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La tragica sorte delle famiglie dei miliziani che da quattro anni vivono come sfollate

FRANCESCA MANNOCCHI

MOSUL (iraq). Quando è arrivata nel campo profughi, nel 2018, Anjia si è domandata quanto a lungo lei e i suoi figli sarebbero rimasti lì. Non sapeva dove andare, non aveva un altro posto dove vivere né una famiglia pronta a prendersi cura di loro. Non le restava nessuno. Suo marito era affiliato all’Isis e dopo la guerra di liberazione di Mosul lei come migliaia di altre donne e bambini rimaste vedove e orfani ha preso i figli ed è arrivata nel campo di Jeddah, nel nord dell’Iraq. Il campo, che al massimo della capienza delle cinque sezioni, ha ospitato anche 60 mila persone, estendendosi a perdita d’occhio, oggi è ridotto a una distesa di rifiuti e lamiere.

Le colpe dei padri

Resta attiva solo l’area 6, quella che ospita le famiglie dei miliziani o simpatizzanti dell’Isis, come quella di Anja. Tornare al villaggio, per lei, non è un’opzione: «sono preoccupata che vogliano vendicarsi con loro per le colpe dei padri, ho paura che qualcuno possa uccidere i miei figli, non posso tornare lì, al mio villaggio non mi vogliono più», dice nelle interviste raccolte nel report di Intersos, l’organizzazione umanitaria che da anni segue il destino degli sfollati interni iracheni. Nel 2019 il governo di Baghdad ha deciso di risolvere il problema degli sfollati interni – un milione e trecentomila persone di cui 182 mila nella regione semiautonoma curda – chiudendo 11 campi e riclassificandone due come siti informali. Decisione che, secondo le Nazioni Unite, ha colpito quasi trentamila persone. Così senza preavviso, i mukthar, i capi delle comunità, hanno informato gli sfollati di Tal Absta, di Mahalabiya e al Jaban che il giorno dopo avrebbero dovuto lasciare i campi profughi: «svuotate le tende – hanno detto loro – è arrivato il momento di tornare a casa». Molte delle case però non c’erano più, distrutte dai combattimenti e mai ricostruite così come il sistema di infrastrutture, scuole e ospedali. Apparentemente non c’erano ostacoli fisici al loro rientro, ce n’era però uno più insidioso cioè il rifiuto delle comunità. Sono passati quattro anni da quando i miliziani dello Stato Islamico sono stati sconfitti militarmente, un milione di civili, per lo più sunniti, restano sfollati e le loro comunità di origine restano divise. Troppo vivo il risentimento delle vittime, troppo pesante l’onta che pesa sulle famiglie considerate vicine all’Isis, come quelle di Anja.

Tessuto sociale distrutto

Le ferite della guerra sono ancora aperte, spiega Martina Amendola, Iraq programme coordinator di Intersos: «è ancora molto difficile ricomporre il tessuto sociale distrutto dalla guerra». Intersos da anni offre sostegno alle donne e ai bambini che vivono nei campi per sfollati interni, con supporto legale e psicologico, sia nelle tendopoli sia durante il rientro nei propri villaggi. Oggi le organizzazioni umanitarie che operano in Iraq devono fare i conti con l’ostilità delle comunità che ritengono che il ritorno di chiunque sia stato sospettato di sostenerli possa portare alla rinascita del gruppo. «Il 90 per cento dei casi di cui ci occupiamo – continua Martina Amendola – riguarda donne e bambini i cui mariti e padri erano affiliati al gruppo, oggi le donne vengono stigmatizzate perché sono sole, i figli pagano il peso dello stigma e molti sono apolidi. Per loro è quasi impossibile ottenere dei documenti». Sia le istituzioni irachene che quelle dello stato autonomo del Kurdistan da anni ostacolano l’accesso alla documentazione civile essenziale per lavorare, studiare, accedere ai benefici statali o più semplicemente attraversare i confini dei governatorati, perciò per queste donne e questi bambini non avere accesso ai documenti non significa solo non poter tornare a casa, ma non poter neppure immaginare di costruire un futuro, ripartire per esempio dall’istruzione.

Il rientro «sicuro»

Quando decise la chiusura dei campi, nel 2019, il primo ministro Mustafa al Khadimi aveva annunciato che il rientro nelle comunità di origine dovesse essere «sicuro e volontario». Ma entrambe le premesse sono state ignorate. Le autorità irachene, infatti, hanno imposto agli sfollati di firmare dei moduli, dei nulla osta precompilati che attestavano che la scelta fosse volontaria, ma le organizzazioni umanitarie che lavorano sul campo hanno definito la decisione di chiudere i campi frettolosa e pericolosa e le modalità intimidatorie. Lynn Maalouf, vicedirettore regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa ha dichiarato che «le autorità irachene e quelle curde dovrebbero affrontare la continua punizione collettiva degli sfollati interni sospettati di aver avuto una affiliazione con Isis come parte integrante di qualsiasi piano nazionale per la chiusura dei campi che – ha sottolineato – sono attualmente l’unica opzione per migliaia di persone. Affrontare queste ingiustizie è l’unico modo per garantire un ritorno dignitoso e non perpetuare le azioni che gettano i semi per futuri cicli di violenza».

Figli allo sbando

Anche Amina, come Anja, non può tornare a casa. E’ una sfollata della zona di Al Zab e vive nel campo di Al Jeddah da sei anni, e come le altre donne è vedova di un miliziano dell’Isis. I suoi parenti che hanno provato a tornare a casa sono stati arrestati perché denunciati dai vicini. E’ successo alle due mogli di suo fratello, all’anziana zia: «se tornassi a casa a me e ai miei figli toccherebbe la stessa sorte», dice. I processi nei tribunali, nell’Iraq del dopoguerra, hanno lasciato il posto ai processi collettivi, al respingimento sociale. Processi in cui a contare, più delle prove, è il sospetto. E’ sufficiente che qualcuno presuma o supponga che un altro sia o sia stato simpatizzante dell’Isis, a far scattare la denuncia, a far aprire le porte del carcere. Nel dopoguerra, per i parenti dei miliziani dell’Isis, il dubbio è prova certa. Così Amina resta ad al-Jedda, almeno – dice – ogni tanto le associazioni portano acqua e cibo. I figli non studiano, nessuno di loro può lasciare il campo in sicurezza, ma almeno qualcuno pensa alla loro sussistenza.

Perdita e stigma

Le storie delle donne di al- Jeddah si somigliano tutte, sono storie di affiliazione forzata e dolore. Perdita e stigma. E’ così per Ramia, che ha perso tutta la famiglia. E’ sopravvissuta solo lei e i suoi quattro figli, 13 anni, 11 anni, 8 e sei. Nessuno di loro ha un documento, per lo stato non esistono: «i miei figli non hanno futuro, sono banditi dalla società». Vorrebbe tornare a casa, come tutti, ma sa che nelle comunità di origine, i figli dei vicini non li vogliono, i bambini sono stati educati a non voler stare con i figli dei miliziani e dei simpatizzanti dell’Isis e questo getta un’ombra sul futuro del paese. Sul ritorno alla convivenza con famiglie che ormai sono ostracizzate, private dei diritti fondamentali: donne sole e figli che stanno crescendo come una sottoclasse, dimenticati e rinnegati. Esposti al rischio dell’estremismo del futuro.

Sorgente: Le vedove dell’Isis: “Nessuno ci vuole più. Che sarà dei bambini?” – La Stampa

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