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La strategia delle bombe al Nord, le connessioni con il quadro politico in evoluzione, l’ondata di attentati, le trattative sotterranee tra boss e istituzioni, nel racconto del pm che da Caltanissetta alla Toscana ha scandagliato i misteri di quella stagione

di Luca Tescaroli*

L’input investigativo che ha consentito di ricostruire la fase preparatoria ed esecutiva degli attentati del biennio 93-94 è stato fornito dall’analisi dei tabulati delle utenze telefoniche. La verifica dei contatti intercorsi nella fascia oraria caratterizzata dall’attentato di via dei Georgofili faceva emergere, infatti, che un cellulare – dopo un lungo periodo di inattività dello stesso (dal 30 marzo 1993 al 25 maggio 1993) – si era acceso ventiquattro ore prima dell’esplosione, alle ore 1,04 del 26 maggio 1993, effettuando una chiamata in uscita. Era quello in uso a Gaspare Spatuzza. Il suo cellulare risultava costantemente presente sotto determinati ponti radio in coincidenza del periodo interessato dalle stragi di Firenze, di Roma e di Milano. Il monitoraggio del traffico telefonico consentiva, altresì, di individuare la persona che aveva trasportato l’esplosivo servito per le stragi nelle tre città: Pietro Carra, nonché di ipotizzare il coinvolgimento nell’esecuzione delle stesse di Luigi Giacalone e di Cosimo Lo Nigro.

Le indagini condotte dalla Procura di Roma consentivano di identificare Antonio Scarano quale custode dell’esplosivo utilizzato per gli attentati nella capitale.

Fin dall’inizio emergeva un collegamento fra gli attentati di Roma, Firenze e Milano, successivamente ricondotti a una matrice unitaria e, nell’autunno del 1994, le indagini venivano riunite presso la Procura Distrettuale di Firenze, essendo la strage di via dei Georgofili il reato più grave, commesso per primo in ordine di tempo.

La svolta nelle investigazioni arrivava, nell’agosto 1995, con la decisione di collaborare con la giustizia dell’autotrasportatore Pietro Carra e, nel gennaio 1996, del basista romano Antonio Scarano, il quale forniva indicazioni utili sulla scelta degli obiettivi da colpire nelle tre città, riferendo di aver effettuato vari sopralluoghi insieme a Spatuzza e di essersi recato con lui nei luoghi delle città di Firenze e Roma dove le stragi si sono verificate.

Nei confronti dei responsabili condannati in via definitiva per gli episodi stragisti del biennio 1993-1994 sono state acquisite prove pesanti come macigni – in parte significativa costituite dalle confessioni e dalle accuse severamente verificate di undici esecutori dei delitti e, comunque, di partecipi agli stessi: Pietro Carra, Antonio Scarano, Vincenzo e Giuseppe Ferro, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, Emanuele Di Natale, Umberto Maniscalco, Giuseppe Monticciolo, Giovanni Brusca e, da ultimo, Gaspare Spatuzza. Quando, nel 2008, quest’ultimo iniziava a collaborare, il primo processo nei confronti di Leoluca Bagarella e di altri 22 imputati era già stato definito e il suo contributo consentiva di riaprire le indagini su Francesco Tagliavia, capo della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, e nei confronti dei fratelli Formoso.

Inoltre, va annoverato l’apporto di Vincenzo Sinacori, che fu coinvolto nella prima fase della strategia stragista, agli inizi del 1992, allorché, unitamente a un commando operativo, si era trasferito a Roma con l’obiettivo di individuare e colpire Giovanni Falcone e Maurizio Costanzo.

Le loro dichiarazioni, unitamente all’apporto di altri collaboratori di giustizia, e i significativi riscontri acquisiti hanno consentito di ricostruire, sia pur con un grado diverso di completezza, la fase preparatoria ed esecutiva, nonché di individuare alcuni mandanti intranei a cosa nostra e di giungere alla condanna con sentenza definitiva – a seguito di un triplice verdetto della Corte di Cassazione del 6 maggio 2002, del 18 gennaio 2016 e del 20 febbraio 2017) – di trentaquattro imputati, fra i quali, mafiosi di rango, per aver ideato, deliberato e partecipato alle stragi – e di due imputati per favoreggiamento , una verità che ha resistito ai tentativi di depistaggio.

La fase esecutiva dei sette episodi stragisti ha visto il ruolo centrale dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e, in particolare, di Giuseppe Graviano. Questi, infatti, oltre ad aver contribuito a ideare e a deliberare la strategia stragista è stato il più determinato, dopo l’arresto di Salvatore Riina del 15 gennaio 1993, nel voler proseguire la campagna stragista, insieme a Matteo Messina Denaro, con il quale ha vissuto in clandestinità durante il 1993, e a Leoluca Bagarella. Da latitante, ha diretto e organizzato le fasi preparatorie ed esecutive degli episodi stragisti, con l’impiego di numerosi uomini d’onore del proprio mandamento (e, segnatamente, delle famiglie di Brancaccio, di Corso dei Mille e di Roccella, che ne fanno parte, dunque legati da obblighi di fedeltà e di subordinazione) e, comunque, di soggetti allo stesso strettamente legati. Si tratta dei seguenti diciotto imputati condannati in via definitiva (vale a dire oltre la metà dei responsabili individuati), per tutti gli episodi stragisti, con le limitazioni e precisazioni specificate con riferimento a ciascuno:

1. Francesco Tagliavia, capo famiglia di Corso dei Mille (riconosciuto mandante della strage di Firenze), Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano e Cosimo Lo Nigro, inseriti nella medesima famiglia;

2. Antonino Mangano (capo della famiglia di Roccella), Salvatore Grigoli (uomo d’onore della famiglia di Roccella);

3. Cristofaro Cannella (riconosciuto esecutore delle stragi di via Fauro e di Firenze), Luigi Giacalone (esecutore di tutte le stragi, esclusa quella di Firenze), Salvatore Benigno, Giorgio Pizzo (riconosciuto esecutore delle sole stragi di Firenze e Formello) e Vittorio Tutino (riconosciuto esecutore della strage di Formello), tutti uomini d’onore della famiglia di Brancaccio);

4. Cosimo D’Amato (cugino di Lo Nigro), Pietro Carra (autotrasportatore che curava il trasporto degli esplosivi a Prato, a Roma e ad Arluno – paese poco a Nord di Milano – gravitava negli ambienti mafiosi di Brancaccio), Pietro Romeo (riconosciuto responsabile della strage di Formello), Gaspare Spatuzza (non uomo d’onore al momento dell’esecuzione delle stragi, che in seguito all’arresto dei Graviano, avvenuto il 27 gennaio 1994, ha ricoperto anche un ruolo di comando in seno al mandamento di Brancaccio);

5. Giovanni e Tommaso Formoso “uomini d’onore” di Misilmeri, rientrante nel mandamento di Belmonte Mezzagno, riconosciuti esecutori della strage di Milano;

6. Antonio Scarano , il quale, dopo aver lavorato in Germania per circa 12 anni ed essere tornato in Italia nel 1973, stabilendosi a Roma, prima a Centocelle, poi a Torremaura, tra l’altro, accompagnava Gaspare Spatuzza in via Veneto a Roma, al bar Doney, il 18 gennaio 1994, ove quest’ultimo incontrava Giuseppe Graviano, che gli dava l’input per eseguire l’attentato allo stadio Olimpico in via dei Gladiatori e, nella circostanza, gli riferiva: grazie a soggetti detentori di potere si erano presi il paese nelle mani.

Giuseppe Graviano, nell’interesse di Cosa nostra, ha rappresentato il cuore pulsante dello stragismo, contribuendo a elaborare le finalità e dosandone correlativamente le tempistiche di esecuzione (in particolare, quella dell’attentato allo stadio Olimpico eseguito il 23 gennaio 1994), e lo stesso ha trascorso parte della sua latitanza al Nord e, segnatamente, a Milano, ove veniva arrestato il 27 gennaio 1994.

Con riguardo alla strage di via dei Georgofili, che commemoriamo, sono state ricostruite le attività pianificate e attuate afferenti: alle modalità di acquisizione dell’esplosivo (in larga misura tritolo proveniente da ordigni bellici); al confezionamento della carica e alle modalità di collocazione della stessa nel Fiorino e a come è stato armato l’ordigno (si è praticato un foro nei fianchi dove veniva inserito il detonatore); al collocamento del furgone sull’obiettivo prescelto da parte di Francesco Giuliano e di Cosimo Lo Nigro; il peso (250 Kg con un margine di oscillazione del 15-20%) e l’innescamento della carica e la composizione della stessa.

La strage di via dei Georgofili si colloca nel più ampio progetto terroristico eversivo, ideato nell’autunno del 1991, sintetizzato dalle parole di Salvatore Riina: “bisogna prima fare la guerra prima di fare la pace”, riportate da Filippo Malvagna, che rappresentano un ragionamento politico. A seguito del nefasto esito del maxiprocesso, derivante dalla sentenza della Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992 e del conseguente insuccesso dei tentativi di condizionarne l’esito, cosa nostra ha colpito gli acerrimi nemici e i tradizionali referenti politico istituzionali. Con il ricatto a suon di bombe, attuato con otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente) e plurimi omicidi , i vertici del sodalizio hanno voluto fare una guerra allo Stato per piegarlo e indurlo a trattare, in un periodo di sfaldamento dei partiti di governo, falcidiati dalle indagini su Tangentopoli. E ciò al fine di creare un assetto di potere ritenuto funzionale alle proprie aspettative riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti, condizionando la politica legislativa del governo e del parlamento (ottenere vantaggi sul terreno carcerario – l’abolizione del carcere duro di cui all’art. 41 bis O. P. e dell’ergastolo – su quello del pentitismo e del sequestro dei beni) e riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti nel quadro di più trattative avviate da esponenti delle istituzioni o da loro emissari con appartenenti a cosa nostra.

L’ondata stragista tesa a colpire il patrimonio storico, artistico e

monumentale della Nazione prese le mosse da un’azione minatoria: la collocazione di una bomba da mortaio nei giardini di Boboli, annessi a palazzo Pitti, a Firenze, in epoca prossima al 5 ottobre 1992.

Il via libera alla nuova stagione delle stragi veniva deciso in una calda giornata di aprile del 1993, il 1 aprile, nel villino di Giuseppe Vasile a Santa Flavia, ove si teneva una riunione operativa, nel corso della quale tre boss di vertice di cosa nostra (Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano) ragionavano di bombe. Obiettivi insoliti venivano colpiti rispetto al tradizionale modo di operare di cosa nostra.

Sette stragi, che indussero il premier Carlo Azeglio Ciampi a dire di “aver temuto un colpo di Stato”, eseguite nel territorio italiano nell’arco di quattordici mesi, dal 23 maggio 1992 al 28 luglio ’93 (il riferimento è alle stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio; all’attentato a Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993, due giorni dopo l’insediamento del governo Ciampi, in cui erano inseriti per la prima volta in Italia, esponenti del PDS, l’ex partito comunista; alla strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993; alle stragi eseguite nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, allorché esplosero, quasi simultaneamente, tre autobombe: la prima a Milano, in via Palestro, che provocò cinque morti e una decina di feriti e distrusse il padiglione di arte contemporanea; la seconda, a Roma, danneggiò la basilica di San Giovanni in Laterano e il palazzo lateranense e provocò 14 feriti; la terza, ancora a Roma, procurò il ferimento di tre persone e gravi danni alla basilica di San Giorgio al Velabro. Una strage ulteriore allo stadio Olimpico di Roma, programmata per il gennaio 23 gennaio 94, con lo scopo di eliminare, con un’autobomba, decine di carabinieri, in servizio di ordine pubblico, non verificatasi per un malfunzionamento del telecomando.

Rimangono, invero, spunti investigativi e interrogativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione della strage. Vanno ricordati i seguenti a titolo esemplificativo.

Come mai Paolo Bellini s’incontrò con Antonino Gioè, mentre era in corso la fase preparatoria della strage di Capaci (alla quale contribuì attivamente) e perché istillò il proposito di colpire la Torre di Pisa?

Le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè il 29 luglio 1993, all’indomani degli attentati del 27-28 luglio 1993 sono rimaste non chiarite.

Cosa è accaduto in via Palestro dopo il 23 luglio 1993, allorché Spatuzza lasciava Milano e si recava a Roma? Da chi e come è stata trasportata la Fiat Uno in via Palestro?

Perché tutti gli episodi stragisti menzionati (tranne quello di via Palestro) sono stati rivendicati con la sigla Falange Armata?

E, più in generale, non sono state individuate compiutamente le ragioni dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino, eseguita a distanza di 57 giorni nella medesima città, a Palermo o, comunque, nelle immediate vicinanze, nella quale fu eseguita quella di Falcone, della moglie e dei tre agenti di scorta (Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani) e non si conosce il perché sia cessata il 23 gennaio 1994 la campagna stragista, dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico. Vi è poi il dato, suscettibile di approfondimento, per cui i vertici di cosa nostra ricevettero, nel corso del 1992, un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa, che, nella loro prospettiva suonava come una conferma che la loro attività stragista fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali . Il che induce a chiedersi come sia possibile che lo stragista Matteo Messina Denaro continui a essere latitante dopo un trentennio, nonostante le investigazioni volte a catturarlo? Una permanenza in libertà che non consente di ritenere finita l’era dei corleonesi, tanto più che sono stati pianificati attentati nei confronti di rappresentanti delle istituzioni in anni recenti.

Se il nostro sistema normativo si è rivelato estremamente efficace e sofisticato, come riconosciuto in ogni sede internazionale, consentendo un’azione di contrasto funzionale a raffreddare l’agire d’impronta stragista e a contrastare l’evoluzione dell’agire delle varie strutture mafiose radicate nel nostro Paese, è un dato di fatto che, dal 2008, le collaborazioni qualitativamente significative in seno a cosa nostra si sono inaridite e nessuno dei condannati per le stragi del triennio 92-94 ha trovato conveniente la collaborazione, preferendo morire in carcere o sperare nell’ottenimento dei benefici carcerari (permessi premio, liberazione condizionale, lavoro esterno al carcere, semilibertà), divenuti di recente possibili a seguito degli interventi della Corte Costituzionale, tant’è che alcuni di loro hanno concretamente ottenuto permessi da fruire fuori dal carcere. Ciò che oggi è importante è evitare che gli uomini d’onore percepiscano che la spinta investigativa proiettata a ricercare la verità non si è arenata e che lo Stato nel suo insieme considera di fondamentale importanza la collaborazione con la giustizia, che non si intenda smantellare gli strumenti esistenti, ma potenziarli e che il contrasto alla criminalità organizzata è in vetta alle priorità politico-legislative-giudiziarie, non solo in occasione delle commemorazioni pervase da retorica celebrativa. In questa prospettiva diventa importante rendere più vantaggiosa la defezione dai sodalizi rispetto alla militanza degli uomini di vertice dell’organizzazione e di chi è a conoscenza di quanto è accaduto in quegli anni, potenziando l’efficienza assistenziale del servizio di protezione, rendendo concreto il reinserimento sociale con la possibilità per il collaboratore di intraprendere un lavoro onesto o di percepire gli assegni pensionistici come per tutti gli altri cittadini senza ingiustificati ritardi, rimodulando la normativa esistente in modo che preveda tangibili ulteriori vantaggi per chi si affida con serietà allo Stato, colmando il vuoto normativo che deriverà dall’ordinanza n. 97 del 15 aprile 2021 della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo se il Parlamento non interverrà nel termine stabilito, tenendo presente che vi mafiosi stragisti, anche detenuti, che continuano a coltivare propositi di vendetta verso chi li ha accusati o li ha fatti arrestare e che attendono di ritornare in libertà per attuare le loro ritorsioni.

A distanza di 29 anni dalla strage di via dei Georgofili se possiamo ritenere di avere accertato, con il pieno rispetto delle garanzie degli imputati condannati, una parte davvero significativa della verità attorno a quel delitto, non possiamo trascurare l’impegno a continuare nella ricerca della stessa, nel rigido rispetto del segreto investigativo, evitando cedimenti e cercando di impedire l’erosione degli strumenti di contrasto che i vertici di cosa nostra volevano far eliminare ricattando lo Stato con il tritolo. Un tributo che si deve al vivere democratico, alla memoria delle vittime, al dolore dei loro cari e dei sopravvissuti. È importante non dimenticare mai ciò che è accaduto e mantenere un impegno costante nel contrasto, fino a quando continueranno a esistere cosa nostra e le altre strutture mafiose, per non essere costretti a rivivere quel tragico passato.

*L’autore è procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Sorgente: Ventinove anni fa la strage di via dei Georgofili a Firenze. Cosa c’è oltre Cosa nostra – L’Espresso

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