona a Ballarò?», lancia la sua sfida il minisindaco di Ballarò. Guai però, ammonisce il Sindaco Leoluca Orlando, a individuare nuovi modelli perché Riace insegna che innalzare nuovi modelli può rendere più facile colpirli. Tuttavia da Ballarò una pratica alternativa emerge, dice Castiglia «nel senso che qui c’è un forte privato-sociale organizzato e le strutture sono messe in rete costruendo un presidio di contrasto alla povertà che non riguarda solo i migranti. E poi le istituzioni sono vicine: la gente magari si incazza ma viene comunque in Municipio».

Leoluca Orlando
Leoluca Orlando

Sceso a Palermo (nel sud si dice così: “scendi” quando arrivi, “sali” quando te ne vai) nei giorni del vertice sulla Libia il cui scopo (fallito) era normalizzare quel Paese per impedire i flussi migratori verso l’Italia ripenso a queste parole di Aldous Huxley – umanista, pacifista,  maestro della letteratura distopica, scritte nell’introduzione a una nuova edizione dell’Inchiesta su Palermo di Danilo Dolci pubblicata da Einaudi nel 1956: «Senza carità, la conoscenza tende a mancare di umanità; senza conoscenza, la carità è destinata sin troppo spesso all’impotenza»,  mentre scopro una città controcorrente rispetto al delirio securitario, che per bocca del suo sindaco Leoluca Orlando (che magari i nuovi potenti italiani neri gialli e verdi considerano un criminale ma che in Germania viene premiato da Wim Wenders proprio grazie alle sue idee sull’accoglienza)  propone addirittura l’abolizione del permesso di soggiorno, scopro che dalla semina di Danilo Dolci, il sociologo del nord che negli anni ’50 scelse di raccontare la spaventosa povertà di Palermo e della Sicilia Occidentale filtrando numeri e dati attraverso la sua esperienza umana di condivisione della vita e delle sofferenze di quel popolo, oltre mezzo secolo dopo, sono nati bellissimi fiori: Fra’ Mauro ai Danisinni; Alessandra, Roberta, Fausto, Massimo, Claudio a Ballarò. E ve ne sono tanti altri e altre allo Zen, all’Albergheria, alla Zisa, in mezzo al mare.

Nessuno di loro è un santo (almeno finora), non tutti sono religiosi, non sono soltanto assistenti sociali, non sono militanti politici tradizionali, sono quasi tutti palermitani e non agiscono semplicemente per “solidarietà” verso i nuovi poveri del ventunesimo secolo, i migranti in fuga dalla guerra, dalla tortura, dalla fame, gli stessi fantasmi dai quali fuggivano i poveri della Palermo degli anni ’50 con i quali condivideva la vita Danilo Dolci.

«È che i razzisti fanno una vita di merda», dice Alessandra Sciurba, precaria universitaria, una delle promotrici del Progetto Mediterranea che ha messo in mare la Mare Jonio, coordinatrice del Progetto Harraga (vuol dire ragazzi che bruciano) dedicato ai ragazzi migranti, che cela dietro un sorriso dolcissimo i poteri di una Supergirl che è insieme lavoratrice, mamma, assistente sociale, attivista, comunicatrice. E loro, invece, a Ballarò, alla Zisa, allo Zen, ai Danisinni, fanno quel che fanno perché, come dice Fausto Melluso, sferzante e ironico, giovane avvocato, delegato alle migrazioni dell’Arci di Palermo e responsabile del Circolo Arci “Porco Rosso” vogliono “una vita felice” non dominata dalla ferocia delle giugulari gonfie.

È l’idea di una mitezza che è compassione e comprensione di un mondo nuovo che non può essere fermato né dalle ruspe, né dai muri, quella compresenza di carità e conoscenza, come scriveva Huxley, che qualcuno chiama sprezzantemente buonismo e che dovremmo invece riconoscere come un nuovo umanesimo che ci liberi da un futuro cupo che oggi possiamo forse raccontare solo con la distopia: «Forse solo raccontando i fantasmi possiamo raccontare la realtà», dice Evelina Santangelo, che ha scritto di migranti neri e di emigrati siciliani, il cui ultimo romanzo uscito per Einaudi, “Da un Altro Mondo”, è dedicato all’onda nera che attraversa l’Europa.

Sono pazzi loro, è pazzo il sindaco, che scommettono sull’apertura, sulle radici proiettate nel futuro di una città che ha conosciuto invasioni, dominazioni, stratificazioni che ne costituiscono l’identità polimorfa nella lingua, nell’eredità genetica, nel cibo? «Prendi l’arancina – a Palermo rigorosamente tonda e femminile mentre nella Sicilia orientale diventa piramidale e maschile – è cibo palermitano senza dubbio, ma nasce dalla tradizione araba di mischiare il riso con un ripieno», spiega Danilo Li Muli, pubblicitario e imprenditore, figlio dell’eccellente disegnatore e grafico palermitano Gianni, che ha aperto una catena di street food palermitano e l’ha chiamata Kepalle, in onore a sua maestà l’arancina “tradendo” però l’ortodossia che la vuole solo al burro o al ragù e riempendola di delizie varie. Danilo ha subito intimidazioni pesanti che ha denunciato, ma non per aver tradito l’ortodossia dell’arancina, ma perché non paga il pizzo. A due passi da uno dei suoi negozi in via Maqueda, pieno centro storico, anche un gruppo di commercianti bengalesi di Ballarò si è rivolto all’Associazione Addio Pizzo per denunciare gli estortori mafiosi.

Dunque la contaminazione riguarda anche le buone pratiche e allora i pazzi sono loro, o sono gli altri, i signori del governo che cavalcano paure e seminano odio? «A Palermo non abbiamo piante autoctone, le nostre piante, i nostri alberi sono “migranti” che risiedono a Palermo», dice il primo di questi pazzi, “u Sinnacollanno”.

«Il futuro è nei nomi di Google (o un altro colosso digitale) e Ahmed (o un altro nome di migrante): il primo esprime la connessione virtuale, il secondo la connessione umana. La sfida di Palermo è dimostrare che l’innovazione e la relazione umana se stanno insieme producono futuro».

Mentre la città assisteva con distacco e senza alcun entusiasmo al vertice blindato dei politici di governo, rinchiusi nell’Acquario di Villa Igiea, l’Hotel più lussuoso di Palermo, insieme ai signori della guerra che imprigionano, torturano, uccidono è proprio a Ballarò che ho trovato le storie terribili di chi fugge dai lager libici, come questa: «Da mesi non riesco a dormire, faccio sogni cattivi, mi spavento e temo che mi possa succedere qualcosa», racconta S. E. che ha 19 anni e viene dal Gambia, «i pensieri mi affollano la mente e non se ne vanno mai. Giorno e notte penso a quanto visto durante il viaggio dal Gambia all’Europa. La mia mente è affollata da immagini di gente morta. Rivedo i cadaveri in acqua. Ero in Libia a Sabratha, assieme a 150 persone che aspettavano di imbarcarsi sui gommoni… sul mare galleggiavano i corpi putrefatti e mangiati dai pesci di decine di persone. I libici mi hanno costretto a seppellire quei cadaveri. Erano irriconoscibili, puzzavano. Ricordo ancora quel mare e quella spiaggia della morte e mentre scavavo a terra la paura mi faceva tremare i denti e le mie gambe erano tese come il legno. Penso sempre a quei cadaveri e ai loro visi irriconoscibili e mangiati dai pesci».

Secondo i dati forniti da Salvatore Avallano, coordinatore di Medu (Medicina per i diritti umani) in una delle sessioni del controvertice sulla Libia che si è svolto proprio a Ballarò, l’85 per cento dei migranti che arrivano dalla Libia hanno subito torture e violenze di vario tipo delle quali al vertice nessuno ha chiesto conto. A Moltivolti, Roberta Lo Bianco – coordinatrice Unità Migrazioni del Cesie, tutrice volontaria di due minori – ha portato a pranzo un gruppo di ragazzi per festeggiare la conclusione del loro corso di formazione, ma nessuno di loro ha voglia di festeggiare, le loro espressioni sono turbate e preoccupate: «Sono qui da sei mesi, ora sono tutti maggiorenni, ma alcuni di loro sono arrivati da minorenni», racconta Roberta, «facciamo corsi di orientamento socioculturale, per spiegare loro come funziona in Italia: la sanità, il lavoro, i diritti che spetterebbero loro. Sono richiedenti asilo che hanno avuto la protezione umanitaria. Ora rischiano di diventare irregolari e non possono pensare a nessun lavoro perché non sanno cosa succederà di loro. Io per questo sono molto arrabbiata».

Alessandra Sciurba racconta la storia di B.: «Aveva solo 16 anni quando ha raggiunto la Sicilia. Non sapeva né leggere né scrivere, ma ha imparato in Italia: l’italiano è stata la prima lingua che ha scritto. Ha conseguito la licenza media, e adesso è iscritto alla scuola superiore, presso un istituto alberghiero. Oggi B., essendo stato escluso dalla possibilità di accoglienza presso gli Sprar, che il decreto sicurezza lascia aperta solo per i titolari di protezione internazionale e per i minori, e avendo appena compiuto 18 anni, si è ritrovato a vivere per strada, non riuscendo più a frequentare la scuola».

Tutto il lavoro fatto finora, 240 ragazzi che hanno partecipato ai laboratori, 85 tirocini lavorativi, rischia di non servire a nulla. Per loro si apre un limbo di sei mesi che produrrà grande disagio psicologico e poi dovranno affrontare esami molto difficili: «Il sistema che hanno creato», conclude Alessandra, «è patogeno, perché ora si perdono anche quel minimo di garanzie che c’erano prima».

I pazzi di Palermo (non è un’offesa, semmai la rivelazione di una strana qualità che Roberto Alajmo ha mirabilmente raccontato nel suo “Repertorio dei pazzi della città di Palermo”) sono anche i “proprietari” della Nave Jonio, l’unica nave delle Ong a navigare nel Mediterraneo. «Ma l’hai vista? Sembra la barca di Popeye», sorride Alessandra Sciurba, «l’abbiamo trovata grazie alla gente di mare, che è bella gente. Noi siamo solo persone normali che a un certo punto hanno pensato che in mezzo al Mediterraneo stavamo annegando tutti. Nessuno dovrebbe stare in mezzo al mare. Io non penso che la vita umana debba essere calcolata come un numero. Per questo pratichiamo l’obbedienza civile e la disobbedienza morale, mettendo in gioco anche le nostre fragilità».

«La nave ci è costata 700 mila euro. Abbiamo trovato una banca di pazzi che ce li ha anticipati e stiamo raccogliendo i fondi con il crowdfunding», spiega Claudio Arestivo. «Perché l’ho fatto? Per questa semplice ragione: i miei fratelli, i miei cugini, insieme a una marea di persone, sono andati via da Palermo, mentre io ho difeso il mio diritto a restare. Non posso pensare che il ragazzo ghanese che lavora in cucina non abbia gli stessi diritti dei miei fratelli e dei miei cugini. Io voglio poter dire ai miei figli che in un tempo in cui accadevano cose brutte noi abbiamo reagito».

A ridosso della cattedrale di Palermo, dentro il corso dell’antico fiume Papireto, lungo il cammino arabo-normanno, a poche centinaia di metri da dove sorgeva il quartiere Cortile Cascino, dove negli anni Cinquanta visse Danilo Dolci e dove nel 1962 girarono un bellissimo documentario i cineasti inglesi Robert M. Young e Michele Roem, c’è la borgata Danisinni. Il nome è di derivazione araba e indica una delle sorgenti, “Ayu’abi Sa Idin” (la fonte di Abu Said), che alimentava il Papiro che qui cresceva rigoglioso e, racconta la leggenda, proprio attraverso la grotta di Danisinni, riceveva le acque del Nilo. Oppure, secondo una radicata tradizione popolare, prese il nome da una bella principessa figlia del walì Abu Said.

Borgata di povertà assoluta, vicoli stretti, piccole vecchie case malandate, edifici diroccati, sta risorgendo anche grazie al lavoro dei frati Cappuccini di Fra Mauro, una sorta di Massimo Cacciari più giovane con il saio e i sandali. Ci arrivo alle 11 di una domenica di sole accecante. Sui muri e persino sui bidoni dell’immondizia murales e graffiti. La cappella della chiesa dove Fra Mauro celebra i battesimi è piena, sicché molti seguono la cerimonia da una piccola cappella attigua dove è montato uno schermo.

Mentre mostra con orgoglio la Fattoria sociale dove accanto agli orti pascolano oche, somari e galline, Fra Mauro racconta: «Qui vivono famiglie molto povere (circa 2.000 persone) ma con grande capacità di resilienza. Ci sono molti immigrati, in prevalenza marocchini che vivono di espedienti. Qui la rigenerazione urbana nasce dalla rigenerazione del tessuto umano insieme al tessuto ambientale. Per riscattare l’esclusione sociale servono passione e cultura, non solo risorse. Abbiamo avviato progetti di turismo sociale, sfruttando la nostra collocazione al centro del camminamento arabo-normanno tra Palazzo Reale e il castello della Zisa. Abbiamo appena stipulato un accordo con Airbnb che prevede la possibilità di poter affittare ai turisti, e già funziona l’accordo con un’associazione che si chiama Sicilscatta: un percorso fotografico che si conclude con un pranzo cucinato dalle famiglie della borgata che usano i prodotti della nostra Fattoria Sociale».

L’accoglienza, qui non è qualcosa che viene dall’esterno, è connaturata alla vita reale: «È rimasto un senso di comunità», racconta Fra Mauro, «chi cucina condividendo con chi ha meno non fa differenza tra palermitani e immigrati. L’unica alternativa alla xenofobia è la riscoperta dell’umanità: se ascolti l’altro, se lo vedi nella sua concreta dimensione umana lo accetti, se alzi un muro non lo vedi. Il nostro popolo vive un sentimento empatico perché chi è povero, chi vive la fatica quotidiana del vivere si apre alla relazione con l’altro».

Mi accorgo con lo stupore del vecchio cronista che ha battuto questi marciapiedi raccontando la violenza mafiosa che finora di mafia non ho parlato. Mentre è lunghissimo l’elenco di tutte le iniziative culturali che accompagnano la Palermo capitale della cultura 2018. È forse il cambiamento più grande di una città che, dice Evelina Santangelo, «si definiva contro, come antimafiosa e che ora può rivelare una sua identità positiva».
Tutto ciò è reso possibile da un’azione del Comune che è economica (circa 35 milioni di spesa per il sociale e 8 per i migranti) ma che soprattutto fa leva su questa nuova identità per attrarre capitali e iniziative private.

«Palermo», spiega Orlando mentre mi fa visitare i Cantieri della Zisa, dove vivono una quantità di attività private sostenute dal Comune ma autofinanziate che danno lavoro a circa 400 persone, «è la città che è cambiata di più negli ultimi quarant’anni: da capitale della mafia con il primo cittadino che era insieme sindaco e capo della mafia, a capitale della cultura con un sindaco che è lo stesso che per primo ha cacciato la mafia fuori dal palazzo della città. Liberarsi da quella legge del sangue che è la base del razzismo e della xenofobia, è una grande operazione culturale che spezza la cultura mafiosa, che è cultura del sangue».

Qualche numero per rendere l’idea del melting pot palermitano: a Palermo risiedono 25 mila stranieri, provenienti da 128 Paesi diversi, rappresentati da una Consulta delle Culture di 21 eletti che eleggono a loro volto un presidente che li rappresenta in consiglio comunale.

«Di questo cambiamento culturale dobbiamo ringraziare soprattutto i migranti», afferma il sindaco, «Palermo, città migrante, per cento anni ha rifiutato i migranti: le uniche migranti erano distinte signore tedesche, rumene, austriache, francesi che avevano cura di noi bambini della Palermo aristocratica. Oggi Palermo grazie all’arrivo e all’accoglienza dei migranti ha recuperato la propria armonia perduta: davanti alle moschee passeggiano musulmani, la comunità ebraica realizza una sinagoga e, qua e là, a decine sorgono templi hindu e buddisti. Oggi grazie alla presenza di migliaia di cosiddetti migranti, i palermitani scoprono il valore dell’essere persona e difendono i diritti umani, i loro diritti umani. Una ragazza disabile in sedia a rotelle, palermitana, mi ha detto: “Grazie Sindaco, da quando accogliamo i migranti io mi sento più eguale, più normale, meno diversa”. E se cominciassimo a puntare in alto? Ad accettare che i migranti ci aiutino a recuperare il ruolo del merito? Non più a chi appartieni? Ma finalmente chi sei? Chi hai deciso di essere, cosa sai fare? Don Pino Puglisi, il mio carissimo amico Pino, non combatteva la mafia con le armi e con le denunce, chiedeva venisse rispettato il diritto dei bambini del quartiere di avere una scuola, una scuola degna di questo nome e non più una scuola collocata in appartamenti di proprietà di mafiosi lautamente ricompensati con canoni di affitto gonfiati. A Palermo difendiamo l’unica razza: quella umana. Non ci sono migranti a Palermo: chi vive a Palermo è palermitano. E chi distingue gli esseri umani secondo le razze prepara Dachau e Auschwitz».

Sorgente: Palermo, capitale dell’accoglienza: la grande lezione della Sicilia a tutta l’Italia – l’Espresso

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