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Immaginare forme di autogoverno e controllo democratico del capitalismo che lucra sulle nostre esistenze digitali è necessario. Ma possiamo farlo senza prevedere anche cambiamenti politici più generali?

Robert Gorwa

Non è una novità che ci siano seri problemi con gli spazi digitali con cui molti di noi si confrontano quotidianamente mentre lavoriamo, giochiamo, interagiamo e generalmente cerchiamo di rimanere in vita. Ma potrebbe essere meno evidente che stiamo vivendo un momento importante nel capitalismo digitalizzato, una fase in cui il futuro di molte di queste piattaforme viene contestato e riscritto.

Il dibattito sulle aziende tecnologiche internazionali principali sembra cambiato enormemente negli ultimi cinque o sei anni. La crescita di servizi basati su app e attivi su scala locale per la consegna di generi alimentari, i trasporti, il lavoro di assistenza e altre forme di impiego è stata accompagnata da livelli crescenti di militanza dei lavoratori e delle lavoratrici in molte città. Ciò ha portato a nuove coalizioni transnazionali nel tentativo di migliorare i salari, i benefit e le condizioni di lavoro generali dei lavoratori delle piattaforme.

Le decisioni prese da piattaforme di social media controllate da aziende come Twitter, TikTok e Instagram – o, più precisamente, dalle burocrazie tentacolari e invisibili che queste hanno sviluppato nel tentativo di placare gli inserzionisti e combattere le azioni illegali online – vengono accolte con proteste sempre maggiori dagli utenti. Sono anche percepiti come insoddisfacenti e problematici sia a sinistra che a destra (sebbene per ragioni diverse). La questione sembra essere diventata così pesante che persino Elon Musk ha ritenuto opportuno scendere dal suo empio trespolo nel tentativo di salvare la situazione.

In risposta a questo problema, stanno emergendo due strade. In primo luogo, stanno rispondendo i governi: negli ultimi cinque anni c’è stato un boom globale di nuove forme di regolamentazione che cercano di affrontare varie questioni politiche relative all’economia delle piattaforme. Questa tendenza è più evidente nell’Unione europea, che si sta attrezzando per intervenire più attivamente nel modo in cui i principali attori, le cosiddette piattaforme online, portano avanti le loro attività. Si tratta di una versione leggermente migliorata del business as usual, una forma di capitalismo degli stakeholder con una maggiore concorrenza sul mercato, una migliore supervisione e un’infarinatura di diritti individuali degli utenti.

Gli esperti di tecnologia, tuttavia, hanno un altro piano, e non stiamo parlando solo dei «prodigal tech bros» che si sono rivoltati contro l’industria negli ultimi anni. Il loro nuovo brillante modello – il nebuloso Web3 – anticipa la svolta normativa in corso superando in gran parte il modello attuale basato sulle piattaforme. Al contrario, ci si sta spostando verso una nuova serie di servizi «decentralizzati» basati su token crittografici. Questa visione apparentemente promuove un aumento dell’autonomia individuale, l’allontanamento del potere da intermediari sempre più impopolari e la possibilità di essere pagati per le proprie attività online (Suona tutto bene, ma per favore non aprite il cofano per sbirciare).

In un eccellente libro recente intitolato Platform Socialism, James Muldoon, teorico politico e storico del movimento operaio, traccia uno scenario alternativo avvincente. Muldoon si oppone alle due soluzioni offerte: critica sia le modalità incrementaliste [basate su adattamenti graduali invece che grandi riforme, Ndt] di controllo tecnocratico che il soluzionismo tecnologico dei fedeli inossidabili e dei venture capitalist. Piuttosto, Muldoon invoca «la proprietà sociale delle risorse digitali» come mezzo per ottenere «il controllo democratico sull’infrastruttura e sui sistemi che governano le nostre vite digitali».

Beni comuni digitali

In breve, il libro sostiene che dovremmo socializzare l’industria tecnologica. I due casi di studio centrali sono Facebook e Airbnb, sebbene tratti anche Uber, Amazon e Alphabet. Parla di meno dei mercati del lavoro online, delle piattaforme industriali e degli altri attori nell’economia delle piattaforme sparpagliata e difficile da definire. Ma anche così, va oltre la maggior parte dei resoconti critici di sinistra dell’economia delle piattaforme, che spesso si concentrano su modalità specifiche di riorganizzazione aziendale. Un buon esempio di queste tendenze è la proposta di trasformare le piattaforme in cooperative. Muldoon spinge invece per una forma più profonda e più ampia di «partecipazione attiva alla progettazione e al controllo dei sistemi socio-tecnici», idealmente a livello globale.

È un progetto estremamente ambizioso, ancorato a pochi obiettivi centrali. La prima serie riguarda la partecipazione democratica: Muldoon sostiene in modo convincente che abbiamo bisogno di forme profonde di autogoverno nelle comunità online e nelle piattaforme utilizzate dalle persone. Queste devono consentire agli utenti di modellare le regole e le offerte, le capacità di una determinata piattaforma, che prescrivono il comportamento su app e siti Web. Ancora più importante, Platform Socialism sostiene che le aziende che sviluppano servizi di piattaforma dovrebbero essere completamente ristrutturate in modo che lavorino per ottimizzare il valore sociale piuttosto che il profitto per gli azionisti.

Per implementare queste idee nella pratica, Muldoon sostiene l’«associazione democratica», attingendo al suo gusto preferito di organizzazione socialista. Questa è una strategia debitrice a pensatori come G.D.H. Cole e alla tradizione socialista delle corporazioni. Qui il coordinamento sull’enorme e complesso apparato tecnologico globale viene ottenuto non attraverso la pianificazione centrale o tramite forme di calcolo algoritmico, piuttosto attraverso forme di processo decisionale decentralizzate e delegate. Queste decisioni coinvolgeranno non solo i lavoratori, ma anche «produttori, utenti e comunità locali».

L’alternativa fornita dal libro alle forme capitaliste rappresentate dalle piattaforme prevede il controllo democratico delle infrastrutture tecnologiche politicamente ed economicamente cruciali. Queste includono non solo la spina dorsale della proprietà privata dell’economia digitale (cavi sottomarini, data center), ma anche la proprietà intellettuale (software) e le risorse di dati. È importante sottolineare che queste risorse non dovrebbero solo essere condivise e rese più ampiamente accessibili, ma anche utilizzate in modo da rimodellare le disuguaglianze di potere nel contesto post o neocoloniale. Piuttosto che scomporre Alphabet o Meta in tutte le loro parti costitutive, questa linea di pensiero chiede come potrebbero essere trasformati in fondazioni senza scopo di lucro. In uno scenario simile, le entrate extra potrebbero andare a una «Organizzazione globale per la ricchezza digitale» che operi attivamente per fornire una varietà di servizi di alta qualità, senza tracciamento o pubblicità invasive.

Muldoon sostiene inoltre che l’obiettivo finale dovrebbe essere più ambizioso di lottare per la nazionalizzazione delle grandi società di piattaforme o per la trasformazione di Google o Amazon in cooperative di lavoro. «Consegnare Alphabet ai suoi 132.000 dipendenti sarebbe fantastico per loro, ma cosa accadrebbe al resto della comunità globale?» chiede Muldoon. Invece di distribuire il potere a una nuova élite, dovremmo puntare più in alto e «democratizzare la proprietà e autorizzare le persone a partecipare a nuove strutture di governo».

Futuro alternativo

Il socialismo delle piattaforme è un progetto di un potenziale futuro alternativo più che un piano per arrivarci. Muldoon afferma esplicitamente che il libro ha lo scopo di fornire una visione utopica, inquadrando il socialismo delle piattaforme come potenziale progetto contro-egemonico a lungo termine per future battaglie contro le molte forme di sfruttamento e l’appropriazione del capitalismo digitalizzato. Questo tipo di visione svolge un ruolo importante nel guidare il discorso pubblico – e accademico – sulle alternative allo status quo.

Sebbene Muldoon sembri essere un relativamente nuovo arrivato nel campo della politica tecnologica, sono stato incoraggiato dal numero di ricercatori che leggevano il libro. Il tempismo non potrebbe essere migliore: gli accademici che in precedenza lavoravano su questioni relativamente ristrette in merito alle piattaforme digitali cercano sempre più di allargare le loro prospettive. Questo potrebbe essere l’esito di ricerche che riconoscono un insieme fondamentalmente fallito di modelli di business, regimi di governance e incentivi politico-economici che guidano la tecnologia. Sono necessari nuovi modi critici per avvicinarsi all’economia delle piattaforme e il libro di Muldoon è un contributo gradito.

Tuttavia, come scrive Muldoon, è «più facile per noi immaginare che gli esseri umani vivano per sempre nelle colonie su Marte piuttosto che esercitino un controllo democratico significativo sulle piattaforme digitali». Probabilmente è vero anche se pensiamo che «la risposta a molti dei problemi dell’industria tecnologica è sottoporre queste aziende potenti a una disciplina maggiore e al controllo democratico». La maggior parte dei burocrati e dei funzionari eletti a Berlino e Parigi sarebbero probabilmente d’accordo, affermando che la democrazia elettorale sta finendo in mano a irresponsabili baroni stranieri della tecnologia. Tuttavia, i recenti sforzi normativi dell’Ue non democratizzano né ridistribuiscono in modo significativo il valore delle piattaforme.

La rivoluzione non sarà su TikTok

E se la tensione del «realismo della piattaforma» criticata da Muldoon non fosse solo il risultato di un fallimento della nostra immaginazione? Il libro è disseminato di esempi che illustrano fino a che punto le più grandi multinazionali tecnologiche siano diventate centrali nella logica del capitalismo finanziarizzato globale. Un grosso problema nello sciogliere il nodo gordiano del dominio delle piattaforme è la partecipazione di potenti hedge fund e istituzioni finanziarie come BlackRock nella continua crescita e redditività di aziende come Meta e Amazon.

Queste strutture di interdipendenza economica incombono minacciosamente su qualsiasi nozione di cambiamento reale. Ad esempio, prendete l’indice Standard & Poor’s di 500 grandi società quotate nelle borse di New York e Chicago. L’S&P 500 è aumentato di quasi il 27% nel 2021. Quasi un terzo di questa crescita è dovuto a cinque società con sede negli Stati uniti: Apple, Microsoft, Google, Tesla e Nvidia. Come osserva Muldoon, nel 2020 queste aziende sono state responsabili di uno sbalorditivo 60% dei rendimenti dell’S&P. Seguendo lo storico dell’economia Adam Tooze, l’S&P può essere inteso come una misura approssimativa del capitale produttivo dell’economia statunitense. Se questo è il caso, questi numeri suggeriscono che queste grandi società di software e hardware sono diventate fondamentali per la crescita economica da cui dipendono gli Stati uniti (e il sistema capitalista globale in generale).

In questo contesto, anche i pensatori più utopisti tra noi troveranno difficile credere che questi interessi consentirebbero mai a queste aziende di essere trasformate in organizzazioni senza scopo di lucro o società di utilità sociale. Il socialismo delle piattaforme – o almeno gli aspetti centrali di un’agenda socialista a piattaforma – può esistere sotto il capitalismo?

Forme di autogoverno significativo della comunità online, così come alcune delle prescrizioni politiche più ristrette prospettate da Muldoon, sembrano a portata di mano. Raggiungere la visione più ampia, tuttavia, richiederebbe livelli scoraggianti di capitale economico, politico e sociale che potrebbero essere raggiunti solo attraverso la realizzazione di una trasformazione politica più ampia.

Attivisti e organizzatori non dovrebbero lasciare che una fissazione per Big Tech distragga da quell’obiettivo generale. Detto questo, le aziende tecnologiche e i servizi di piattaforma che governano la nostra vita quotidiana, soprattutto se sono davvero così centrali per l’ordine attuale, sembrano sempre più un luogo utile alla resistenza, e forse potrebbero rappresentare un catalizzatore per un cambiamento più ampio a lungo termine.

Sorgente: Il socialismo delle piattaforme – Jacobin Italia

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Un commento su “Il socialismo delle piattaforme