L’anno scolastico appena cominciato si preannuncia carico di novità. E anche se moltissimi/e docenti reazionari/e, refrattari/e ad ogni innovazione didattica, si ostineranno a sviluppare con studenti e studentesse discorsi carichi di senso attraverso la lezione frontale (pensate, c’è addirittura chi pubblicamente la difende ed esalta!), è chiaro che i tempi stanno per cambiare.
Da Londra, infatti, arriva la notizia del debutto dell’Intelligenza Artificiale nella didattica con l’introduzione di un corso in cui i docenti semplicemente non ci sono. Il loro posto verrà preso dai robot, definiti dal vicepreside della scuola privata che ha avviato la sperimentazione (esperimento?) più precisi rispetto ai prof, notoriamente approssimativi oltre che lenti… Il corso, funzionale alla preparazione di studenti e studentesse per affrontare gli ultimi due anni delle scuole superiori, è a pagamento… appena 30 mila euro.
E in Italia? Nella terra di Dante Alighieri il Ministro dell’Istruzione e del Merito, dopo le note circolari con cui viene messo al bando l’uso degli smartphone in classe (qui e qui), ha annunciato che l’IA partirà in 15 classi per garantire una crescente personalizzazione della didattica, cioè il computer personalizza, pur non essendo una persona, la didattica, quella che si realizza con le parole e gli atti tra un maestro o una maestra e un alunno o alunna!
Ora, pur rimanendo basiti davanti a tanta paradossalità, noi proviamo ancora a ragionare sull’orizzonte di senso che stiamo costruendo. In un recente saggio Richard Sennett ha riassunto con chiarezza le ripercussioni socioeconomiche prodotte dall’avvento del capitalismo flessibile. Esso ha spazzato via ogni forma narrativa stabile attorno a cui le persone provavano a costruire la propria esistenza proprio precarizzando il lavoro. Nell’ultimo quarto di secolo, infatti, i lavoratori sono andati incontro ad una deregolamentazione del tempo indotta dalle organizzazioni flessibili, che ha inciso negativamente sull’attaccamento alla mansione lavorativa e sul senso di appartenenza nei confronti di aziende e strutture destinate a cambiare troppo in fretta. Privati di una chiara struttura del tempo-lavoro le persone diventano confuse, demotivate, avvilite. L’imprevedibilità lavorativa, esaltata come flessibilità, allontana dagli altri e precipita uomini e donne in un tempo senza tempo, opaco perché fondato sull’adesso. E così il passato, seguendo una linea narrativa completamente altra, e il futuro, pervaso dalla imprevedibilità, non sono più dimensioni temporali affidabili. La società informatizzata e automatizzata ha esasperato questa dimensione temporale compressa sul qui ed ora riducendo l’attività lavorativa, ma anche i rapporti social-i, a semplici icone su uno schermo da cliccare.
Ecco, ci è venuto in mente che tale situazione aderisce sempre di più anche agli/alle insegnanti, che, sottoposti/e alla concorrenza sleale di macchine sempre in forma, possono pensare di far propria la narrazione di un’archivista di mezz’età: «All’improvviso una macchina ha fatto il mio lavoro meglio di me e mi hanno lasciato a casa, e la prima cosa che ho pensato è stata: che stupida sono stata tutte le volte che sono rimasta in ufficio a fare gli straordinari solo per finire quello che dovevo fare» (p.69).
Così, mentre attendiamo che si consumi fatalisticamente la scomparsa dei professori e delle professoresse, sostituiti\e da sofisticatissimi quanto aleatori programmi da avviare con un banalissimo click, è Byung-Chul Han ad avvertirci della transizione antropologica già consumatasi con l’avvento della società digitale: la scomparsa della mano, sostituita dal potere del dito.
Questa nuova dattilocrazia dissolve il mondo reale intorno a noi, quello perlopiù fondato sulla chirocrazia, sul potere della mano, che vota, che prende la parola, che costruisce. Persone e cose svaniscono al cospetto di un lucido schermo, mentre la comunicazione, quella viva e reale, viene sostituita da un’ossessionante ricerca di informazioni facilmente disponibili.
Guidato dal proprio dito, che segue pedissequamente gli algoritmi digitali, «l’essere umano perde il proprio potere di agire, la propria autonomia» (p. 9) e diventa un mero oggetto di consumo, consumato egli stesso, in quanto soggetto, dal moltiplicarsi delle occasioni che mediante il dito permettono l’accaparramento con i click day di beni e servizi, anch’essi perlopiù impersonali, standard e spersonalizzanti, proprio come li vuole il capitalismo efficientistico.
Per loro si tratta di sperimentazioni, innovazioni e aggiornamenti, per noi è chiaro, anche solo per un evidente fatto linguistico, che senza persone nessuna personalizzazione sarà possibile.
AP e ML (10/08/2024)