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Nella tragedia del barcone sfasciatosi di fronte alla spiaggia calabra, in fondo, tutti hanno recitato il loro copione, sono stati fedeli al ruolo: gli xenofobi, di tinta più o meno fosca, imprecando alla follia dei disperati colpevoli di sfidar la morte mettendosi per mare riempiendo le tasche dei “mercanti’’; i buoni, gli uomini di fede e buona volontà, ce ne sono di veri ma pochi, trovando una nuova terribile prova di quello che dicono da sempre, che il nostro dovere si risolve nel salvare chi si affida al mare per fuggire una condizione umana insopportabile, che questo impongono le leggi e la morale. Anche i migranti in fondo hanno recitato la parte in cui sono imprigionati dal 2011, ovvero quella di rischiare e di morire. Non siamo ipocriti: in questi dodici anni di ciance di diverso colore che abbiamo fatto, davvero, perché questo non fosse periodicamente il loro destino? Li abbiamo insultati, raccolti, respinti, usati per i nostri piccoli traffici politici, giornalisti, umanitari. E poi?

Innumerevoli sono le tragedie in questo tempo infinito della Storia, la nostra di privilegiati distratti e spesso indifferenti, e la loro, di fuggiaschi senza alternative. Hanno riempito il mare, i morti sono migliaia; morti per lo più nel silenzio o in poche righe di agenzia o di telegiornale: normalità del dolore, usura della sofferenza… Ma questa volta l’eco, la emozione collettiva, l’indignazione per il “delitto’’ è più grande, si chiede di fissare le colpa, si invoca la verità e si assicura che non deve ripetersi: il troppo sembra esser diventato davvero troppo… Sono espressioni, queste, in cui impacchettiamo ciò che intimamente e con precisione non sappiamo o vogliamo risolvere. Dopo tredici anni di sbarchi, di morti, di polemiche ancora una volta le parole, queste parole non esprimono l’essenziale. Improvvisamente tutti parlano: dei bambini morti della stiva piena di esseri umani come se fossero oggetti o merce, dello strazio dei cadaveri senza nome, delle bare e del lutto, si cronometrano i tempi del salvataggio possibile ma mancato, i messaggi, i protocolli, (dove alla fine forse tutto si spegnerà) le consuetudini e le abitudini, si sbraita contro gli scafisti, finalmente li hanno arrestati! Quando si sa che nessun scafista vero, quello che incassa i soldi lerci di questi viaggi, in terra e in mare, farebbe mai la follia di salire a bordo del marciume su cui spedisce i suoi disperati “clienti’’.

Ho attraversato il mare, era un’altra rotta, su un barcone di clandestini quando questa tragedia era all’inizio. C’erano già i mugugni e le urla contro “l’invasione’’. Ma allora le unità della guardia costiera uscivano dieci, venti volte al giorno da Lampedusa cercando i dispersi di questa odissea, le barche senza nome segnalate da aerei ed elicotteri. Per questo sono, siamo, io e i mie 112 compagni vivi. Quando affondammo Lampedusa non si scorgeva nella notte. Se la guardia costiera non fosse arrivata saremmo spariti inghiottiti dal nulla. Cosa c’è di diverso questa volta? La questione è: quello che è accaduto, la morte, i cadaveri che abbracciano la sabbia della riva, le loro povere cose, lo scheletro della barca, è successo sotto i nostri occhi, a uomini in carne e ossa, non a numeri segnati in un comunicato: una barca è affondata al largo della Libia, a bordo forse cinquanta persone si dispera di trovare superstiti…l’ennesimo dramma del mare, ancora? Si depreca, si brandisce come arma politica, o si passa oltre come la pioggia o la siccità: come si fa a salire su un rottame? … poveretti… ma perché continuano a partire?… nessuno li avverte? Fine.

Questa volta non solo è accaduto, come le altre volte: le lunghe contrattazioni con gli scafisti, cinquemila no seimila euro … turchi tunisini libici la avidità non ha sfumature, passaporti… quanti siete? Quattro due bambini ci sono due bambini piccoli … e allora? Lo spazio che occupano è lo stesso, non siamo un traghetto di lusso, loro pagano eguale… ma la barca è sicura? Certo è grande tiene bene il mare e poi se hai paura vai al porto è pieno di navi grandi come vuoi tu… e poi la notte della partenza, dalla spiaggia la barca di legno sembra fragile, indifesa sullo sfondo del mare… ma che fare ora che si è pagato … si sta schiacciati l’uno all’altro, fortunati quelli che sono vicino alle pareti della stiva che si possono appoggiare, o al boccaporto da dove arriva un po’ d’aria… dopo poche ore l’odore del mare non riesce più a soffocare quello di umanità povera, odore spesso, acre, denso … essere insieme, così vicini in fondo da un po’ di sicurezza … tutti tacciono, ascoltano il fragore che viene dall’esterno che cresce quando il vento rinforza e la barca geme contro le onde… lo si ascolta con tutto il corpo, con tutti i nervi, non solo con l’udito… passano le ore, si sta rannicchiati come gli animali in una tana… finisce il poco, cibo e acqua, che si è portato dietro venite leggeri niente bagagli pesano tolgono spazio… faremo in fretta ad arrivare …. allora perché, perché qui? E poi la tempesta e il fasciame che raschia fischia esplode … si è svolto, in apparenza, come le altre volte, come sempre dunque. Solo che questa volta sulla spiaggia, abbiamo personalmente a che fare con quello che è accaduto. Semplicemente, senza giri di parole: eravamo tutti presenti. Abbiamo visto come si muore. D’improvviso siamo informati immediatamente. Non possiamo far finta che lo spazio annulli il tempo. Non c’era il mare aperto, la remota, indecifrabile “zona sar’’, il cavillo delle acque territoriali, l’eterna scorciatoia della “emergenza’’. .. Non c’era l’ipocrisia del non vedere che assolve meglio di una medioevale indulgenza. Siamo rimasti a guardare muti per l’orrore mentre il mare uccideva. E ci siamo accorti che in dodici anni non abbiamo fatto niente. Siamo fermi con indecente impotenza alla domanda a cui non riusciamo a dare risposta: già, che cosa avremmo potuto fare?

Sorgente: Muti davanti all’orrore – La Stampa

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