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29 March 2024
0 6 minuti 2 anni

Il caso. Quel che allarma è che le redazioni delle testate e le dimore di chi fa le inchieste andrebbero considerate tabernacoli della religione laica scritta nell’articolo 21 della Carta

Dopo un periodo di apparente bonaccia, anche perché l’attenzione dei fini dicitori sembrava dedita a sfogliare la margherita delle ospitate nel talk, la rubrica coraggiosa e controcorrente Report è tornata nelle spire della censura. In serata, per fortuna, è arrivato un contrordine.

Malgrado una media dell’otto per cento di share, al di sopra delle trasmissioni omologhe, Report è sottoposta ad esami permanenti. Di censura si trattava, chiamiamola con il suo nome. Infatti, come sottolinea l’interpretazione corrente offerta dalla Corte europea della convenzione dei diritti dell’uomo (articolo 10), la lesione delle prerogative del diritto di cronaca raffredda l’esercizio della libertà e induce all’autocensura. In un universo popolato ormai largamente dal precariato, atti autoritari tesi a colpire l’autonomia professionale dei giornalisti sono davvero pericolosissimi.

In gergo, si parla di chilling effect per evocare proprio il rischio che le minacciate sanzioni fungano da freno a raccontare la realtà senza veli. Con il massimo rispetto per la magistratura, ha suscitato vera sorpresa (nonché inquietudine) la decisione assunta dalla Dia e infine ritirata dalla direzione distrettuale antimafia, di disporre perquisizioni nella redazione di Report e nell’abitazione di Paolo Mondani, autore quest’ultimo del servizio sulle presunte connivenze tra mafia ed estrema destra eversiva. Nel corso della trasmissione è stato adombrato un ruolo specifico svolto dalla criminalità nella stessa tragica vicenda della strage del 1992 di Capaci.

Non si tratta qui, ovviamente, di dare giudizi di merito sull’inchiesta. Report ha una struttura di lavoro seria e collaudata, del resto. Va stigmatizzata, piuttosto, la gravità dell’azione coercitiva avviata, ancorché ripensata: le redazioni delle testate e le dimore di chi fa le inchieste sono tabernacoli della religione laica scritta e sancita dall’articolo 21 della costituzione italiana.

Indubbiamente, come hanno sostenuto nella conferenza stampa convocata in tempo reale di fronte alla sede (via Teulada di Roma) dove si confeziona Report la Federazione della stampa, l’Ordine dei Giornalisti e il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico radiotelevisivo, è urgente che il parlamento vari una normativa adeguata sulla tutela del segreto e delle fonti.

Al di là di ipotetiche future leggi, vi è già ora – però- una giurisprudenza piuttosto chiara al riguardo, in Italia e in Europa. Nel caso in questione, poi, vi è un’ulteriore anomalia. L’autore e la redazione non sono neppure oggetto, infatti, di indagine. Dunque, come è possibile che si mettano in moto delle perquisizioni? Forse, si sostiene, per risalire a qualche fuga di notizia. Ecco: il buon giornalista non corre dietro alle dicerie, bensì cerca le notizie e le divulga per il bene di cittadine e cittadini. Insomma, è una brutta pagina che, si spera, possa chiudersi subito.

Report è un riferimento importante per chi non si accontenta delle strisciate del pensiero prevalente e vuole capire ciò che succede. Per illuminare la scena di oggi è indispensabile ricostruire meticolosamente le premesse storiche degli avvenimenti. Scavare nelle pieghe delle narrazioni ufficiali è decisivo per la tenuta dell’edificio democratico. Molte pagine dei delitti e delle stragi sono tuttora ignote. Certamente, il rovistare nelle stanze buie dei poteri formali o paralleli richiede coraggio e determinazione. Non stiamo parlando di gossip o fake, bensì di immersioni in zone dove chi entra si espone agli attacchi o persino alla violenza fisica.

In fondo, la magistratura dovrebbe guardare con animo positivo a quanti mettono la faccia e la testa nelle aree proibite: dove vivono magari i mostri o le menti raffinatissime cui si riferiva Giovanni Falcone. Se le perquisizioni, poi, assumessero l’aspetto di una sorta di avviso ai naviganti, al di là delle intenzioni, i timori crescerebbero. Tra l’altro, tra i motivi della caduta in basso (al cinquattottesimo posto, con la perdita di diciassette posizioni rispetto all’anno precedente) dell’Italia nel World Press Freedom Index vi è la conclamata tendenza alla censura più o meno mascherata.

Non siamo arrivati al livello di repressione perpetrato ai danni di Julian Assange. E ci mancherebbe pure. Tuttavia, la scossa elettrica che investe il diritto all’informazione comincia a produrre i suoi effetti. Sono gocce che scavano e lasciano sul campo feriti e ferite. Ci auguriamo che l’azienda tuteli adeguatamente una trasmissione così prestigiosa, premiata dall’indice interno di valutazione qualitativa. Si ascoltino le organizzazioni sindacali e le numerose voci che si sono alzate a difesa del programma. Si risponda, se vi sono argomenti, nel merito.

La clava danneggia l’immagine di chi la brandisce, prima ancora di offendere le vittime.

 

Sorgente: ilmanifesto.it

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