Chadia ha 7 anni e vive in uno degli innumerevoli campi sfollati di Khan Younis, a Gaza. Ci chiede se porteremo qualcosa da mangiare, ci chiede se porteremo qualcosa da bere e poi una domanda, insolita per una bambina così piccola. «Ci chiederete soldi per poterci curare?». Chadia si ammala spesso, mi dicono, e la sua famiglia fa davvero fatica ad andare avanti.
Prima la fuga dalla guerra in città, un’evacuazione dopo l’altra e ora, nella cosiddetta «zona umanitaria», lo strazio del sopravvivere in condizioni difficili da raccontare. La parola «difficile» non rende nemmeno l’idea, perché quello che vediamo va oltre a ogni nostra aspettativa.
Siamo in Afghanistan dal ’99, continuiamo a essere presenti in Sudan. Abbiamo lavorato in Iraq durante la battaglia di Mosul. Di scenari di guerra ne abbiamo visti. Ma niente è equiparabile a Gaza oggi. Ancora una volta constatiamo con tristezza che quando arriva la guerra le prime vittime sono i civili.
Quello che abbiamo visto entrando è un contesto di disperazione, distruzione e desolazione. Nella «zona umanitaria» (dove Emergency sta attendendo l’autorizzazione per aprire a breve una nuova clinica sanitaria) colpisce l’alta densità di popolazione, la presenza di tende e di strutture fatiscenti praticamente ovunque. A partire dal 12 agosto, l’area umanitaria dichiarata da Israele ad al-Mawasi si è ridotta dai 58,9 chilometri quadrati di inizio 2024 ai circa 46 chilometri quadrati attuali. Qualsiasi spazio vuoto è stato occupato al fine di avere un posto in cui rifugiarsi all’interno dell’unica zona che viene considerata sicura. Anche se, a prescindere da dove ci si trovi, di sicurezza non ce n’è e la violenza della guerra è dappertutto; i bombardamenti sono quotidiani, i cieli sono pattugliati da droni sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro. La popolazione è allo stremo, c’è bisogno di tutto.
Abbiamo conosciuto un medico che viveva a Gaza City, una figura riconosciuta all’interno del campo che sa gestire le relazioni interfamiliari e si è fatto portavoce dei bisogni della comunità, che sono tanti.
Il settore pubblico sanitario è collassato: sono parzialmente funzionanti solo sedici dei trentasei ospedali presenti nella Striscia, e circa la metà delle cliniche di salute primaria. Secondo un aggiornamento di Ocha (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) delle scorse settimane, nella prima metà di agosto sono state negate dalle autorità israeliane sessantotto missioni umanitarie, circa un terzo delle missioni programmate a inizio mese.
Quando usciamo di casa diretti verso quello che in gergo definiamo «field», il campo, la zona di azione della missione umanitaria, quello che vediamo sono migliaia di persone ammassate in pochi chilometri di terra a ridosso della costa in condizioni igienico sanitarie disastrose che rischiano di portare allo scoppio di epidemie. C’è scarsità di cibo e acqua potabile, la popolazione è spinta completamente all’indigenza.
Conosco la Gaza del «pre» 7 ottobre 2023. Arrivai per la prima volta in Palestina nel 2013 per un progetto di internship; a Gaza, sono entrato per la prima volta nel 2017 con alcune realtà del terzo settore, ed è stato amore a prima vista. Allora si entrava dal Nord, da Erez, che adesso non è più un’opzione, e si passavano tre checkpoint. Quella zona ora è completamente distrutta. L’area del porto, prima così viva, è stata quasi rasa al suolo. Tutti i gazawi conservano almeno una foto della spiaggia, le barche ormeggiate, un andirivieni di persone, soprattutto giovani. Adesso c’è solo una distesa di sabbia, cosparsa di mezzi militari.
Se dovessi tornare ora nei miei luoghi frequentati a Gaza nel 2017 probabilmente riconoscerei ben poco, oltre al fatto che la maggior parte di questi è ora inaccessibile.
Ricordo una Gaza in cui i gazawi conducevano la loro vita cercando di andare avanti, nonostante la disoccupazione, i blackout elettrici, l’embargo, il divieto di pescare troppo lontano dalla costa, la difficoltà degli spostamenti e i permessi negati da Israele. Chi nasceva a Gaza sapeva già che sarebbe cresciuto in una prigione a cielo aperto, e non avrebbe mai lasciato quella striscia di terra. Ma un giovane gazawi allora, nonostante le condizioni di vita fossero difficili, probabilmente noi diremmo insopportabili, cercava sempre e comunque di andare avanti. Questa era la resilienza che vedevo già allora e che vedo tutt’oggi, elevata all’ennesima potenza.
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So che molte persone che abitavano in zone evacuate, scappate nella zona umanitaria, non appena le operazioni si sono concluse sono tornate a casa anche se la sicurezza non esiste e le loro case sono ridotte in macerie. È comunque casa loro. Con i rumori dei droni e dei bombardamenti, non si riesce nemmeno a dormire, ma i gazawi hanno una capacità di gestione della stanchezza, del dolore, della paura, dell’angoscia straordinaria. Una caparbietà importante a non mollare, a ricostruire, a ripartire. E una grande dignità. Gaza è molto diversa da quella che avevo lasciato nel 2017, ma non lo è la resilienza della sua popolazione che quando tutto ciò sarà finito, potrà tornare ancora una volta a ricostruire.
*Capomissione di Emergency a Gaza