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Gli strabismi degli elogi ai dissidenti seguono sempre una logica geopolitica: in Arabia Saudita o negli Emirati la condizione della donna appare quasi cristallizzata in una conclamata schiavitù, ma tollerata dalla benevolenza americana. Lo stesso modello orribile  in Iran, con la differenza che le donne votano, studiano e lavorano.

by Ferdinando Pastore

Dissidenti per procura

Nell’Occidente così compiaciuto per il trionfo civilizzatore della democrazia mercantilista, così appagato dalla Fine della Storia, è tutto un fiorire di dissidenti pedagogici.

Dissidenti che obbediscono a stimolazioni nervose che a un’attenta osservazione danno l’impressione di essere radicalmente preconfezionate. Ora è il momento dell’Iran.

Una dissidenza però che viaggia con qualche strabismo sospetto. E soprattutto che appare politicamente confortevole. Teoricamente un dissidente lo si dovrebbe essere principalmente in Patria. O nel mondo nel quale si vivono e si pagano contraddizioni e repressioni.

Questo vivere al di fuori del senso comune permetterebbe di comprendere a pieno la dissidenza degli altri. Nell’esercizio della funzione critica dove le nostre esistenze si sviluppano ci si rende conto della potenza affabulatrice del pensiero dominante. E dell’ostracismo che si subisce nell’affermare quella funzione.

Questa esclusione crea vincoli di empatia reale con chi contesta intellettualmente e politicamente i regimi altrui. Pagare le conseguenze della denuncia, con l’esclusione sociale, con l’essere eliminati dai circoli intellettuali che contano e nei casi estremi per mezzo della censura o della derisione pubblica del pensiero rende sostanziale la solidarietà con chi, in sistemi meno ipocriti nella loro tendenza totalitaria subisce pene meno simulate, come il carcere.

Un po’ differente è il ruolo svolto da questi nuovi militanti dei diritti umani. Incensati a casa propria ma utilizzati come palle di cannone nei luoghi in cui forse occorre la loro presenza. Traghettatori di turismo militante che si disperde al loro rientro tra le mura amiche. Dove saranno ricordati come eroi. Nel confort familiare dei propri luoghi quella passione civile si rannicchia in un comodo privato. Qui quella funzione critica si rovescia in liriche spassionatamente conformiste.

A ogni rientro a casa non c’è mai una prosecuzione della lotta ma una ridefinizione dell’intimità. “Ora voglio solo pensare a me stesso”.
Qui la lotta si è dissolta nell’americanismo coloniale che ci offre la possibilità di percepirci come consumatori.

Questo comodo bon ton del militante errante provoca discreti strabismi come detto. Ci si acceca per quelle contraddizioni altrui che seguono sempre una logica geopolitica. Sarà una coincidenza. Si può starne certi. In Arabia Saudita o negli Emirati la condizione della donna, ad esempio, sembra essere cristallizzata in una conclamata schiavitù. Schiavitù però impreziosita dalla benevolenza americana.

Mentre in Iran, le stesse donne votano, studiano e lavorano. Certo in un sistema teocratico. Non proprio un modello.

Forse e soprattutto in periodi di guerra questa militanza a corrente alternata, indifferente per l’ingiustizia domestica ma così accesa nei luoghi ostili al Washington consensus, qualche genuina perplessità la pone. Senza che con questo si debba incorrere nel reato di lesa maestà. Ormai consolidatosi come limite indiscutibile alla funzione critica. Motore dell’ostracismo di casa nostra. Non altrui.

 

Sorgente: Dissidenti per procura: in Iran c’è oppressione, in Arabia Saudita no – Kulturjam

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