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Una sensazione di compromessi al ribasso e patti inconfessabili avvolge ancora la Coppa del mondo quattro anni dopo la Russia

Se c’è stato un momento preciso in cui il palco allestito da Fifa e Qatar è definitivamente caduto, è stato quando Khalid Salman – ambasciatore del Mondiale ed ex giocatore della nazionale qatariota – in un’intervista alla tv tedesca Zdf ha definito l’omosessualità un “danno mentale”. È successo due settimane fa, praticamente in contemporanea con l’infelice lettera del presidente Fifa, Gianni Infantino, nella quale si chiariva che il calcio non può accollarsi tutti i problemi del mondo, e dunque – in buona sostanza – pensate a godervi il Mondiale e non rompete più le scatole con ‘ste storie di diritti e di doveri.

 

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Le parole di Salman, la medioevale naturalezza con la quale sono state pronunciate, hanno tolto l’ultima foglia di fico all’illusione, un po’ ipocrita ma non insincera, che anche da un’assegnazione mondiale sbagliata potesse nascere qualcosa di positivo. La speranza in una sorta di baratto: calcio (e i conseguenti affari, tanti ricchissimi affari) in cambio di diritti, non soltanto quello commerciale di bere alcolici, peraltro tollerato a stento, ma anche di amare chi ti pare. Perché se il calcio è il linguaggio più diffuso sul pianeta, e lo è, avrebbe sicuramente la forza di imporre alcune regole comuni di civiltà: non un’omologazione culturale – le diversità sono sempre ricchezza – ma una piattaforma universale di pochi e inderogabili principi. Se però non li rispetti, sei fuori. Inderogabile vuol dire questo.

 

 

Lo stesso Infantino ne aveva parlato, citando addirittura Nelson Mandela, all’inizio del 2022 a Davos: nel discorso più bello e ambizioso del suo mandato, aveva evocato il potere del calcio di cambiare il mondo. Peccato che quanto non è successo in Qatar dal 2010 a oggi, dall’assegnazione del Mondiale al suo svolgimento, riveli l’inconsistenza di un’architettura soltanto sognata: il Qatar ha cambiato il calcio – basti pensare alla rivoluzione dei calendari – molto più di quanto il calcio abbia cambiato il Qatar. E se il provvedimento di spostare il Mondiale in una stagione meno torrida asseconda le esigenze di chi gioca e di chi assiste, non altrettanta cura è stata prestata alla salute di chi ha materialmente costruito gli stadi e le altre infrastrutture necessarie al torneo, e non ha potuto farlo evitando i mesi più caldi. È difficile fissare il numero preciso dei morti sul lavoro, ma non sono certo i tre riconosciuti dalle autorità qatariote; la stima di migliaia fatta da Human Rights Watch è più realistica perché comprende i cosiddetti “decessi senza spiegazione”, quando invece i turni di lavoro massacranti a quelle temperature estive spiegano tutto. Una quantità di vittime fra i migranti accorsi in Qatar in cerca di un salario, dal Nepal e dall’India soprattutto, e per questo trattati come servi della gleba: si ritorna ai diritti, in questo caso dei lavoratori, e a una vigilanza sulla loro corretta applicazione che la Fifa avrebbe dovuto pretendere. Aveva in mano l’arma per farlo, il Mondiale, e se l’è lasciata sfilare. Quando il torneo dista anni, teme di perderlo chi lo organizza; quando dista mesi, è la Fifa – con i suoi sponsor e i suoi diritti tv – a pregare che tutto proceda per il meglio. Quando dista giorni, per favore concentratevi sul pallone.

 

 

Lo faremo, com’è giusto che sia in un mondo che ha appena superato due anni di pandemia assassina – non tutti l’hanno dimenticata, anche se a volte così sembra – e da febbraio si confronta con una guerra in Europa che costringe ad analizzare le schegge dei missili per capire se il conflitto atomico sia ormai alle porte. È la situazione in cui uno dice “okay, ogni giorno ha la sua pena, ma almeno adesso mi prendo una pausa per guardarmi una bella partita”. Sarebbe giusto poterlo fare senza sensi di colpa, almeno questo, e invece una sensazione di compromessi al ribasso e patti inconfessabili continua ad avvolgere il Mondiale quattro anni dopo un’altra assegnazione che non ha insegnato nulla, quella alla Russia, giustamente esclusa visto che la guerra in Europa l’ha scatenata lei.

 

 

I limiti dello sportswashing risultano evidenti perché la strada non è mai a doppio senso: i grandi eventi aprono il mondo alle dittature, più o meno soft, ma non riescono a condizionarle. Succede semmai l’inverso, magistralmente descritto da Houellebecq in Sottomissione: i piccoli vantaggi materiali – la poligamia nel caso del professore protagonista del romanzo – prevalgono sulle grandi questioni di principio. Non c’è tifoso che in questi anni non abbia desiderato l’acquisto del proprio club da parte di un fondo sovrano arabo o di un oligarca russo, perché dal Psg al Chelsea, dal Manchester City al più recente Newcastle, la quantità di denaro pompato sul mercato ha cambiato il destino di queste squadre. E quando è successo che qualche ente regolatore – per esempio la Premier League – volesse vederci più chiaro su determinate acquisizioni, la gente ha sfilato rabbiosamente per le strade: a ciascuno il suo campione, non voglio sapere come lo pagate. Nel Paris giocano i leader di Brasile (Neymar), Argentina (Messi) e Francia (Mbappé), in ordine di citazione le tre principali favorite del Mondiale: un trust impensabile nello sport professionistico, ma quando Mbappé stava per trasferirsi al Real Madrid per fermarlo è intervenuto Macron. Per certi versi, un’ingerenza simile a quella imputata a Sarkozy per orientare all’epoca il Mondiale verso il Qatar. Povero calcio, così forte da poter dettar legge eppure usato da tutti per i loro interessi.

 

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Sorgente: Qatar 2022, il Mondiale dei diritti negati – la Repubblica

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