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Nel focus chiamato “Un Paese da ricucire”, Censis e Confcooperative fanno il punto su lavoratori dipendenti, pensionati e aziende in Italia. La povertà, assoluta e relativa, coinvolge 3 milioni di famiglie. Nelle imprese a rischio di default c’è quasi un milione di persone che potrebbe perdere il lavoro.

A cura di Luca Pons

La povertà in Italia, tra assoluta e relativa, colpisce quasi 3 milioni di famiglie, per un totale di circa 8,7 milioni di persone. Una nuova analisi pubblicata dall’istituto di ricerca Censis insieme a Confcooperative (“Un paese da ricucire”) fa il punto sulle condizioni economiche degli italiani. A trovarsi in situazione di povertà assoluta – cioè la condizione economica in cui non ci si può permettere nemmeno le spese minime per raggiungere condizioni di vita accettabili, come definite dall’Istat – sono quasi due milioni di famiglie, oltre 5 milioni e mezzo di persone.

“Il disagio sociale supera i confini della povertà conquistando nuovi spazi, mietendo nuove vittime tra coloro che fino a oggi pensavano di esserne al riparo”, commenta il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini. “Almeno 300mila imprese – continua Gardini – rischiano di dover cedere ai debiti, che ammontano nel complesso a 300 miliardi di euro, e mettono in pericolo l’occupazione di circa 3 milioni di persone”.

I dati di Censis-Confcooperative indicano che avere un reddito da lavoro dipendente spesso non è più sufficiente per evitare il rischio di povertà e condizioni di forte disagio. Su un totale di 22,5 milioni di occupati, sono quasi 5 milioni (il 21,7%) ad avere lavori “non standard”, formula con cui si indicano i dipendenti a termine, part time e collaboratori. Condizioni che rendono meno stabile la vita lavorativa e, quindi, avvicinano la possibilità di finire in povertà. A essere più colpiti dalla precarietà economica, e quindi sociale, sono i giovani (il 38,7% nella fascia d’età 15-34 anni), le persone con basso livello d’istruzione (il 24,9% delle persone con un contratto non standard ha la licenza media) e i residenti al Sud (28,1%).

Ma l’impiego fisso non è sempre la risposta: serve uno stipendio adeguato. Tra tutti i dipendenti del settore privato, 4 milioni sono considerati “a bassa retribuzione”, cioè ricevono meno di 1000 euro al mese. Di questi, 412mila hanno un lavoro a tempo indeterminato e full time. Gli occupati in nero sarebbero circa 3,2 milioni: di questi, 2 milioni e mezzo lavorano nei servizi e 500mila sono i cosiddetti “falsi autonomi”, che risultano fiscalmente come lavoratori autonomi ma di fatto hanno un rapporto continuativo con un solo datore di lavoro, che però non li assume e quindi non fornisce le garanzie di un contratto da dipendente.

Non si trovano in condizioni migliori i pensionati: 6,2 milioni di loro, pari al 40% del totale, percepisce meno di 12mila euro all’anno. Tra le pensioni di anzianità o di vecchiaia, 6 su 10 non arrivano nemmeno a 10 mila euro annuali. La pensione di cittadinanza ha un importo medio mensile di 248 euro, ed è percepita da 126mila persone, di cui circa un terzo hanno una disabilità.

Infine, il punto sulle imprese. Quelle a rischio di default erano il 12,6% nel 2019, ma sono aumentate fino al 16,1%. Anche quelle considerate vulnerabili aumentano: dal 29,4% del 2019, al 32,6% di oggi. Quasi una su tre. A essere più colpite sono le “micro imprese”, quelle con meno di 10 addetti: il 16,7% è a rischio default e il 35,2% è vulnerabile. Dalla parte opposta, tra le grandi imprese (con più di 250 addetti) è a rischio il 4,4%, mentre è vulnerabile il 15,6%.

Complessivamente, nelle aziende a rischio ci sono circa 832mila persone il cui lavoro è in bilico. Tra queste imprese si distribuiscono 107 miliardi di euro di debiti finanziari. Le persone impiegate in aziende vulnerabili sono circa 2,1 milioni, e queste società hanno accumulato 196 miliardi di euro di debiti. In termini relativi, c’è una maggiore fragilità tra le imprese del Sud, ma in numeri assoluti ci sono più aziende colpite al Nord.

da: fanpage.it

Sorgente: Il lavoro non protegge più dal rischio di finire in povertà: i dati del rapporto Censis

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