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La leader di FdI punta a neutralizzare l’alleato e per il Viminale pensa a Piantedosi o Pecoraro. Gli altri incastri nei dicasteri e alle Camere

Serenella Mattera

ROMA – Disinnescare la mina Salvini. Farlo con garbo, senza mortificare l’alleato. Ma con la fermezza necessaria a infrangere i sogni del leghista. Ecco la prima prova da aspirante premier di Giorgia Meloni, la partita da cui dipenderà la possibilità del governo di esistere e durare, avere agibilità in Europa, comporre una squadra che mostri il volto più rassicurante a leader stranieri e mercati. La leader di Fratelli d’Italia ha già fatto intendere il messaggio a via Bellerio. Che il segretario possa tornare a sedere sull’amata poltrona di ministro dell’Interno è escluso. Così com’è escluso che Meloni si lasci affiancare da un sottosegretario alla presidenza del Consiglio targato Lega. Tradotto in regola generale, suona così: non si sogni Salvini di alzare le pretese sui ministeri per poi recitare il copione di quotidiani bombardamenti che vessavano Conte e spazientivano Draghi. Se non accetterà per sé e per i suoi il ruolo e il peso che il responso delle urne assegna loro – un terzo di FdI – rischia di avvitarsi tutto.

 

 

È Matteo a scrivere a Giorgia alle 4 del mattino tra domenica e lunedì, per renderle l’onore di una vittoria che ha prosciugato la Lega nelle Regioni del Nord. Ma non è l’annuncio di una resa. In via della Scrofa assistono preoccupati, poche ore dopo, alla scena di un Salvini indomito che suona la sua riscossa in conferenza stampa, a pretendere la legge quadro sull’autonomia e un decreto energia – con lo scostamento di bilancio che l’aspirante premier continua a escludere – nel primo Consiglio dei ministri. “Ora non ci resta che aspettare – dice un dirigente della Destra – che qualcosa avvenga dentro la Lega, che siano loro a spiegare a Salvini quello che è successo”. Una batosta di quella portata, è la convinzione, dovrebbe consigliare al leghista di dedicarsi alla ricostruzione del partito, invece di accomodarsi al governo. O, detta dalla prospettiva amorevole di un salviniano: “Se è furbo se ne sta fuori come facevano i segretari della Dc”. Ma proprio la debolezza della sua segreteria sembra convincere Salvini della necessità di sedere in Consiglio dei ministri. E forse anche per Meloni in fin dei conti è meglio Salvini in un dicastero non troppo delicato, che fuori con le mani libere.

Ma il segretario vuole il ministero dell’Interno, anche se ha smesso di dirlo. Non sembra volersi accontentare dell’Agricoltura, l’altra casella che la leader della Destra ha in mente per lui (“Centinaio, c’è già lui”, va dicendo il leghista). Un po’ più appetibile per il segretario, anche se molto gravoso per i tavoli di crisi da gestire, è lo Sviluppo economico dove ora siede – e potrebbe anche restare – Giancarlo Giorgetti. Salvini, nella vulgata meloniana, non può andare al Viminale perché sotto processo per Open Arms e perché il presidente Sergio Mattarella potrebbe avanzare obiezioni, con il rischio di far deflagrare uno scontro ancor più pesante di quello che coinvolse in era gialloverde Paolo Savona. Si accontenti quindi della compensazione: veder sedere al Viminale il suo ex capo di gabinetto Matteo Piantedosi. O, in un risiko più ampio, veder incoronare Piantedosi capo della Polizia, con al Viminale l’ex prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, che però è più vicino a Meloni. Un’ipotesi, quest’ultima, che vedrebbe l’attuale capo della Polizia Lamberto Giannini prendere la delega ai Servizi che oggi è di Franco Gabrielli, vincendo un derby con l’attuale capo del Copasir Adolfo Urso.

Gli incastri non sono semplici e anche per questo Meloni non vuole affrettare i tempi, incontrerà gli alleati solo a tempo debito. Perché c’è da accontentare anche Silvio Berlusconi che ha portato la sua Forza Italia a un insperato 8,3% e ora reclama almeno quattro ministeri, di cui almeno uno di peso, magari gli Esteri, per Antonio Tajani. Ma il governo la leader di FdI lo vorrebbe il più possibile a sua immagine, con sottosegretario alla presidenza un fedelissimo come Giovanbattista Fazzolari e tecnici d’area, che possano piacere al Colle e agli Alleati, nei ruoli chiave: Interno e Difesa, Esteri (si citano Giulio Terzi di Santagata, Stefano Pontecorvo, Elisabetta Belloni) ed Economia (con Fabio Panetta si fa il nome di Domenico Siniscaldo o anche Daniele Franco che avrebbe già detto di no).
La premier in pectore se la dovrà vedere anche in questo caso con Salvini, che per rovinarle la festa ha fatto sapere in anticipo di non volere tecnici. A ogni nome FdI oppone un leghista: Bongiorno per Nordio alla Giustizia, Rixi per Rampelli alle Infrastrutture. Ma la partita è lunga, il via si avrà con l’elezione  a metà mese dei presidenti delle Camere. Che Meloni potrebbe lasciare agli alleati, per avere mani più libere sul governo. E allora non Ignazio La Russa, come si vocifera, al Senato, ma Roberto Calderoli. Non Fabio Rampelli alla Camera ma Antonio Tajani. Una scelta, quest’ultima, che potrebbe essere molto gradita a Berlusconi. E consentire alla leader di FdI di far leva sul Cavaliere per temperare le mire di Salvini. Per poi comporre una lista di ministri da cui il leghista esca depotenziato.

 

Sorgente: Il veto di Meloni su Salvini: “Matteo non avrà ministeri chiave” – la Repubblica

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