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19 April 2024
0 6 minuti 2 anni

Discriminazioni. Una ricerca statunitense mostra che gli utensili usati per misurare l’ossigeno nel sangue funzionano male su neri e ispanici. L’accesso alle cure anti Covid potrebbe essere stato alterato. La disparità può aver contribuito ad aumentare la mortalità nelle minoranze

Oltre che con poliziotti violenti e suprematisti bianchi, i neri statunitensi devono vedersela anche con gli apparentemente innocui saturimetri. I dispositivi, divenuti popolarissimi durante la pandemia, discriminano le minoranze etniche rispetto ai bianchi quando si tratta di misurare l’ossigenazione del sangue, facendo apparire il sangue di neri e ispanici più ricco di ossigeno di quanto non sia realmente. E questo, soprattutto durante i periodi peggiori dell’emergenza Covid, ha alterato la valutazione della gravità dei pazienti e causato una disparità nella cura nelle persone appartenenti alle minoranze.

Così si può spiegare, almeno in parte, il diverso impatto del Covid-19 negli Stati Uniti: mentre tra i bianchi l’aspettativa di vita è calata di circa un anno, tra i neri e gli ispanici gli anni di vita persi sono stati tre. A suggerirlo è uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Journal of the American Medical Association (Jama) Internal Medicine dai medici dei policlinici universitari di Maryland e Texas, guidati da Ashraf Fawzy dell’università Johns Hopkins di Baltimora.

IL PROBLEMA del «saturimetro razzista» è noto da oltre trent’anni. Durante il Covid-19, come in tutte le malattie dei polmoni, ha rappresentato lo strumento più importante per valutare la situazione di una persona positiva al Covid-19. La soglia del 94% di saturazione sanguigna è normalmente utilizzata per distinguere un paziente non grave da uno che necessita di terapie più intense, come i farmaci antivirali e la ventilazione meccanica.

I MODELLI più usati misurano la quantità di ossigeno nel sangue trasmettendo un fascio di luce attraverso un dito e rilevando quanto esso riesca a attraversarlo. Dato che l’emoglobina influenza l’assorbimento di alcune frequenze della radiazione, questa misura ottica e non invasiva – basta stringere una molletta intorno al polpastrello – permette di valutare la percentuale di ossigeno. Anche la pigmentazione della pelle però interferisce con il fascio luminoso e può falsare il risultato. Su un campione di circa 7000 pazienti, i ricercatori hanno mostrato che l’ossigenazione dei pazienti neri, ispanici e asiatici risulta sovrastimata dell’1-2% rispetto ai valori reali, mentre nei bianchi lo strumento dà un valore più basso di quello reale. Il difetto ha portato a giudicare non gravi casi che richiedevano cure più intensive.

La differenza in percentuale può apparire piccola, ma diventa decisiva nei casi vicini alla fatidica soglia del 94%: dai dati emerge che i neri e gli ispanici hanno una probabilità più bassa del 29% e del 23% rispettivamente di ricevere cure adeguate al loro stato sulla base dei risultati del saturimetro. La probabilità che un’ipossia non sia rilevata dai medici, in queste minoranze, è quasi tre volte più elevata che tra i bianchi.

ANCHE SE IL PROBLEMA non è inedito – il primo studio che evidenziò il problema risale al 1991 – queste analisi non sono ben conosciute tra i sanitari. «Non si tratta di informazioni nuove, ma posso certamente affermare che io non ho ricevuto istruzioni su questo», ha detto Fawzy alla rivista StatNews.

Il malfunzionamento dei saturimetri non è un caso isolato. Anche altri strumenti diagnostici si rivelano meno accurati quanto utilizzati su pazienti neri. Nei casi noti da più tempo, dalla spirometria ai test sul funzionamento dei reni, oggi i medici usano dei coefficienti di correzione per tenere conto delle differenze etniche.

Ma, come dimostra il caso dei saturimetri, non è la regola. Le disparità nelle condizioni di salute, evidentissime in Paesi privi di un servizio sanitario universale come gli Usa, non si spiegano infatti solo con il mancato accesso alle strutture sanitarie per ragioni economiche o con stili di vita meno sani. Una delle più estese indagini in materia realizzata nel 1997 negli Usa su 1,7 milioni di malati e 77 diverse patologie rivelò che a parità di età, gravità, copertura assicurativa e tipo di ospedale, per quasi la metà delle malattie i neri avevano una probabilità significativamente inferiore di ricevere terapie adeguate.

CHE LA MINORE efficacia degli strumenti di salute riguardi regolarmente le minoranze più vulnerabili non è un caso. Farmaci e dispositivi sanitari, infatti, vengono immessi nel mercato dopo una serie di sperimentazioni su campioni di volontari che raramente rispecchiano la popolazione reale, nonostante le frequenti raccomandazioni delle agenzie regolatorie come la Food and Drug Administration. Le persone appartenenti alle minoranze etniche partecipano più raramente alle sperimentazioni: conta la paura di discriminazioni anti-etiche, basata su una storia della medicina americana costellata di episodi di razzismo, ma anche la difficoltà economica di accedere alle strutture sanitarie più qualificate in cui si svolgono queste sperimentazioni. Di conseguenza, sull’efficacia di farmaci e dispositivi su neri, ispanici e altre minoranze si sa poco.

Il risultato è particolarmente visibile proprio nel settore delle malattie respiratorie, che invece colpiscono la popolazione nera con maggiore severità. Una ricerca statunitense del 2015 mostrò che solo l’1,9% di tutti gli studi clinici in questo settore includeva soggetti appartenenti alle minoranze. Un destino simile riguarda le donne, anch’esse molto meno rappresentate degli uomini nelle sperimentazioni. La conseguenza è che gran parte della medicina di cui disponiamo è disegnata per una popolazione bianca, di sesso maschile e agiata, mentre i gruppi sociali che ne avrebbero bisogno rimangono tagliati fuori.

Sorgente: ilmanifesto.it

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