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Viaggio tra le seconde generazioni nate in Italia e mai integrate nel nostro Paese. “Ci avete ghettizzato, non stupitevi se chi non ha niente poi dà sfogo al suo disagio”

“Quello che è successo è vergognoso, quelle molestie sono terribili, ma possibile che i riflettori si accendono solo quando scoppia il caos? Si svegliano solo adesso scoprendo la rabbia e la violenza che molti ragazzi stanno sfogando? Ma di noi non ha mai avuto pietà nessuno, dallo stesso momento in cui ci hanno sbattuti nei peggiori quartieri, possibilmente ammassando tutti insieme, per identificarci ancora meglio come immigrati, africani a vita. Alla fine, ce l’hanno fatta. Sono riusciti a farci credere di essere più africani che italiani. Non capisco quindi perché tutto ‘sto scandalo”. Così Hassan (nome di fantasia) da Milano, quartiere San Siro, spiega il disagio di una generazione di figli di immigrati. “Sì, mi sento africano, marocchino e non certo italiano. Non sono mica scemo. So come ci guardano gli italiani e, sinceramente, preferisco tenermi strette le mie origini”.

Mentre si racconta, cerca di spiegare, la voce a volte trema, eppure non ha nessuna voglia di fermarsi ed è convinto di rientrare in una specie di figura, marocchina, immigrata, africana, che non è altro che qualcosa di immaginario e astratto. E basta vedere il volto dei genitori, sentirli parlare, per capire quanta distanza ci sia tra lui e il loro mondo. “Ma non ti guardi intorno sorella? Siamo solo la feccia per loro (inteso, gli italiani, ndr), e da dentro queste fatiscenti palazzine sono in pochi a permettersi di sognare. Fare piccole rapine, spacciare, per molti ragazzi è ormai normale”.

Un disagio che esprime anche Farid, che ha appena 14 anni e vive a Vercelli, Mounir, diciottenne di Tor bella Monaca, estrema periferia est di Roma. Ragazzi che vivono in quartieri popolari e realtà diverse, ma sembrano tutti fatti con lo stampino: abbigliamento, gusti musicali, tanta rabbia e voglia di emergere, uscire dal “ghetto” a tutti i costi.
“È un ghetto non solo di palazzine – spiega Fatma, 18 anni, tunisina – ma di percezioni, opportunità, parole, stigmatizzazione e pregiudizi che continuano ad imprigionarci, senza via di scampo. I rapper emergenti, come Sacky, Baby Gang, Neima Ezza un po’ danno sfogo al nostro disagio”.

Dice Rashid, 20 anni, Barriera di Torino: “Io non sono una vittima. Semplicemente so che devo andare a prendere quello che mi spetta. Perché tanto qui non me lo darà nessuno. Sai quante volte mi hanno fermato le forze dell’ordine solo perché ho la faccia da maghrebino? Tanto vale fare il vero spacciatore”.

Parole troppo grandi per ragazzi troppo giovani nati in Italia da genitori immigrati e dove “l’Africa” è in realtà la città o il villaggio dove sono nati i loro genitori. Eppure, quelle parole riescono a dirle leggeri. Quella che sembra accomunare una parte dei figli di immigrati. Basta parlarci, entrare un po’ nella loro testa e scardinare i miti che si sono costruiti per capire che sono, da una parte, al centro di un vero scontro generazionale con la cultura e le tradizioni dei genitori; dall’altra, in un conflitto identitario con il Paese dove sono nati e cresciuti. Uno scontro che, in ultima istanza, sfocia in rabbia e violenza, come quella avvenuta il 2 giugno sulle spiagge di Castelnuovo e Peschiera del Garda dove si sono riversati centinaia di ragazzi arrivati dalla Lombardia per un raduno trap chiamato “L’Africa a Peschiera”.

Come si è riusciti, a portare una parte delle seconde generazioni di nuovi italiani a percepirsi “l’Africa” nel Paese in cui sono nati e cresciuti? E attenzione, a percepirsi “Africa” nell’accezione negativa, rispondendo al peggior pregiudizio razzista. Perché quello è stato: la devastazione fisica del luogo pubblico per finire nelle molestie orrende che hanno colpito, anche qui, come a Capodanno a Milano, ragazze inermi, magari coetanee, compagne di scuola, sorelle, amiche, che di colpo vengono disumanizzate, per diventare solo “bianche” da molestare.

Un nichilismo estremo. Una semplificazione rozza e al limite che divide tra bianco e nero, quando anche il bianco e il nero in quel dato contesto in realtà non esiste, ma è sola una percezione che si è fatta realtà, nella più becera violenza, che ci indica come nei prossimi anni sarà complicato trovare la ricetta giusta per scardinare un incubo che si è avverato, per la gioia di chi ha tifato sempre affinché una integrazione non fosse possibile e non ha fatto nulla perché avvenga.

Sorgente: Ragazze molestate, la rabbia dei figli degli immigrati: “Noi più africani che italiani, ma siete voi a farci sentire così” – la Repubblica

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