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Per anni si sono succedute svariate Riforme del lavoro all’insegna della vulgata neoliberista per la quale ogni aiuto alle imprese avrebbe avuto influssi positivi sulla dinamica salariale o occupazionale.

A forza di sgravi lo Stato ha ridotto il gettito fiscale e alla fine sono diventati inevitabili i tagli al welfare. Contemporaneamente il movimento operaio ha subito arretramenti e sconfitte: dall’innalzamento dell’età pensionabile alla riscrittura dell’art 18 della Legge 300\70, dalla perdita del potere di acquisto a quello contrattuale, dalla precarietà lavorativa alla distruzione del modello contrattuale e non ultimi gli sgravi contributivi per le imprese che assumono donne e giovani.

L’argomento non è di secondaria rilevanza in un paese come l’Italia nel quale l’occupazione femminile e giovanile risulta tra le più basse dei paesi Ue, siamo la nazione nella quale il part time è quasi sempre una scelta obbligata e non volontaria, in cui i contratti precari sono divenuti la regola e non l’eccezione.

Se volessimo aprire un confronto pubblico sull’occupazione femminile e giovanile dovremmo mettere in campo ben altre considerazioni ossia

 

  • un welfare inclusivo e potenziato (il che comporterebbe scelte importanti come indirizzare una quota maggiore della ricchezza prodotta allo stato sociale a discapito dei capitali e delle imprese, l’esatto contrario di quanto stanno facendo da anni)
  • l’innalzamento dei salari e il recupero del potere di acquisto e contrattuale
  • la introduzione del salario minimo
  • una legge statale ancora più ristrettiva in materia di tempo determinato e contratti flessibili.
  • la fine di ogni deroga ai contratti nazionali
  • la cancellazione di gran parte dei contratti oggi esistenti con paga oraria inferiore a una certa cifra.

La precarizzazione del lavoro  viene sovente presentata come una questione di genere, da qui il femminismo mainstream, ma resta soprattutto una questione di classe perché a farne le spese sono donne e giovani generazioni (ma anche i più anziani) che pagheranno un prezzo elevato al momento del pensionamento (pochi contributi e assegno da fame) costringendo lo Stato ad adottare misure di sostegno all’assegno previdenziale che saranno assai onerose dopo avere regalato soldi pubblici alle imprese.

 

E qui entra in gioco la questione previdenziale che il mondo sindacale ha ridotto all’innalzamento dell’età pensionabile dimenticando che una riforma progressiva dovrebbe partire non solo dalla riduzione dell’età lavorativa ma anche dal ripristino del sistema di calcolo dei contributi su base retributiva, con aumento dei costi a carico dello Stato. E innalzando i salari oggi si avrebbero benefici maggiori anche per le pensioni di domani oltre a garantire condizioni di vita dignitose e non precarie.

 

Nel corso degli anni è invece prevalsa la logica di contenere la spesa previdenziale con la motivazione di una riforma del welfare a favore delle giovani generazioni, un luogo comune da confutare e combattere perché i precari odierni, malpagati e sfruttati, saranno i pensionati di domani in perenne miseria e difficoltà economica

 

Se continuiamo a credere che detassando il lavoro giovanile o femminile o detassando i costi a carico delle imprese produrremo occupazione cadremo nell’equivoco di scambiare lavoro con precarietà, sfruttamento con occupazione, dignità salariale con precarizzazione delle nostre esistenze

 

A cura della redazione pisana di Lotta Continua

 

Da: https://delegati-lavoratori-indipendenti-pisa.blogspot.com

 

Sorgente: Lotta Continua Info

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