La vittoria di AfD nelle elezioni regionali in Germania,prevedibile dai sondaggi ma non meno clamorosa, -al pari dell’exploit di Sahra Wagenknecht- è stata accolta nell’Europa dei Gentiloni con un rifiuto cognitivo totale, quasi come fosse un accidente casuale, senz’alcun attinenza con quello che monta da anni, e con il rifiuto delle politiche belliche.
AfD e la tempesta in Germania
Il successo dell’AfD nei due lander andati al voto avrebbe dovuto suscitare qualche interrogativo tra gli osservatori internazionali. Soprattutto in Italia si registra un atteggiamento di sostanziale rifiuto, come se i voti per l’estrema destra tedesca fossero arrivati quasi per caso, senza alcun nesso con quanto accaduto negli ultimi vent’anni in Europa e come se non ci fosse un legame con la guerra in Ucraina.
Una lettura non molto perspicua a mio avviso è però anche quella che vuole ricondurre il successo dell’AfD a ragioni esclusivamente economiche, là dove molti indizi necessiterebbero di una spiegazione che definirei simbolico-culturale.
Una spia in questo senso è contenuta anche nell’intervista uscita stamane su Repubblica alla leader Alice Weidel, dove afferma con molta trasparenza che l’uscita della Germania dall’Unione europea è sul tavolo della discussione interna all’AdF.
Ora, com’è possibile che il paese che più ha goduto dei vantaggi dell’UE, che più ha saputo usare l’euro come un moltiplicatore di potenza e persino come uno strumento di minaccia (vedi Grecia) registri la grande ascesa un partito antieuropeista?
Credo che questo sia dovuto a una forma di degrado neoliberale determinato dallo spirito economicista che pervade la Germania e che gli osservatori di questo paese – in modo intellettualmente perverso – impiegano spesso per valutarne i successi.
Dal 1992 ad oggi la Germania ha registrato una notevolissima quantità di risultati economici eccezionali nel campo della crescita, dell’occupazione, dello sviluppo industriale e tecnologico, della gestione del debito, delle esportazioni e della penetrazione nei mercati internazionali.
Si tratta di risultati eccezionali che certo andrebbero pesati al netto di altri dati. La domanda tutttavia è: la Germania ha ottimi numeri, come è possibile allora che vinca un partito antisistema? Mi correggo: com’è possibile che vinca un partito che nel proprio programma conserva gran parte delle politiche merkeliane proausterity all’interno di un programma antisistema?
Da cosa nasce questo ircocervo che reclama continuità, anzi, esasperazione della continuità, e ribaltamento del panorama politico?
Tra gli aspetti che non si vedono o che non si vogliono vedere vi è la disattivazione e delle agenzie di senso, dell’identità culturale di un paese costretto a svegliarsi repentinamente dal sonno poststorico dopo il sabotaggio di North stream.
La stessa CDU in cosa sarebbe fedele agli ideali cristiani che evoca nel suo nome? E l’SPD in cosa sarebbe socialdemocratica? In che modo l’identità di questi partiti si lega alla scelta di sostenere la guerra in Ucraina anche dopo aver scoperto che proprio questo paese è coinvolto con la distruzione e del gadotto?
La Germania, dopo la guerra, ma con un’accelerazione fortissima dopo il 1992, ha puntato tutto sull’economia scommettendo sulla fine della storia, ovvero sulla fine dei conflitti geopolitici in un mondo trasformatosi in spazio liscio favorevole alla germinazione dei rapporti economici.
Ha dunque smantellato la propria cultura tradizionale conservatrice e il proprio modello socialdemocratico compensando il vuoto con l’integrazione di valori ideologici improntati all’individualismo, alla competizione e a un esasperato utilitarismo penetrato persino nella scuola.
Non di rado questi valori sono stati veicolati attraverso simboli tipicamente liberal (woke culture, politiche green, antipatriottismo, secolarizzazione a buon mercato…) il cui valore progressivo è solo esteriore dal momento che la loro traduzione politica è andata a coincidere con una trasformazione che ha generato disorientamento se non vera e propria paura culturale.
A sinistra, in Italia, ma spesso anche in Europa, si fa fatica ad accettare che le trasformazioni anche quelle apparentemente più progressiste e moralmente giuste, se promosse con furia distruttiva verso il passato, se imposte senza la mediazione pedagogica a chi vive in ritardo l’urgenza della loro diffusione e dunque se non dialetticamente integrate e adattate allo sfondo culturale e ai modi di pensare comuni, rischiano di generare effetti perversi, risposte di rifiuto e di rigetto.
L’economicismo, cioè l’ideologia che misura la vita politica solo con il metro dell’incremento della ricchezza e che lascia in secondo piano la dimensione sociale e collettiva delle comunità nazionali, ha funzionato in Germania sino a quando la crescita è stata costante.
Ora che persino la casa automobilistica Volkswagen sta valutando la chiusura di qualche impianto e che le prospettive non sono più rosee l’economicismo sta rilevando il deserto che ha lasciato alle proprie spalle.
Questo è il terreno ideale per l’estrema destra, soprattutto per quella dell’AfD per via della capacità di combinare in un pericoloso ircocervo la rifioritura del nazionalismo, con dosi di razzismo e di retorica autoassolutoria: “l’austerity era giusta, occorreva applicarne dosi maggiori dando la priorità ai tedeschi.”
Autoassoluzione e razzismo: è un film già visto troppe volte. La fortuna della Germania è che una certa Sara Wagenknecht ha compreso cosa c’è in ballo, ma per aver posto la questione culturale in termini antineoliberali si è beccata della “rossobruna” dai benpensanti.
Sorgente: kulturjam.it
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