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Pubblichiamo la prima parte di un contributo a riguardo della recessione che verrà, della quale nei tempi recenti una grande fetta di popolazione mondiale ha iniziato ad assaggiarne le prime implicazioni. Dalla pandemia alla guerra una riflessione che prova ad andare in profondità, alla ricerca delle cause e delle responsabilità di un fenomeno all’interno del quale occorre individuare spazi di possibilità, per quanto siano stretti nelle maglie del capitale. La recessione che viene – parte 11 – La recessione che viene c’entra e non c’entra con la pandemia. Le premesse erano già gettate, il grande flusso di denaro che è stato immesso dagli Stati e dalle istituzioni transnazionali per rispondere alla crisi pandemica è stato semplicemente un tentativo di posticipare l’esplosione. La pandemia è un epifenomeno di una serie di eventi più complessi che sono la trama della crisi climatica e del suo impatto sulle catene di approvigionamento, sulla produzione e sulla riproduzione delle società. La grande siccità di queste estate, piuttosto che gli eventi metereologici estremi sempre meno localizzati e più in generale, a livello globale intere aree del pianeta che tendono a divenire zone di sacrificio stanno dentro questa dinamica. La crisi climatica non impatta solo sull’estrazione delle materie prime, sulla circolazione delle merci e sul loro stoccaggio, ma riguarda anche direttamente le trasformazioni della forza-lavoro: si pensi al legame, mai troppo esplorato, tra la pandemia e le Grandi Dimissioni quanto ai milioni di migranti climatici in marcia dalle zone più colpite del globo. Si pensi ad una classe lavoratrice sempre più affetta dall’affaticamento, dalla malattia, dall’insicurezza sociale. L’impatto sulle catene del valore è sicuramente non univoco, una crisi rappresenta sempre una tragedia per qualcuno ed un’opportunità per qualcun’altro, ma l’illusione della transizione green con economia di mercato si sta sciogliendo come neve al sole. Non solo perché, come denunciano i movimenti climatici, si tratta di una falsa transizione, ma anche perché ad oggi richiede investimenti dal costo enorme (in un circolo vizioso in cui l’aumento dei prezzi è provocato in parte dalle conseguenze reali della crisi climatica) che relativamente pochi capitalisti hanno interesse a perseguire, anche se agevolati dagli stati. Dunque il mercato della “transizione”, come d’altronde una buona quantità degli investimenti del capitalismo occidentale, rimane in gran parte speculativo e fittizio. 2 – Alla lunga questo continua a rappresentare un problema enorme, in primo luogo perché viene a mancare la capacità di ristrutturazione complessiva della società, cioè di un “balzo in avanti” attraverso vari strumenti di innovazione tecno-sociali che riportino i fattori produttivi ad un equilibrio non troppo caotico. Se il capitale rimane fittizio o viene speso per investire in nicchie dall’alto valore aggiunto come spararsi nello spazio con una navicella fallica, allora è chiaro che la possibilità di un rinnovamento generale sembra molto difficile. Il problema è di una certa consistenza anche perché la parte di mondo non-occidentale è quella che in questo momento sta maturando alternative più o meno capitalistiche con una propulsione reale che in una dinamica competitiva potrebbero realmente mettere in discussione a questo punto l’egemonia del lato di mondo in cui siamo a fatica collocati. Come risolvere questo dilemma per salvare capra e cavoli? Ciò che sta venendo messo in campo (e che la dice ulteriormente lunga sulla scarsa capacità immaginitiva della sfera occidentale) è un tentativo di spingere su un’ulteriore concentrazione dei capitali nella speranza che tale concentrazione porti effettivamente ad una serie di investimenti reali. Dove si prendono questi capitali? Ma ovviamente dal salario e dal reddito delle classi popolari, dalla compressione della classe media e di ciò che rimane della piccola e media industria e dal tentativo di scaricare gli effetti più nefasti della spirale recessiva sulla periferia del sistema (quindi anche e forse soprattutto su di noi). Dunque la recessione viene di fatto “rilasciata”, cioè vengono progressivamente dismessi gli strumenti che fino a questo momento l’avevano tenuta in sospeso. Sarà veramente una soluzione dal loro punto di vista? E’ difficile fare previsioni, ma ci sono almeno tre elementi che fanno pensare il contrario. In primo luogo questa è una crisi totalmente differente da quelle precedenti, poco ha a che fare ad esempio con la crisi inflattiva degli anni ‘70 (anche per questo ci troviamo di fronte all’apparente contraddizione tra la politica monetaria ed i piani di investimento pubblico varati ad esempio negli Stati Uniti), dunque la domanda che sorge è se questa crisi sia di fatto il prodotto del peculiare stato di sviluppo del capitalismo occidentale in questa fase. La seconda, direttamente collegata con la prima, è che non è affatto detto che la maggiore concentrazione di capitali trovi

Sorgente: La recessione che viene – parte 1

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