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Una mamma rimasta senza lavoro: «Il reddito di cittadinanza? Preferirei riavere il mio tempo felice»

di Francesca Mannocchi

È mezzogiorno di lunedì scorso a Corsico, comune a Sud Ovest di Milano. Prima di arrivare nella sede della Onlus che ha fondato, Pina ha fatto il giro dei sette supermercati tra Milano e Rozzano in cui, ogni settimana, recupera le eccedenze e i prodotti in scadenza. Ha caricato le scatole sul camioncino e ha guidato verso La Speranza. Sui tavoli dello stanzone d’entrata ci sono già ottanta pacchi alimentari. Pasta, sugo, tonno, biscotti, ceci. I prodotti del «secco» del Banco Alimentare. Manca il fresco, la carne, il latte, le cose più facilmente deperibili.

L’ultima volta che ci eravamo viste, lo scorso dicembre, Pina stava preparando i pacchi natalizi, controllava che non mancassero torroni e panettoni a nessuno, controllava anche che non mancasse un gioco nei pacchi delle famiglie con bambini. La guerra russa contro l’Ucraina non era ancora iniziata, ma Pina aveva già sulla sua scrivania le bollette dei beneficiari. Allora, nove mesi fa, le famiglie scontavano l’onda lunga degli effetti della pandemia e non riuscivano più a pagarle. Pina aiutava i più fragili, per quello che poteva. A Corsico avevano perso il lavoro in tanti, tante fabbriche e attività avevano già chiuso, altre ne stavano chiudendo. E così anche nella piazza antistante, oggi. Resta aperto un bar e due soli luoghi con la fila davanti. Il Caf dove le persone aspettano per chiedere sussidi e il reddito di cittadinanza e La Speranza, perché il lunedì è giorno di distribuzione. Pina ha ancora bollette sulla sua scrivania. La differenza tra ieri e oggi è che ci sono anche le sue, raddoppiate, e che per questo non solo non può più aiutare nessuno per le spese di gas e elettricità, ma non sa neanche quanto potrà restare aperta se le sue spese continueranno a crescere.

Eppure non è questo che le vela il viso. Pina pensa al futuro ma vive al presente. E lunedì è riuscita a portare via dai supermercati solo un litro di latte fresco. Lo avrà un fortunato, una famiglia con un bambino piccolo, per gli altri restano i pacchi di latte a lunga conservazione «ma almeno lo avranno tutti, così come il prosciutto, un po’ di pasta fresca, quello che per tutti è normale e per i nostri beneficiari è un lusso».

Aspetta ottanta famiglie, e moltiplica. Ottanta famiglie rappresentano circa 300 persone. Complessivamente La Speranza ne aiuta ogni mese 338, mille persone di cui 279 minori.

Mentre la radio, in sottofondo, racconta la crisi delle aziende, gli imprenditori che non sanno come far fronte all’aumento dei prezzi, la crisi energetica mondiale, a La Speranza cominciano ad arrivare i beneficiari. I primi sono gli anziani, Pina li saluta tutti per nome, c’è Marianna, Giuseppe, «vivono con 500 euro al mese di pensione – dice -, l’inverno scorso faticavano a scaldarsi e oggi hanno smesso di cucinare per non accendere il gas». Preferiscono mangiare prodotti in scatola, cibo secco, per non rischiare di non poter pagare le bollette.

Sul muro del suo ufficio è appeso il calendario con i giorni di distribuzione. Il 22, il 23 settembre e poi ancora il 27 e il 28. Nel mezzo, segnata di rosso, la domenica elettorale.

Parlare di politica in un luogo come La Speranza significa innanzitutto fare una distinzione. Quella della televisione, dei cartelloni che circondano la piazza dei negozi chiusi davanti a La Speranza, per gente come Pina «è zero, è niente». Qui, dice, degli aiuti e del sostegno promessi lei non vede nulla, «forse sono io che non riesco a vedere o forse sono i miei occhi che vedono solo le persone che sono in difficoltà». La politica, per quelli come lei, «è stimolo a migliorarsi». Sono i suoi volontari, sono gli anziani e le madri che le tendono la mano e a cui porge, senza stanchezza, un sorriso caparbio. Di tutte le frasi che aveva usato mesi fa per raccontarmi il suo impegno, quella che più mi aveva colpito è: non mi piace la parola poveri. La sostituisce, sempre, con «persone in difficoltà». Quelli che non riescono a vivere dignitosamente, che hanno inciampato, che faticano ad andare avanti e insieme a chiedere aiuto. Per loro, la sua politica, è ascoltarle, prenderle in carico, condividere i loro problemi e cercarle di aiutare. Con il poco che ha per il tanto di cui hanno bisogno.

Povero, dice, è una parola facile, perché povero è una categoria, un contenitore lessicale in cui le statistiche sanno dove inserire chi non ce la fa. E la politica, quella della televisione, si relaziona alle categorie o stanziando soldi a pioggia e buoni spesa quando ci sono i fondi o facendo grandi proclami e altrettanto grandi promesse quando i soldi non ci sono e resta spazio solo per gli slogan. «Considerarle persone in difficoltà significherebbe per loro – dice Pina – riflettere sulle cause strutturali che li hanno portati a non avere più soldi per mangiare». A non essere più uguali a prima, a non essere soprattutto uguali agli altri. La disuguaglianza sociale, per lei, è questo: non voler vedere come fa un altro a vivere con 500 euro al mese. «Ma lo sanno, loro lo sanno come si vive. Si vive male. Si vive di vergogna».

E guardare in faccia la vergogna di un altro è una fatica che impone responsabilità, è per questo che qui, nella piazza di Corsico, non si è visto nemmeno uno dei politici della televisione.

Piazze vuote, urne vuote
Mentre consegna i pacchi alimentari, Pina riceve le telefonate di chi ha bisogno di medicine, la gente che la chiama ha bisogno di semplice tachipirina, di antibiotici.

Nei cartelloni lungo la strada campeggiano le parole d’ordine della campagna elettorale. Scegli, Pronti, Credo.

Pina le parole d’ordine non le ha, ma ha un metodo: se non ascolti, non capisci. La piazza è rimasta vuota durante la campagna elettorale e questa distanza non è solo fisica, è culturale. È un vuoto emblema di un’assenza che non è assenza di istituzioni, è assenza di un pensiero, di una visione strategica per uscire dai problemi. Perché la gente che arriva da lei non è gente disperata, è la povertà del lavoratore che pur avendo uno stipendio non sopravvive più, sono persone che attraversano un momento che potrebbe essere di difficoltà transitoria ma che, in assenza di visioni politiche di lungo termine, scivolano velocemente verso la povertà assoluta.

«Il cibo è l’elemento più flessibile del bilancio di una famiglia, perché è quello che si comprime e sostituisce più facilmente – dice Roberto Sensi, responsabile del programma povertà alimentare di ActionAid Italia che sta curando il nuovo rapporto in uscita tra poche settimane -. Le famiglie non possono non pagare le bollette. E si privano del cibo o cominciano a chiedere aiuto ma non sapremo mai quanti sono quelli che, per vergogna, non arrivano a bussare alla porta delle onlus come quella di Pina, il terzo settore, parte significativa del welfare di questo Paese».

I dati sulla povertà in Italia ci sono. E ci sono ogni anno. Quelli Istat più recenti, per esempio, dicono che l’incidenza della povertà aumenta con il numero dei figli, e raggiunge il 22,6% nelle famiglie con più di cinque componenti. Dicono in quale parte d’Italia si soffre di più, che prevedibilmente è il Sud. Ricordano che tra tutti i vulnerabili, a soffrire di più siano gli stranieri: un milione e seicentomila persone. Elencano i numeri per fasce d’età: un milione e 400 mila minori in povertà assoluta. Parte dei quasi due milioni di famiglie che vivono in povertà assoluta, che sono il 7,5% del totale. Cioè circa sei milioni di persone.

Erano 5,6 l’anno prima. Crescono sempre. E crescono in assenza di una strategia politica di lungo termine contro le cause della povertà, il mercato del lavoro precario, una spesa sociale che non permette di affrontare in modo sistematico i rischi sociali. Numeri che crescono senza che la politica capisca che le statistiche misurano la capacità di reddito ma non raccolgono gli effetti indiretti della povertà, i dati esclusi dalle statistiche. L’immateriale: lo stigma, il valore del sé, la vergogna. Come quella di Giulia, che ha scelto di farsi chiamare così perché ha pudore di dire il suo vero nome per la figlia di dieci anni. Giulia e suo marito non la portano in vacanza da anni, non mangiano mai fuori casa, la bambina non invita nessuno a giocare perché non hanno niente da offrire e Giulia non vuole che a sua figlia sia sempre tutto offerto. La scorsa primavera, quando il prete è andato a benedire casa loro, i suoi compagni di classe le avevano detto «falla benedire due volte che voi siete poveri».

Per i bambini che vivono in famiglie molto vulnerabili, il cibo, o meglio la mancanza di cibo, è il primo indicatore. I genitori iniziano così, si privano del cibo per i figli, e i figli si rendono conto della gravità della situazione perché realizzano che quello che mangiano loro, lo mangiano solo loro. La carne, il pesce quando si può.

Giulia e suo marito sono pieni di debiti. Anche i suoi genitori, quando era piccola, avevano debiti. ma non hanno mai smesso di credere che li avrebbero ripagati e le avrebbero garantito una vita dignitosa. Invece lei oggi per descriversi dice che si sente «vecchia, malata e stanca, perché la povertà è una malattia che ti resta addosso pure quando pensi che è passata». La cosa che la fa più soffrire è vedere per sua figlia un futuro che «va solo a peggiorare». È pensare che anche i suoi bisogni saranno ignorati. «Quelli che stanno bene non ci conoscono, non sanno chi siamo», dice Giulia. Se potesse parlare con il prossimo primo ministro direbbe: non credo più alla politica e ogni giorno prego che mia figlia non provi mai cosa significhi non sapere come sfamare qualcuno che hai messo al mondo.

Il bisogno ha volto di donna
Sonia è vedova, ha 58 anni, una figlia di 22. Viene a La Speranza per non sentirsi una mosca bianca, perché anche nei momenti cupi bisogna avere intorno una comunità che allevi il peso della solitudine. Lavorava come graphic designer fino a dieci anni fa. Poi la sua azienda ha chiuso e lei non è riuscita a rientrare nel mondo del lavoro. Ha lasciato la casa che aveva, le hanno assegnato un alloggio popolare a Corsico. Oggi vive più o meno con i 500 euro del reddito di cittadinanza. Ha pagato le tasse per vent’anni e pensa che sia giusto ricevere indietro una mano dallo Stato. Ma non è così che vorrebbe essere aiutata dalla politica, perché lei, quel reddito di cittadinanza che ora le è necessario, lo sostituirebbe domani con un lavoro. Uno qualsiasi.

«Lo so che è mio diritto ricevere il reddito, ma non voglio i soldi di nessuno. Rivoglio il mio tempo felice».

Prima, quando lavorava, prendeva dagli scaffali del supermercato ciò di cui aveva bisogno. L’attenzione ai prezzi era premura di non sprecare, non ancora sinonimo di privazione. Oggi per lei andare al supermercato è un’esperienza di isolamento. Ogni volta che torna a casa segna quello che spende, vede quello che le rimane e lo divide per i giorni che restano alla fine del mese. Mediamente vive con nove euro al giorno.

La politica che vive la riassume così: ti volti e non c’è più nessuno dalla tua parte. La politica che vorrebbe, invece, ha la forma della domanda. Qualcuno che chieda: come ti senti? Cosa posso fare per aiutarti a uscire da questa situazione?

La conseguenza che le pesa sulla schiena è una disuguaglianza che spesso, dice, ha la forma del razzismo. Tu non hai perché sei in difficoltà diventa tu non hai perché non sei all’altezza.

Ma la cosa che le pesa di più non è lo sguardo di commiserazione degli altri, né gli abiti lisi, no. Sonia sorride sempre. Finché non ricorda quanto fosse felice quando lavorava.

Sua figlia vedeva i suoi bozzetti, l’impaginazione della rivista, una mamma indaffarata, spesso assente. Ma felice. Quando ha perso il lavoro sua figlia aveva nove anni.

La madre della sua adolescenza è stata una donna depressa, un buco nero, «una madre da buttare via», dice.

Per Sonia, invisibile alla campagna elettorale e che agli slogan non crede più, la politica dovrebbe essere questo: poter riavvolgere il nastro e dimostrare a sua figlia quanta gioia aveva nel cuore, quante cose avrebbe potuto fare e non ha fatto.

Sorgente: Come i politici rispondono alla crisi: il voto degli invisibili a Milano – La Stampa

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