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L’economista Emilio Carnevali sulla manovra di Meloni: “Invece di strizzare l’occhio agli evasori, si guardi al Regno Unito per migliorare il Reddito di cittadinanza”.

Cinzia Sciuto

Fra le misure più discusse della manovra economica del governo Meloni c’è la radicale messa in discussione del Reddito di cittadinanza, che viene di fatto smantellato entro il 2024. Ne parliamo con Emilio Carnevali, economista italiano che insegna alla Northumbria University di Newcastle nel Regno Unito e ha lavorato per diversi anni in un team del ministero del Lavoro inglese incaricato di fare analisi quantitative sullo Universal Credit, l’equivalente inglese del Reddito di cittadinanza.

L’attacco al Reddito di cittadinanza viene giustificato con l’argomentazione che chi non può lavorare ha diritto all’assistenza dello Stato ma chi è “occupabile” deve lavorare e non “campare a spese della collettività”, magari facendo nel frattempo anche un lavoro in nero. Cosa non funziona in questo ragionamento?
Innanzitutto, il ragionamento allude implicitamente a una distinzione fra “chi può” e “chi non può” lavorare basata su una sorta di capacità o condizione individuale. Chi non può lavorare, magari perché malato, non ha “colpa” e dunque va sostenuto. Se però sei abile al lavoro, ti devi rimboccare le maniche. Ora, se questo argomento fosse portato alle sue logiche conseguenze non dovremmo abolire solo il reddito di cittadinanza, ma qualsiasi altro istituto di sostegno al reddito per persone disoccupate, dalla indennità di disoccupazione alla cassa integrazione. I cassaintegrati, o i percettori della Naspi, sono persone perfettamente abili al lavoro (hanno lavorato fino al giorno prima!). Perché non dovrebbero rimboccarsi le maniche pure loro? Ma mi piace pensare che nessuno si sognerebbe di eliminare completamente tutti gli istituti di sostegno al reddito dei disoccupati, che per altro sono presenti nell’ordinamento di tutti gli altri paesi europei. Il problema è che la condizione di disoccupazione – il più delle volte – non è una scelta individuale. Se lo fosse il tasso di disoccupazione oscillerebbe esclusivamente in base agli “umori” e alle “preferenze” collettive della forza lavoro. Mentre è evidente a tutti che la disoccupazione sale nelle fasi di rallentamento economico e scende nelle fasi di accelerazione. Non a caso la ripresa economica del 2022 – seguita alla fine delle restrizioni imposte dalla pandemia – ha visto scendere anche il numero dei percettori del reddito di cittadinanza. Mezzogiorno compreso. Aggiungo infine che esistono anche persone che lavorano, ma sono comunque povere: le misure di lotta alla povertà devono intervenire proprio per contribuire a contrastare questo fenomeno. Naturalmente devono essere parte di una strategia più complessiva, perché il “lavoro povero” non è un problema che può essere affrontato solo con sussidi.

Lei conosce molto bene lo Universal Credit, l’equivalente inglese del Reddito di cittadinanza. I due strumenti sono paragonabili?
Lo Universal Credit è stato introdotto nel Regno Unito nel 2012 dal Welfare Reform Act, quando era Primo Ministro il conservatore David Cameron. La nuova misura ha inglobato sei diversi sussidi del vecchio sistema che coprivano ambiti diversi, dal sostegno alle famiglie con figli, agli aiuti per pagare l’affitto per individui e nuclei familiari a basso reddito. Lo Universal Credit copre una platea molto più vasta del nostro Reddito di Cittadinanza: attualmente sono quasi 6 milioni i suoi percettori. E di conseguenza ha costi enormemente maggiori. Quando è stato introdotto, il nostro Reddito di Cittadinanza si è ispirato a quel modello in numerosi aspetti, anche nei particolari più tecnici, come i massimali di reddito e ricchezza del nucleo famigliare che permettono di avere accesso all’assegno. Ma ci sono importanti differenze. Le più rilevanti sono due. Lo Universal Credit è più generoso verso le famiglie con figli minorenni, mentre il Reddito di Cittadinanza lo è verso i singoli individui. Questa differenza è dovuta alle diverse scale di equivalenza utilizzate per calcolare il reddito disponibile dei vari nuclei famigliari. Inoltre, lo Universal Credit contiene maggiori incentivi al lavoro regolare: per ogni sterlina in più guadagnata lavorando, il percettore dello Universal Credit si vede diminuito il suo sussidio di 55 centesimi e sono previsti margini più generosi per il reddito da lavoro che non deve essere conteggiato nel reddito familiare in base al quale è calcolato il sussidio. Con il Reddito di Cittadinanza, invece, un euro guadagnato lavorando ti fa perdere subito 80 centesimi di sussidio e ti fa aumentare di un intero euro il calcolo del reddito nella dichiarazione Isee in base al quale sono calcolate anche diverse altre prestazioni del welfare italiano.

Quindi nel Regno Unito la misura è stata introdotta da un governo conservatore, qui da noi viene fatta passare come una misura quasi di estrema sinistra… C’è anche nel Regno Unito una discussione analoga a quella che c’è in Italia attorno a questo strumento?
Per quanto riguarda il dibattito politico e pubblico intorno a queste misure, le differenze sono molte. Volendo sintetizzare brutalmente, nel Regno Unito lo Universal Credit è stato criticato, soprattutto dall’opposizione laburista, perché troppo poco generoso e perché prevede condizioni di accesso troppo “stringenti”. Da noi avviene l’esatto contrario.
Mi limito qui a riferire un solo fatto: mentre la nostra legge di bilancio prevede un deciso ridimensionamento del Reddito di Cittadinanza in vista della sua abrogazione nel 2024, la legge di bilancio appena approvata dal governo guidato da Rishi Sunak, un altro conservatore, prevede l’aumento di tutti i sussidi del welfare britannico, incluso lo Universal Credit, in linea con l’inflazione. Ciò significa che da aprile 2023 (nel Regno Unito il mese di Aprile segna l’inizio del cosiddetto anno fiscale) il contributo dello Universal Credit aumenterà del 10,1%. Da noi il Reddito di Cittadinanza, a differenza di altre misure di sostegno al reddito, non prevede alcun meccanismo di indicizzazione all’inflazione. Significa che i percettori del Reddito di Cittadinanza – anche quelli che il governo considera “meritevoli” di ricevere un aiuto – subiranno un taglio in termini reali considerevole, visti gli attuali livelli dell’inflazione in Italia. C’è infine una grossa differenza fra i due paesi che potrei spiegare ricorrendo a un cenno, diciamo così, autobiografico. Vivo nel Regno Unito da più di sette anni. Io e la mia compagna lavoriamo qui, paghiamo le tasse qui. Nostra figlia ha fatto tutte le scuole qui. Parla inglese con un accento Geordie (ovvero di Newcastle), tanto che a volte faccio perfino fatica a capirla! Nessuno si sognerebbe di dire che la mia famiglia non dovrebbe avere accesso allo Universal Credit, qualora ne avesse bisogno. In Italia, un immigrato nelle mie stesse condizioni non avrebbe diritto al Reddito di Cittadinanza, dato che servono 10 anni di residenza.

Usciamo dunque dalle sterili polemiche italiane. Anche dal breve confronto con lo Universal Credit che lei ha fatto si può dire che qualche aggiustamento al nostro Reddito di cittadinanza sarebbe necessario. Secondo lei è così? E se sì in cosa va cambiato?
Viviamo – per fortuna – in democrazie dell’alternanza. Le buone riforme sono quelle che sopravvivono ai cambi di maggioranza e di governo: sopravvivono o perché si è costruito un ampio consenso politico attorno ad esse, oppure perché sono divenute abbastanza popolari fra i cittadini da far sì che anche governi con “idee diverse” diventino riluttanti a metterci mano. In questo momento il reddito di cittadinanza è un bersaglio facile. I sondaggi ci dicono che la maggioranza degli italiani non ha un giudizio favorevole del Reddito di Cittadinanza. Potrei aggiungere un “purtroppo” a questa mia frase, dato che personalmente penso che, con tutti i suoi difetti, sia stato uno strumento importante per la lotta alla povertà in Italia. Ma questo non cambierebbe le cose. Per tutti questi motivi credo sia giusto discutere di miglioramenti da apportare al Reddito di cittadinanza. Da questo punto di vista la Legge di Bilancio contiene anche una indicazione molto sensata, ovvero che il reddito proveniente da contratti di lavoro stagionale o intermittente, che sono quelli ad esempio tipici del settore turistico o dell’agricoltura, non concorra a determinare – e quindi a far diminuire – il beneficio economico del sussidio. Almeno fino alla soglia dei 3mila euro. È un elemento di maggiore incentivo al lavoro regolare che va nella direzione giusta. Questa è la stessa filosofia che aveva ispirato alcune delle proposte di riforma avanzate dal Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza, istituito dall’allora ministro del Lavoro Andrea Orlando e presieduto dalla professoressa Chiara Saraceno. Il rapporto di quel comitato affrontava proprio alcune delle criticità che sono emerse anche nella nostra conversazione sul paragone con il modello inglese: ovvero la penalizzazione dei nuclei famigliari numerosi e il disincentivo al lavoro regolare. Il comitato, ad esempio, proponeva di ridurre il sussidio solo di 60 centesimi – e non di 80 – per ogni euro in più di reddito da lavoro. È una percentuale molto vicina al 55% inglese.  È una proposta semplice e pragmatica. Una proposta intelligente. Io dico: ripartiamo da lì.

Fra le critiche principali al Reddito di cittadinanza c’è l’argomento che esso favorirebbe il lavoro nero. È una critica fondata?
Credo che le critiche al Reddito di cittadinanza vadano prese molto sul serio. Non solo quelle che io personalmente considero giuste e ragionevoli, ma anche quelle verso le quali mi sento di dissentire decisamente, come per esempio l’argomento  ricordato nella prima domanda sui percettori del reddito di cittadinanza che non dovrebbero “campare a spese della collettività”. Quando si mette in campo un programma di sostegno alle fasce più povere della popolazione – nel Regno Unito o in Italia, come negli Stati Uniti, in Brasile o in Nigeria – è fondamentale tenere conto del cosiddetto “risentimento dei non poveri”, compresi quei cittadini che lavorano tanto, fanno grandi sacrifici per le loro famiglie, e magari sono appena sopra la soglia che li qualificherebbe per avere accesso a un sostegno pubblico. Sono manifestazioni di disagio “fisiologiche”, che non possono essere liquidate con superficialità. Pensiamo a quei piccoli centri di cui è fatta l’Italia, a quei paesi dove tutti conoscono tutti. Pensiamo a una famiglia dove si lavora tanto, con lavori regolari, e, ciò nonostante, si riesce a fatica ad arrivare alla fine del mese. Magari questa famiglia ha un vicino che lavora in nero, se la passa relativamente meglio, e percepisce anche il Reddito di cittadinanza. È comprensibile che si inneschi una reazione di rigetto, di rancore. Una reazione in ultima analisi motivata dalla percezione di un’ingiustizia subita. In questo caso, però, il problema non è la misura di contrasto alla povertà. Misure simili sono previste nell’ordinamento di tutti i paesi con un welfare degno di questo nome. Miglioramenti come quelli che proponevo prima, o anche quello contenuto nella Legge di Bilancio sui lavori stagionali, contribuirebbero a disincentivare il ricorso al lavoro nero.
Più in generale, il problema dell’Italia è la rilevanza, questa sì senza quasi paragoni in Europa, del lavoro nero e della economia irregolare. Ma allora chi vuole porre fine a queste situazioni di “ingiustizia” dovrebbe mettere nel mirino il lavoro nero e l’economia irregolare. Dovrebbe mostrarsi inflessibile nei confronti di queste piaghe sociali, che sono anche alla base di molti problemi di competitività dell’economia italiana. Il nanismo delle nostre aziende, la scarsa innovazione e la stagnante produttività di tanti settori della nostra economia, non si spiegano se non si tiene conto di questa patologia a monte.
Purtroppo, bisogna dire che diverse misure contenute nella Legge di Bilancio – dall’aumento della soglia per l’uso del contante, al venir meno dell’obbligo del Pos, alla “rottamazione” delle cartelle esattoriali – vanno in direzione completamente contraria: strizzano l’occhio all’evasione per consolidare un facile consenso.

Sorgente: Reddito di cittadinanza e Universal Credit inglese a confronto

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