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Ali: «Ci hanno privato della dignità». Sara: «Ci spingevano a pensare al suicidio». Le testimonianze dei manifestanti appena usciti dalle carceri iraniane

Il vocale arriva in persiano. Sono quattro minuti di voce metallica, monotona. Parole-fiume alternate a lunghi silenzi e sospiri. Lo facciamo tradurre. «Buongiorno, sono Ali (nome di fantasia, ndr), ho 42 anni e faccio il tassista». È una settimana che cerchiamo di parlare con lui. Sappiamo che è appena uscito dal carcere e sappiamo che è uno dei pochi disposti a raccontare quello che ha subito, visto e sentito. «Sono stato arrestato di fronte all’università di Isfahan (nell’Iran centrale, ndr), a fine ottobre. Sostenevo gli studenti nelle proteste contro il dittatore Khamenei». Le guardie lo hanno caricato su una macchina e l’hanno portato in un centro di detenzione segreto. Oltre alle carceri – secondo un report di World Prison Brief, nel 2014 si contavano 253 carceri – il regime ha decine di strutture il cui indirizzo non è noto al pubblico, dove interroga, tortura e trattiene i dissidenti.
«Si comportano meglio con gli animali che con noi», dice Ali. «C’era un uomo molto alto, con un passamontagna. Non faceva che insultarci e picchiarci». Poi parte con il racconto dell’impensabile. «Ci portavano in una stanza e ci riempivano di botte, ci minacciavano e ci ordinavano di violentarci a vicenda. Sul soffitto, una telecamera che riprendeva tutto». Riprendono per avere del materiale con cui poi ricattare i manifestanti e costringerli a dichiarare il falso.

L’Iran Human Rights Monitor, una ong con sede a Londra, ci conferma le atrocità di cui parla Ali: «L’uso sistematico degli stupri nelle carceri non è una novità. Avvengono sia sulle donne che sugli uomini, senza differenza». Succedeva negli anni ‘80, durante la Rivoluzione Verde, nelle proteste del 2019 e anche oggi. I numeri non si conoscono per due ragioni: la paura delle vittime ricattate dal regime e lo stigma sociale. Anche un rapporto di Amnesty International del 2020 conferma che lo stupro è un metodo di tortura e di repressione molto utilizzato, oltre ai pestaggi, l’isolamento, il waterboarding, l’elettroshock. «Fonti primarie hanno raccontato che inquirenti e guardie perpetravano violenze sessuali sui detenuti. Li denudavano, facevano perquisizioni invasive per umiliarli, usavano spray al peperoncino sui genitali ed elettroshock ai testicoli. I prigionieri uomini venivano violentati attraverso la penetrazione con vari strumenti, tra cui bottiglie», si legge sul rapporto.

Ali e i suoi compagni provavano a fermare la disumanità dei poliziotti, ma più si opponevano e più venivano picchiati. «Ci torturavano, sentivamo urlare gli altri dalle celle vicine. Li stupravano». Poi, La voce traballa: «Ci hanno privato della dignità».
Tramite la ong di Londra, riusciamo a metterci in contatto anche con Sara (nome di fantasia, ndr), 23 anni. Come Ali, è finita dentro dopo una manifestazione. Anche lei ha subito violenza sessuale. A violentarla ripetutamente sono state le guardie. Se di stupri sugli uomini si è scritto poco, la Cnn ha raccontato le violenze sessuali sulle manifestanti iraniane e sui social sono tante le storie che girano. Tra tutte, quella di Armita Abbasi, 20 anni, finita in ospedale.

 

Sara non vuole parlare degli abusi sessuali subiti perché «non riesco ancora a tornare con la mente a quei momenti», dice, ma ci tiene a raccontare un altro aspetto delle torture: le violenze psicologiche. «In prigione, i medici cercano di farti il lavaggio del cervello. Mi ripetevano: “Hai rovinato la tua vita, perché manifesti?”. Lo psicologo mi diceva che i giovani come me poi si suicidano: “Che senso ha una vita vissuta così?”». Sara racconta che la istigavano al pensiero di togliersi la vita, ma lei rispondeva che no, voleva vivere per vedere il suo Iran libero. «Gli aguzzini convincevano i detenuti ordinari a maltrattarci. Mi imbottivano di pillole. Ero obbligata a ingoiarle, loro aspettavano che deglutissi. Se mi rifiutavo, la destinazione era la cella d’isolamento».

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Un’illustrazione del report di Amnesty International

Oggi, Sara e Ali sono fuori in libertà condizionata. Ad Ali hanno revocato la licenza da tassista. In carcere, non aveva con sé né documenti né cellulare. Partecipare alle manifestazioni senza niente che ti renda troppo riconoscibile è il consiglio che danno a tutti i dissidenti. Ali non è un politico, ma fa parte di uno dei nuclei di resistenza che si muovono sotto la guida del Consiglio nazionale della resistenza iraniana, e in modo particolare dei Mojahedin del Popolo, i nemici numero uno del regime, dal 2009 fuori dalla lista dei terroristi dell’Unione europea. «Se avessero saputo la mia visione politica mi avrebbero ucciso».
Ali racconta che i prigionieri sono tantissimi. Le ong parlano di 15 mila manifestanti arrestati dall’inizio delle proteste, i numeri che arrivano da dentro il Paese parlano del doppio. Ieri, la storia di Hamed Salahshoor, un giovane morto in custodia della polizia, con segni scioccanti delle torture subite. «Ci sono così tante Mahsa Amini», continua Ali.
Gli abbiamo chiesto di Alessia Piperno, la ragazza di Roma rinchiusa nel carcere di Evin. Lui non conosce la sua storia. «È stata sfortunata a finire qui. Il regime non rispetta nessuno». Il vocale si conclude con questa frase: «Scusate, basta così, non mi sento bene».

di Greta Privitera

Sorgente: Iran, parlano i dissidenti torturati: «Costretti a violentarci tra di noi mentre le guardie ci filmavano»

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