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Da quando è diventata premier, la leader di Fratelli d’Italia si sente nel “momento pigliatutto”, vive con un certo fastidio le critiche e vede le opposizioni come un intralcio. Come da tradizione illiberale di estrema destra, dopotutto

di Mario Lavia

Cinque mesi dopo l’insediamento del governo l’impressione è che Giorgia Meloni e i suoi ministri (di Fratelli d’Italia soprattutto) più che governare il Paese vogliano prendersi il Paese. Che sentano insomma di avere, per usare una formula di Gramsci, «la Storia in tasca», che interpretino il voto del 25 settembre non come una vittoria elettorale ma come una svolta storica, un girare d’angolo radicale, se non irreversibile, almeno di lunga durata.

Questa sensazione non è data soltanto dalla bramosia di arraffare tutto l’arraffabile in termini di nomine – siamo alla vigilia di una grande scorpacciata in Rai e non solo – ma soprattutto dal postulato illiberale che la premier ha formulato l’altro giorno in Parlamento, quando, rivolta alle opposizioni, le ha messe in guardia dall’attaccare troppo il governo perché così facendo si fa del male alla Patria.

Ora, è evidente che la coincidenza tra governo e Paese è tipica della concezione autoritaria e illiberale di estrema destra – purtroppo pare che stia entrando nella testa degli italiani – come se il governo non fosse “parte” del gioco politico, essendo semmai il Parlamento la sede dell’unità nazionale rappresentata poi dal presidente della Repubblica che non a caso Meloni vorrebbe diventasse anch’egli “parte” a seguito di un duello elettorale.

Nel ragionamento della presidente del Consiglio, dunque, chi attacca il governo attacca il Paese, o quasi («Fermatevi un attimo prima»: ma che significa?), all’interno di una logica pugnace che vede l’Italia contro gli altri Paesi, ragione per cui è necessario che il governo abbia dietro di sé tendenzialmente tutti i cittadini. Quelli di loro che si rifiutano di sostenere l’esecutivo sono pertanto tacciabili di «slealtà» (è il termine che ricorre nel suo fortunato libro “Io sono Giorgia”): quello che in tempo di guerra è tradimento, insomma. Anche questo andirivieni implicito tra condizione di pace e stato di guerra è tipico del pensiero reazionario (e per altro verso del leninismo), giacché i veri liberali non si sognerebbero mai di mettere in guardia l’opposizione dal rischio di indebolire l’Italia con le sue critiche, perché per i liberali la dialettica democratica – anche aspra – è il lievito della democrazia.

Da queste attitudini psicologiche e culturali discende il cipiglio arrogante della Meloni e dei suoi ministri che vivono le critiche con fastidio e la dialettica come un intralcio – le famose “strumentalizzazioni” anche quando si chiede ragione di una strage non spiegata.

Non è il “lasciateci lavorare” del Berlusconi “uomo del fare” che faceva politica come nelle sue aziende e scambiava il Parlamento per il consiglio d’amministrazione della Fininvest: qui siamo davanti a una istintiva teorizzazione del primato assoluto dell’esecutivo e alla tendenza a ridurre al silenzio chi la pensa diversamente, a una forse inconsapevole riscoperta dei teorici del governo forte dei primi del Novecento, da Gaetani Mosca a Roberto Michels.

L’aggressività mostrata nei talk show dai politici di destra e dei giornalisti al seguito sta lì a dimostrare un permanente rifiuto ad accogliere le posizioni altrui, mentre nel volto sempre corrucciato della Meloni (che nelle settimana scorsa era sembrata più sorridente: ci sono problemi?) si legge quella specie di voglia di rivalsa dopo l’uscita da una storica condizione di minorità, quell’ansia di rivincita contro un destino sin qui cinico e baro, e quindi quella convinzione di essere nel «momento pigliatutto», come l’ha definito Flavia Perina, che poco concede agli alleati e nulla agli avversari. Nei fatti, da un lato si ostenta una sostanziale indifferenza per i discorsi altrui (si veda il pur abile discorso della premier al Congresso della Cgil), dall’altro una furia parlamentare degna di miglior causa (l’intemerata di Giovanni Donzelli contro il Partito democratico, l’atteggiamento di una Meloni urlante in Aula, ieri il massacro di un provvedimento come quello del Partito democratico che avrebbe evitato ai bambini figli di detenute di stare dietro le sbarre).

Se questo è il quadro politico e psicologico della nuova destra al potere bisogna chiedersi che fine abbiano fatto i liberali del centrodestra. Dove sono i garantisti? Dove sono quelli attenti ai diritti vecchi e nuovi? Che ne è dell’ala liberale che un tempo albergava in Forza Italia ma anche di un uomo come il ministro della Giustizia Carlo Nordio? Tutti spariti, puf. Ridotti al silenzio. Non c’è spazio per altro che non sia la vera missione del melonismo: prendersi il Paese, più che governarlo.

Sorgente: Meloni dimostra di volersi prendere il Paese più che governare – Linkiesta.it

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2 commenti su “Meloni dimostra di volersi prendere il Paese più che governare