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L’emergenza dell’emergenza

Foto: Marco Merlini
ROBERTA LISI

  • I pronto soccorso di tutta Italia sono in crisi perché il Servizio sanitario nazionale è in crisi. Il sistema va rilanciato, non consegnato al privato. Occorre un piano straordinario di assunzioni, lo sblocco dei tetti di spesa per il personale, l’aumento del fondo ad hoc

Asalire agli onori della cronaca, ne avrebbe volentieri fatto a meno, è stato il Pronto Soccorso dell’ospedale Cardarelli di Napoli, ma in realtà l’emergenza o il disastro non riguarda solo quell’ospedale e nemmeno quella città. La verità è che in tutto il Paese il servizio di emergenza urgenza è profondamente in crisi. O meglio, come spiega il dottor Bruno Zecca, dirigente medico del P. S. del Policlinico di Milano “L’emergenza dei pronto soccorso è l’esplicitazione dello stato di profonda crisi in cui versa il Servizio Sanitario Nazionale”.

Ma come, la pandemia non ci ha insegnato che il diritto alla salute va assolutamente garantito potenziando il servizio pubblico? Certamente a parole e proclama certo, nella realtà le cose non solo non vanno meglio, ma rispetto a due anni fa sono peggiorate e il rischio e che vada sempre peggio. Cerchiamo di capire partendo proprio dall’“emergenza”.

Secondo le stime della Società italiana di medicina d’emergenza e urgenza al momento mancano 4.200 medici nei pronto soccorso italiani. A questi, si devono aggiungere i circa 600 che nei primi mesi del 2022 hanno lasciato il servizio andando a svolgere altrove la propria attività di medico. E il trend è di circa 100 abbandoni al mese. Perché? Perché le condizioni di lavoro sono tali che chi può lascia. Turni massacranti, sono costretti a svolgere mansioni che non gli appartengono, nessun riconoscimento professionale, nessun riconoscimento economico e nessuna possibilità di carriera. E su di loro si scarica pure lo scontento di chi non riesce a trovare le risposte che si aspetta.

“Come molti sanno ormai il sistema di emergenza e pronto soccorso vive una crisi molto profonda, che viene da molto lontano, è precedente la pandemia e con la pandemia è semplicemente scoppiata”. A parlare è il dottor Giuseppe Visone, il medico del P.S. del Cardarelli che ha detto basta a una situazione divenuta insopportabile: “Nessuno vuole più fare questo lavoro perché è stato portato a un tale punto di fatica, di responsabilità e d’invivibilità che chi ci sta, scappa”. Al momento P. S. del nosocomio partenopeo contra 25 medici su una pianta organica di 45 e il prossimo mese dovrebbero andare via altri 3 operatori.

Questi sono i numeri del disastro annunciato che si traduce con lo stazionamento per giorni dei pazienti sulle barelle che non ricevono le cure che dovrebbero avere. E il concorso aperto per reclutare personale è andato deserto.  “Ho 63 anni, aggiunge Visone, quando ho cominciato a lavorare per me vincere un concorso in ospedale è stato come estrarre il biglietto fortunato della lotteria. Entrare a tempo indeterminato era il miraggio di tutti. Quando te ne saresti mai andato? Oggi invece per una programmazione, diciamo, fallimentare per essere buoni, i medici sono in un numero esiguo, hanno un ventaglio di concorsi e di possibilità lavorative enorme, nessuno sceglie di venire in pronto soccorso”.

E se dalla Campania risaliamo la penisola le cose non vanno meglio. Il racconto del dottor Andrea Pavone, delegato sindacale della Fp Cgil medici dell’Ast di Bergamo ovest e dirigente medico del nosocomio, ha dell’incredibile: “Dalla fine del 2019, ben il 40% dei turni del Pronto Soccorso erano coperti da una cooperativa di servizi medici, quindi il servizio era stato esternalizzato. All’Inizio del 2020 si è deciso di chiudere l’esternalizzazione senza avere pronto un piano B. Il piano B è consistito nello sguarnire paurosamente di personale il pronto soccorso che a oggi ha soltanto 5 dirigenti medici strutturati dedicati, il che lo renderebbe anche borderline per i requisiti minimi necessari a mantenere l’accreditamento come Dea di primo livello da parte del servizio sanitario regionale, e il resto dei turni sono stati coperti da personale equipollente in servizio presso altre unità operative”.

Questo significa che chirurghi e internisti sono stati comandanti a coprire i turni in emergenza lasciando scoperti i propri reparti che a loro volta sono stati coperti da urologi, cardiologi ecc, che così hanno rallentato l’espletamento del lavoro ordinario di reparti e ambulatori. Non solo, la preoccupazione del dottor Pavone, come del dottor Viscione, è che l’iperaffaticamento di chi è chiamato a coprire le guardie dell’emergenza quando poi torna al proprio reparto, rischia di esser pagata dai pazienti.

“Che sappia io – aggiunge Pavone, la Regione non ha un piano. Semplicemente sta cavalcando il disagio, che non è dissimile da quello nei confronti della medicina generale, per aprire le porte all’iniziativa privata. Siamo al paradosso che i medici abbandona il servizio pubblico e poi vengono accolti come salvatori della patria quando dal privato suppliscono le inefficienze del pubblico. Faccio un solo esempio.  È di qualche giorno fa l’iniziativa del Centro medico Sant’Agostino d’istituire una guardia medica privata. E così la gente ha la doppia beffa di doversi pagare una guardia medica che normalmente dovrebbe essere pubblica, e però poi deve comunque rivolgersi a una struttura pubblica per farsi prescrivere farmaci e diagnostica perché il privato perché non può farlo. Tutto questo mentre la guardia medica pubblica sta facendo i salti mortali per sopperire al fatto che ben 7000 cittadini e cittadine sono senza il medico di medicina generale”.

Le ragioni di questa emergenza, ci dice Bruno Zecca, dirigente medico del Pronto soccorso del Policlinico di Milano e responsabile della Fp Cgil medici della Lombardia, sono almeno tre: “Innanzitutto la carenza di personale dei dipartimenti di emergenza e dei pronto soccorso. È un lavoro che non vuole più fare nessuno, è troppo stressante e non viene riconosciuto dal punto di vista professionale. In secondo luogo, la inesistenza o quasi della sanità di territorio fa si che chiunque abbia un problema di salute viene da noi perché, magari in ritardo, ma una risposta comunque la trova e magari a un costo economico inferiore di quando spenderebbe pagando il ticket se dopo lunghe liste di attese riuscisse a fare la radiografia e le analisi di cui ha bisogno. Infine, la terza ragione, è la mancanza di posti letto negli ospedali per cui i pazienti che hanno bisogno di ricovero non trovano accoglienza nei reparti che dovrebbero seguirli e stazionano per giorni e giorni da noi. E così noi non riusciamo a fare bene il nostro lavoro e loro non sempre ricevono le cure migliori di cui avrebbero bisogno”.

“Se è possibile in Puglia le cose vanno ancora peggio, afferma Antonio Mazzarella, da alcuni decenni lavoro al Pronto Soccorso del Policlinico di Bari e responsabile Fp Cgil medici della regione dei due mari, noi veniamo da anni di piano di rientro con il risultato che abbiamo perso 22 ospedali e 2200 posti letto ma non è stato costruito praticamente nulla sul territorio. E siamo arrivati al punto che i pazienti stazionano in P. S. anche otto giorni e che il personale, gli infermieri, a volte non riescono nemmeno a dar loro da mangiare”. “Abbiamo fatto un calcolo, aggiunge Mazzarella, solo nella nostra regione mancano circa 1500 medici la maggior parte dei quali proprio nell’emergenza e urgenza. Se davvero vogliamo intervenire occorre togliere il blocco di spesa per il personale, lanciare un piano di assunzioni serio, ricostruire la sanità di territorio in relazione stretta con gli ospedali e un unico contratto di dipendenza per tutti i medici compresi quelli di medicina generale”.

Ed ecco qui che la situazione dell’emergenza e urgenza non è altro che la parte emersa della crisi profonda del sistema sanitario che viene da assai lontano. Basti pensare che tra blocco del tour over e tagli mancano all’appello migliaia di medici, circa 20mila, e quasi 50mila infermieri e sono oltre 8000 i posti letti tagliati nei decenni scorsi. Medici e infermieri che se pur si volessero assumere non si trovano per una politica universitaria miope e irresponsabile. E se è vero che negli ultimi due anni le borse di specializzazione sono notevolmente aumentate, è altrettanto vero che ben il 30% di quelle in emergenza e urgenza resta scoperta per mancanza di candidati. E se è vero che il Pnrr porterà a un potenziamento della sanità di territorio la domanda che regioni e sindacati pongono con insistenza al governo è: una volta costruite le case e gli ospedali di comunità con i fondi europei chi li farà funzionare visto che non ci sono le risorse per assumere il personale?

Dice Raffaele Donini, assessore alla Sanità dell’Emilia Romagna e coordinatore degli assessori alla salute della Conferenza delle Regioni: “Per le spese militari c’è un significativo aumento del budget da parte del Governo, ma abbiamo 4 miliardi di spese Covid non rimborsate dallo Stato alle regioni che le hanno sostenute, così non riusciamo a programmare. Nel Def si è passati dal 6,4% di spese sanitarie sul Pil nel 2019 al 7,4% del 2020, torneremo al 7 nel 2022 per arretrare al 6,3 nel 2024”.

La preoccupazione comune ai nostri interlocutori è che la crisi del Ssn, che non si risolve esclusivamente con i progetti del Pnrr sia perché con quelle risorse non si possono pagare i dipendenti, sia perché prima di vedere gli effetti della costruzione di case e ospedali di comunità passerà del tempo, porti a sempre maggior spazio al privato. Ma l’articolo 32 della Costituzione afferma che salute è un diritto di cittadinanza e deve essere lo Stato a garantirlo.

Sorgente: L’emergenza dell’emergenza – Collettiva

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