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Facciamo tacere le armi e partire il negoziato sull’Ucraina
16.11.2022

Si comincia a parlare di trattative per il cessate il fuoco. L’occasione, che provoca interviste come quelle del generale Milley, è data dallo stallo militare dopo la riconquista ukraina di Kherson, anche una ritirata strategica russa. Il Generale Inverno, parente stretto del terribile Generale Permafrost che aspetta di scendere in campo, apre una tregua di fatto fino alla prossima primavera. Una occasione da non perdere se abbiamo a cuore la fine delle sofferenze belliche. Ma cosa concedere a Putin perché possa “salvare la faccia”? Ricordarsi sempre che in cima c’è il bisogno di riconoscimento. La Russia vuole essere riconosciuta dagli USA come “grande potenza globale”, questa è la sua esigenza più forte (si veda l’ultimo numero di Limes in edicola sul MONDO CHE CAMBIA). Riteniamo che questa istanza possa essere accolta se si parla di un “soggetto costituente di un nuovo ordinamento e ordine globale per i diritti dell’Umanità e della Natura”. E’ analoga all’ispirazione della proposta della “Costituente della Terra”, ma più realistica – crediamo – nel percorso che deve concretizzarla…

Le armi per tacere è meglio che non siano apparecchiate

Questa è anche l’opinione del coordinatore di ARTICIOLO 1, Arturo Scotto, intervistato da Il Manifesto (Andrea Carugati) il 16 novembre 2022.

Per Scotto “Ora l’Italia e l’Europa devono lavorare davvero per chiudere questo conflitto (la guerra in Ucraina – ndr). E questo non si ottiene spingendo l’Ucraina verso una vittoria militare sul campo aprendo la strada a una escalation nucleare: le armi ora devono tacere.

Carugati subito prima gli aveva domandato: “La guerra è uno dei temi chiave del percorso che si apre (la partecipazione di ARTICOLO 1 alla fase costituente del nuovo PD – ndr)? La linea del PD pare immutabile.

Risponde Scotto: “Il messaggio di piazza San Giovanni è molto chiaro: occorre correggere la linea di politica estera degli ultimi mesi e impegnarsi per un ruolo più asserivo della diplomazia. La cultura della pace deve essere un pezzo fondamentale della nuova identità”.

Temiamo che questo desiderio di Scotto si basi sul nulla e una prova della natura più atlantista degli USA del PD organicamente blairiano la troviamo nella reazione del suo segretario Enrico Letta alla notizia sui presunti missili russi caduti in Polonia. Ecco il suo tweet a caldo che lasciava subito presagire una chiamata alle armi contro la Russia in base all’art. 5 della NATO:

A fianco dei nostri amici polacchi… Quel che succede alla Polonia succede a noi”.

L’ineffabile Calenda di Azione ha immediatamente rilanciato:

Siamo con la Polonia, con l’Ucraina e con la NATO. La Russia deve trovare davanti a se un fronte compatto. I dittatori non si fermano con le carezze e gli appelli alla pace“.

Insomma prima di capire ed invitare a capire quel che è successo (un errore? un pezzo di missile russo colpito in volo? un frammento di contraerea?), subito Letta ha puntato il dito contro Putin condannandolo in anticipo e a prescindere da qualsiasi accertamento dei fatti. Di fronte a un possibile casus belli della Terza guerra mondiale ci si sarebbe aspettati un minimo di circospezione invece di dare per scontate circostanza tutte da acclarare. Putin è l’aggressore, ma non per questo gli può essere addebitato senza una verifica tutto e il contrario di tutto; ed in ogni caso ci sono responsabilità anche di chi ha preparato le condizioni di questa Guerra Grande e non ha fatto abbastanza per fermarla.

Questa vergognosa esternazione di Letta succedeva mentre, al contrario, la NATO si muoveva con cautela e prudenza, faceva le sue indagini ed ha finalmente deciso – abbiamo appena ascoltato su questo punto, a Radio 24, l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, già vicesegretario generale della Nato- di non attivare formalmente l’articolo 4 (il vertice  straordinario) propedeutico all’articolo 5. Il fatto è che, con ogni probabilità, a Bruxelles si è capito (si è voluto capire) che quello che ha colpito in Polonia, al confine con l’Ucraina, sia una fattoria che un deposito di cereali, provocando due morti, sono frammenti di un missile abbattuto dalla contraerea ucraina, forse addirittura i resti di un missile di intercettazione ucraino.

La NATO con l’articolo 5 è obbligata a rispondere solo di fronte ad un attacco deliberato russo ma, a differenza di Letta, ha sostanzialmente e subito escluso che questo attacco sia avvenuto.

Ecco sul sito del Fatto Quotidiano le ultime dichiarazioni di Stoltenberg che parla di indagini in corso ma esclude, appunto, l’attacco deliberato da parte russa, per il quale non ci sarebbero prove. Poi rimarca con forza:

Non abbiamo indicazioni che la Russia stia preparando un attacco alla Nato“.

Segue la tiritera che conosciamo: “La Nato non è parte del conflitto in Ucraina, provvede al sostegno dell’Ucraina per la sua difesa e forniremo più aiuti per la difesa aerea. L’Ucraina ha il diritto di difendersi contro la guerra illegale della Russia”.

(Si vada su: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/11/16/missili-in-polonia-stoltenberg-nato-nessuna-prova-di-un-attacco-deliberato-no-fly-zone-non-siamo-parte-del-conflitto/6875540/)

Torniamo quindi al clima che sta mutando intorno al conflitto ucraino, all’idea che si fa strada anche nell’amministrazione USA che sia arrivato il momento di una soluzione politica per le quali non serve innalzare la tensione.

Questo è emerso anche al vertice G20 di Bali, dove il presidente USA Biden si è incontrato con il presidente cinese Xi Jinping a ribadire che i due Paesi sono sì in aspra competizione, ma nessuno dei due ha voglia di lasciarsi trascinare in una guerra aperta.

Su questo aspetto rimandiamo all’intervista di oggi (16 novembre 2022) a Lucio Caracciolo, il direttore di LIMES, apparsa su IL FATTO QUOTIDIANO.

(Salvatore Cannavò è l’intervistatore e il titolo è “XI E BIDEN HANNO DATO SEGNALI DI PACE”. si vada su: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/11/16/caracciolo-un-fatto-da-chiarire-ma-xi-e-biden-hanno-dato-segnali-di-pace/6874649/)

Il vertice dei capi dell’intelligence russa e americana ufficialmente è stato rappresentato come un vertice sulle armi nucleari, ma è chiaro che serve anche ad arrivare a un cessate il fuoco. Sia il vertice di Bali sia quello di Ankara, del resto, sono stati preceduti da mesi di messaggi degli Stati Uniti all’Ucraina, cui è stata spiegata una linea molto più decisa: ‘Noi non vi finanziamo gratis’, facendo intendere che a un certo punto serve una soluzione politica. Zelensky sembra aver colto il messaggio. (…) (XI e Biden ) hanno dato un chiaro messaggio a Putin: non deve minacciare l’uso dell’arma atomica. Certo, la pace si fa con Putin finché lui resta il capo della Russia, ma comunque assistiamo a un ritorno alla realtà. (…) La Russia non può che essere sulla difensiva. L’uscita da Kherson va senz’altro in questa direzione e sembra che anche a Melitopol sia stata tolta la bandiera russa dal municipio. Di fatto, si sta seguendo un piano di de-escalation in cui gli americani hanno avuto un ruolo decisivo, spiegando agli ucraini che occorre trattare. Per Mosca c’è la madre delle linee rosse da cui non si può arretrare, la Crimea. Ma il punto non è trattare sul territorio quanto creare una linea sul terreno oltre la quale non si va.”

In questo quadro in movimento e che sembra diradare le nubi più cupe, ma in un contesto sempre a rischio con le escalation dietro l’angolo e con la possibilità di incidenti che possono innescarle, come fare a spingere per un ruolo assertivo della diplomazia italiana ed europea?

Occorre un ecopacifismo più coraggioso ed autonomo, che quando si mobilita in massa – a differenza, per intenderci  del 5 novembre – si rivolga al governo come interlocutore esplicito da chiamare in casa perché si sfili dallo scontro tra imperi in declino e imperi sognati. Un movimento che si sforzi non di rappresentare sé stesso, il cosiddetto “popolo della pace”, bensì il popolo italiano in quanto tale inascoltato nelle sue istanze di fondo. Le conosciamo: no al coinvolgimento bellico italiano (ed europeo) anche dietro le quinte, no al riarmo anche nucleare, no alla guerra economica tra sanzioni e controsanzioni, spazio alle trattative diplomatiche con l’intervento dell’ONU.

La denuclearizzazione è un obiettivo centrale condiviso dall’intera popolazione (quando minimamente informata) e deve significare, in primo luogo, firma e ratifica del Trattato di proibizione di armi nucleari ma anche, sul lato civile, attuazione dei referendum del 1987 e del 2011 di fronte ai tentativi di far rientrare dalla finestra europea le centrali nucleari che sono state cacciate dalla porta nazionale.

Per l’intanto, quelli che saremo, gli interessati non al “tema pacifista” ma al “problema della pace” da risolvere, diamoci appuntamento a quando il Parlamento italiano sarà chiamato a votare sul nuovo invio di armi a Kiev: un centesimo di quanti si sono mobilitati il 5 novembre, capaci di rappresentare un messaggio chiaro in nome e per conto della maggioranza del popolo, faranno la differenza sul terreno non del fumo mediatico ma di un reale percorso risolutivo della crisi che stiamo attraversando.

 

Maurizio Acerbo, segretario nazionale e Gregorio Piccin, responsabile pace del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea (16 novembre 2022)

Due persone innocenti sono morte per l’ennesimo “effetto collaterale” di una guerra che deve finire subito. La gravità di quanto accaduto dimostra quanto sia folle continuare a sostenerla. Evidente l’irresponsabile tentativo del governo ucraino di coinvolgere direttamente la Nato nel conflitto. Il nazionalismo ucraino rischia di sfuggire di mano agli apprendisti stregoni che lo hanno armato e sobillato invece di lavorare dal 2015 per l’attuazione degli accordi di Minsk.
Stati Uniti e Regno Unito, i Paesi che comandano la NATO, usano prudenza per capire cosa sia successo a Przewodov in Polonia e sembra infatti che il missile fosse un s300 della contraerea ucraina. Letta e Calenda invece, in sintonia telepatica con Zelenskij, avrebbero già attivato l’articolo 5 del Patto Atlantico per scatenare una guerra totale contro la Russia. I servi sciocchi si sono dimostrati meno prudenti di Biden.
Il governo Meloni ha recentemente annunciato un ulteriore invio di armi con le quali, lo ricordiamo, vengono uccisi anche civili, mentre continua a mantenere importanti contingenti militari – tra cui cacciabombardieri – ai confini con la Russia. Lo scorso 20 ottobre due caccia Eurofigher italiani di stanza in Polonia si sono alzati in volo per uno scramble rivolto a velivoli russi che sorvolavano l’Ucraina.
Il rischio di “incidenti” ben peggiori di quello di ieri si moltiplica di giorno in giorno considerato anche l’uso che le forze armate statunitensi fanno delle basi sul nostro territorio da cui partono regolarmente missioni di supporto ed intelligence alle forze armate ucraine. Ad aggravare la nostra cobelligeranza vi è inoltre l’arrivo delle nuove bombe atomiche ad Aviano e Ghedi previsto per dicembre e il perdurante addestramento dei piloti italiani al bombardamento nucleare.
L’Italia si deve sfilare immediatamente da questa guerra tra superpotenze ritirando i propri contingenti dai Paesi confinanti con la Russia, fermando l’invio di armi, non concedendo ulteriormente l’uso delle basi sul proprio territorio per operazioni militari unilaterali da parte degli Stati Uniti e firmando il trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.
La guerra in Ucraina si ferma con un cessate il fuoco senza condizioni che possa aprire una fase negoziale seria. L’Italia si renda protagonista di questo processo intraprendendo misure concrete di distensione.

“Oggi non esistono guerre giuste” (Papa Francesco)

Il volantino con il quale i Disarmisti esigenti hanno partecipato, il 5 novembre, alla manifestazione indetta a Roma dalla coalizione EUROPE FOR PEACE

DIAMOCI APPUNTAMENTO, NOI DEL 5 NOVEMBRE, PER CONTESTARE IL VOTO SULL’INVIO DELLE ARMI A KIEV!

Stiamo, oggi 5 novembre, manifestando perché tacciano le armi e l’ONU intervenga per arrivare a una tregua tra i combattenti, propedeutica a negoziati di pace.

Molto bene. È positivo il tentativo di riportare il tema della pace al centro del dibattito pubblico. Non può, infatti, essere ignorato il contesto politico-culturale per il quale, in Italia (ma anche per lo più nel resto d’Europa) il solo parlare di pace è tacciato di filoputinismo!

Per essere coerenti e conseguenti adesso è giusto che ci riconvochiamo, con la stessa logica e la stessa forza, per evitare che, dall’Italia, si getti benzina sul fuoco della guerra. Se ci battiamo perché le armi non sparino è doveroso battersi perché non siano passate a chi le usa per sparare. Siamo contro la guerra e quindi siamo contro a che degli esseri umani si sparino l’uno contro l’altro, a prescindere dalle ragioni e dai torti reciproci. Anche se le ragioni fossero tutte da una parte e i torti tutti dall’altra. Oggi non ci sono più guerre giuste, ci ricorda lo stesso Papa Francesco. Per due motivi: 1) perché qualsiasi impiego di armi oggi danneggia più gli innocenti estranei che gli implicati direttamente nel conflitto e danneggia la Terra, cioè il corpo vivente di tutti; 2) perché esiste l’alternativa efficace dei metodi di resistenza nonviolenta.

Quindi è la guerra in sé l’aggressore che ci aggredisce tutti. E dobbiamo boicottarla in tutti i modi (nonviolenti) possibili. Per altruismo ed anche per egoismo: abbiamo capito che è in gioco la nostra stessa pelle se scattano escalation mal guidate…

Le armi tacciano, perciò non siano apparecchiate per chi dà loro la parola. Non le si fornisca ai russi e nemmeno le si fornisca all’esercito ucraino, che non siamo affatto obbligati a sostenere se vogliamo sostenere il popolo ucraino. La differenza, ci segnalano i sondaggi, il popolo italiano l’ha colta, quando per il 75% manifesta contrarietà al coinvolgimento armato anche indiretto dell’Italia nella guerra in corso.

Quando allora dovremmo rivederci in piazza per contestare un voto parlamentare per nuovi aiuti militari all’Ucraina? È possibile più presto di quanto non ci immaginiamo. Forse prima del 1° gennaio 2023, data in cui dovrebbe scadere la prassi instaurata dal governo Draghi: provvedimenti segretati a conoscenza solo del COPASIR. Stando alle parole del nuovo ministro della difesa Crosetto i nuovi eletti potrebbero essere presto chiamati a dimostrare con un voto l'”unità nazionale” sulle armi a Kiev.

All'”unità nazionale” dei partiti noi possiamo rispondere con l'”unità popolare” che va a fare sentire la sua voce sotto Montecitorio e Palazzo Madama. La ragione ci sembra chiara. Non vogliamo alimentare il mostro orrendo della guerra! Non un cannone, non un soldo, non un soldato per essa! L’umanità deve porre fine alle guerre o saranno le guerre, sarà questa guerra, a porre fine all’umanità!

Dobbiamo essere pronti per questa mobilitazione, che attiveremo quando l’agenda del nuovo governo Meloni sarà esplicitata. Ogni soggetto, individuale e collettivo, ci arrivi con le proprie posizioni nonviolente. Convergiamo rispettando le nostre differenze!

Per quanto ci riguarda, Disarmisti esigenti & partners, andremo in quell’occasione in piazza con la stessa piattaforma riconoscibile con la quale partecipiamo a questo 5 novembre: stop, appunto, all’invio di armi, fine delle sanzioni, disarmo atomico a partire dalla ratifica del Trattato di proibizione delle armi nucleari con il conseguente ritiro dalla condivisione nucleare NATO, apertura di spazi percorribili per la soluzione politica, lotta per lo scioglimento dei blocchi militari, e immediata connessione tra “fine del mese” e “fine del mondo”. La lotta alla guerra, in parole povere, va agganciata alle conseguenze in termini di crisi economica e deterioramento delle condizioni di esistenza, carovita e carobollette, crisi energetica e crisi alimentare.

Ma, ripetiamo, ognuno si faccia vivo e presente con le sue parole d’ordine, sotto i Palazzi del Potere! Quanti saremo? Basterebbe un decimo di questa manifestazione del 5 novembre per cominciare a costruire una storia diversa (dalle solite manipolazioni politiche di cui il movimento spesso finisce vittima)!

Se siete d’accordo potete subito scrivere a: [email protected] – cell. 340-0736871

Articoli di supporto e documentazione

Ucraina, il generale Milley avverte: “Ora bisogna trattare”

di Gianni Riotta – su La Repubblica 11 novembre 2022

 

Il Capo di Stato Maggiore lancia l’amo: “L’alternativa somiglia pericolosamente al 1915”. Immediata la replica: “Nessuna pressione su Zelensky”

NEW YORK – “Per completare la ritirata da Kherson, in Ucraina, lasciando la sponda destra del Dnipro, alle truppe del presidente Vladimir Putin serviranno non giorni, ma settimane: è un’operazione dura. I russi hanno già sofferto centomila perdite fra caduti e feriti nell’invasione, gli ucraini lamentano cifre simili, oltre a quarantamila vittime civili. Speriamo che, liberata Kherson e alle porte dell’inverno, si raggiunga almeno un cessate il fuoco, per poi schiudere una trattativa, e che il presidente Zelensky colga l’occasione! Dalle nostre foto di intelligence risulta che i russi si trincereranno sulla riva sinistra del Dnipro, snidarli non sarà impresa facile”. Parla così il generale Mark Milley, Capo di Stato Maggiore delle forze armate americane, il solo ufficiale che abbia sopra di sé solo il presidente stesso, il Commander in Chief.

In missione a New York, tra discorsi pubblici all’Economic Club, e riservati al Council on Foreign Relations davanti a un tavolo di diplomatici, uomini d’affari e militari, in un’intervista alla CNBC il generale Milley auspica che, ultimata l’evacuazione da Kherson, con le strade rurali rese ingibili dalla rasputiza, fango e nevischio, prevalga “l’avvio del negoziato, altrimenti rischiamo una situazione tipo 1915, quando l’Europa si divise dietro le trincee, prolungando la Prima guerra mondiale per tre anni. Non ho molte speranze, parlo con i miei colleghi di Mosca, avvisandoli che si son messi in trappola, non mi ascoltano. Vedremo, io tocco ferro!”.

Le parole del generale Milley non fanno in tempo a raggiungere Washington che il malumore serpeggia, dal Pentagono alla Casa Bianca, “Il presidente Biden è stato chiaro, tocca agli ucraini decidere del loro destino – spiega a Repubblica una importante fonte diplomatica – e il Consigliere per la Sicurezza Sullivan è d’accordo. Può darsi che l’inverno rallenti i combattimenti, ma noi non facciamo pressioni in alcun modo su Zelensky. È Putin, finora, ad aver negato lo spazio a dialogo e intese, non parteciperà neppure al G20 di Bali, dove Biden parlerà con il leader cinese Xi Jinping. Le parole del generale Milley non vanno dunque fraintese”. E subito, il sito del New York Times ospita una lunga analisi di Peter Baker, firma veterana, con fonti anonime che, dall’amministrazione Biden, contraddicono a loro volta Milley per smorzarne gli interventi nel difficile momento internazionale.

Che il generale Mark Milley fosse membro del “Partito della trattativa” era noto a Washington; che si esponesse in pubblico, dopo le elezioni di Midterm con il Congresso ancora in bilico e Biden soddisfatto per aver evitato la carica repubblicana, ha sorpreso. A margine di un webinar del Council Italy-USA, Charles Kupchan, ex consigliere di Obama, prova a spiegare che “Milley vuol testare le acque, introdurre l’elemento della diplomazia, senza forzare la mano agli ucraini, per capire che effetto potrebbe fare”.

L’esito non è positivo: “Alla vigilia dell’importante missione a Bali – commenta con noi un ambasciatore Usa – il rischio è deviare la conversazione e dar alimento alle voci filorusse, dall’Europa al nostro nuovo Congresso, dove qualche parlamentare, populista repubblicano o di sinistra democratico, pensa di ridurre l’invio di aiuti a Kiev”.

Milley aveva cercato di evitare i malintesi, dicendo che “comunque vada, i russi non vinceranno questa guerra, non penso affatto a una capitolazione”. Ma gli è bastato aggiungere “però è difficile che gli ucraini riescano a liberare tutti i territori occupati” per scatenare la bagarre. Il generale mette le mani avanti: “Questa è la situazione in campo, la parola potrebbe passare a politica e diplomazia, serve convincere Putin che la sua strategia è fallita, che ostinarsi porterà solo sofferenze. Nessuno propone la resa a Kiev, ma occorre evitare dolori inutili”. Non basta, l’America è divisa, non ha pazienza per le sfumature geopolitiche.

Il capo di stato maggiore, che si scontrò con l’ex presidente Trump sull’uso della forza contro i manifestanti per i diritti civili a Washington, ma sollevò critiche per non aver fermato l’assalto trumpiano al Campidoglio, ammira la resistenza ucraina “sopravvissuta a una sfida esistenziale, grazie a virtù dimenticate, spirito di sacrificio, coraggio di battersi per ideali e democrazia. Per noi soldati, da sempre, calcolare la volontà di combattere di un popolo prima che si sentano i cannoni è impossibile. Putin ha sopravvalutato la sua capacità militare, sottovalutato quella ucraina e si è trovato a parlare di armi atomiche tattiche, che sfuggono a ogni controllo di intelligence. Quando un leader del suo rango evoca armi nucleari, la retorica pesa”.

Se doveva servire ad anticipare il clima per una trattativa, però, la sortita di Milley ha fallito. Biden, che pure vorrebbe la fine delle ostilità, avrebbe preferito la completa liberazione di Kherson e le conferme sulla maggioranza al Senato prima di ogni apertura, agendo in sintonia con Kiev.

Comunque vada, la nuova fase della guerra in Ucraina comincia da Kherson, con Putin e Zelensky a rivalutare obiettivi e strategie, e Biden, Xi e gli europei a ragionare sul da farsi: “La natura della guerra non cambia mai – aveva concluso amaro Milley -: i suoi metodi, dottrine e mezzi cambiano senza sosta”. E infatti, la guerriglia della comunicazione digitale è insidiosa per tutti. Incluso il Capo di Stato Maggiore.

Instagram @gianniriotta

 

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La ritirata russa da Kherson non prelude la pace | La Fionda

di Maurizio Vezzosi – 14 novembre 2022

A monte della ritirata russa da Kherson c’è una decisione di peso, sotto il profilo militare e politico. Abbandonare il capoluogo di una regione poche settimane dopo averne ratificato l’ingresso nella Federazione Russa non è certo il massimo, nonostante le rassicurazioni del Cremlino che hanno rimarcato di considerare Kherson territorio russo. La ritirata rischia di fomentare le posizioni ucraine più oltranziste, anziché le posizioni più propense al dialogo, già fortemente marginalizzate e represse. Da un punto di vista simbolico e comunicativo, la ritirata russa da Kherson si presta inoltre al tentativo di dare contezza della presunta debolezza militare di Mosca.

Non va dimenticato che le ritirate ed i riposizionamenti fanno parte delle guerre di lunga durata, come quella che si sta combattendo in Ucraina. Vengono in mente la ritirata di Slavijansk e quella di Mariupol del 2014, nei primi mesi della guerra d’Ucraina, quando le forze di Donetsk abbandonarono le due città senza combattere. Senza l’accordo che nel 2014 riconsegnò Mariupol all’esercito ucraino Mosca ne avrebbe avuto il controllo – indiretto o diretto – senza dover cominciare, otto anni dopo, una battaglia di due mesi costata migliaia di vittime.

Paradossi della politica, e della guerra.

Sul piano militare, la ritirata di Kherson ha probabilmente evitato un massacro che forse non avrebbe cambiato il risultato nel breve periodo: vista la sua peculiare collocazione, la città sarebbe stata infatti molto difficilmente difendibile dalle forze russe di fronte ad un’offensiva ucraina su larga scala come quella che sembrava pronta a cominciare.

Da rilevare è anche l’appoggio alla decisione di Mosca esplicitato in questo caso anche da figure solitamente poco inclini al dialogo politico, come Evgenij Prigozhin e Ramzan Kadyrov: entrambi avevano portato critiche durissime verso i vertici militari russi dopo la ritirata da Izyum,

Da parte russa risulta evidente la volontà di evitare una nuova Mariupol – guerra urbana – e di scongiurare perdite ingenti sia tra i civili che tra i propri militari. Considerando le informazioni diffuse dalle fonti ucraine, a Kherson le operazioni di rastrellamento e di repressione non hanno tardato a cominciare nei confronti di chiunque, a torto o ragione, venga tacciato di aver collaborato con le forze russe, o anche solo di aver espresso una qualche simpatia nei confronti di queste. A velocizzare queste operazioni ci sono liste pubbliche corredate di fotografie e dati personali delle persone accusate di essere nemiche della compagine politica ucraina.

Poche ore prima che la ritirata venisse ufficializzata dal Ministero della Difesa russo, Kirill Stremousov, sanguigno vicecapo dell’amministrazione regionale – russa – di Kherson, è morto in un incidente d’auto. Questa almeno la versione ufficiale dell’accaduto. Negli ultimi giorni Kirill Stremousov aveva annunciato che da Kherson sarebbero partite a breve le operazioni per la conquista di Nikolaev e di Odessa, mentre in occasione della ritirata di Izyum dello scorso settembre aveva suggerito alle alte sfere della difesa russa di “spararsi in testa”.

Il controllo ucraino su Kherson rende per il momento impossibili alle forze russe manovre terrestri da oriente verso Nikolaev e Odessa. Non preclude, però, la prosecuzione dell’utilizzo dell’artiglieria a lungo raggio, della flotta e dell’aviazione, o una combinazione di queste. Il controllo ucraino su Kherson aumenta in modo rilevante l’esposizione al tiro della fascia meridionale sotto controllo russo – Melitopol, Berdiansk, ecc – e della Crimea: restano sconosciute, al momento, le contromisure che Mosca intenderà assumere.

Il fatto che la scelta del ritiro da Kherson sia stata mossa anche da motivazioni politiche sembra evidente: l’obiettivo quello di favorire un’intesa con gli Stati Uniti almeno sulla ripresa a pieno del trattato New START, di cui si dovrebbe discutere a Il Cairo tra qualche settimana. A conferma di questa ipotesi ci sono alcuni elementi, come la rinuncia alla possibilità di bandire i metalli russi dal banco di Londra (LBM), la ripresa delle forniture destinate alla Federazione russa da parte di alcune importanti aziende dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, il rifiuto statunitense – momentaneo – di fornire all’Ucraina alcune tecnologie militari particolarmente avanzate – come i droni l’MQ-1C -, la decisione statunitense di sospendere le sanzioni economiche nei confronti delle missioni diplomatiche russe. Quella forse in divenire è dunque un’intesa relativa tra Washington e Mosca, le cui avvisaglie si scorgevano già durante la scorsa estate: rispetto a questa intesa in divenire dovranno essere considerati anche gli effetti relativi alle elezioni statunitensi di medio termine. Il fattore interno di maggior rilievo appare tuttavia costituito dalle divergenze tra parte dei vertici militari e politici statunitensi sul tema della guerra in Ucraina. Almeno una parte dei militari statunitensi sembra spingere per la trattativa – su tutti, il Generale Mark Milley – mentre nel complesso i vertici politici statunitensi non sembrano affatto voler imporre all’Ucraina un accordo con Mosca. A conferma di ciò, ci sono le dichiarazioni del Segretario di Stato Antony Blinken.

Se gli Stati Uniti nel loro complesso desiderassero la pace in Europa non esiterebbero un istante ad imporla all’attuale compagine ucraina, facendo il possibile per mettere da parte qualunque eventuale ostacolo.

In molte aree d’Europa, insieme alle proteste contro l’invio di armi in Ucraina ed il carovita, continua intanto a crescere la distanza tra popoli ed istituzioni, non di rado incapaci di gestire adeguatamente le istanze del presente e persino di immaginare quelle del futuro prossimo.

Nel frattempo, seppur in sordina, sul fronte di Donetsk gli avanzamenti delle forze russe proseguono lenti, ma costanti. Ancora una volta il tempo gioca a favore di Mosca: dilatandolo, Mosca potrà infatti rendere operativi migliaia di uomini – mobilitati e volontari – attualmente in addestramento, migliorare la propria logistica e dislocare sul nuovi equipaggiamenti. Facendo soprattutto forza sui problemi energetici dell’Europa occidentale e dell’Ucraina acuiti dal periodo invernale, e sulle inevitabili conseguenze politiche di questi. Ben poco fa insomma assomigliare la ritirata di Kherson e l’accenno di dialogo russo-statunitense al preludio della pace.

Sorgente: Facciamo tacere le armi e partire il negoziato

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