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Sarebbe auspicabile, ma non è probabile che l’annuncio della conquista russa di ciò che resta di Mariupol possa preludere alla fine della guerra all’Ucraina. Questa è stata fin dall’inizio la cinica promessa degli apologeti della resa: date una preda a Putin e si fermerà. Non c’è da contarci molto. Neanche lo zar può chiamare pace il deserto in cui ha trasformato la città martire dell’Ucraina.

La (presunta) caduta di Mariupol, dove gli ultimi resistenti nell’acciaieria non si sono comunque ancora arresi, può essere un trofeo buono per la parata del 9 maggio. Ma non è abbastanza per la Storia. Non vale da sola le decine di migliaia di soldati russi morti, l’umiliazione della nave ammiraglia affondata, il ritiro forzato dal nord del Paese, l’imbarazzante performance di quello che è considerato uno degli eserciti più forti del mondo, l’isolamento politico ed economico della Russia. Non dopo aver evocato una nuova Grande Guerra Patriottica contro il rinascente nazismo.

L’intero Donbass, quello sì, il polmone minerario e industriale del Paese invaso, ricco di gas, ferro, carbone, nickel, terre rare (e magari anche la costa del Mar Nero a est della Crimea), sarebbe un bottino accettabile, dopo il fallimento del piano A, e cioè il rovesciamento del governo di Zelensky e il controllo dell’intera Ucraina, sul modello coloniale sperimentato in Bielorussia. Ma questo obiettivo è tutt’altro che facile da raggiungere, e non solo sul piano militare.

La determinazione di Kiev di non rinunciare alla sovranità e integrità territoriale, la sua elevata capacità di combattere, e la scarsa simpatia, a dir poco, di cui i russi godono ormai perfino nelle zone russofone dell’est, fanno pensare che questa guerra non finirà con un trattato, un ammainabandiera, una cerimonia solenne, come accade nei conflitti dove c’è un vincitore e un vinto. Più probabile una soluzione contrastata ancora per anni, magari anche combattuta per anni in una serie di guerre, a bassa intensità nella migliore delle ipotesi, come quella che del resto si trascinava nel Donbass già da otto anni.

D’altra parte è altrettanto improbabile che l’Ucraina possa riprendersi tutto ciò che era suo prima del 24 febbraio, per non dire prima del 2014. Nessuno dei due contendenti può insomma considerare oggi realistico un successo pieno.

In un altro mondo, in un altro secolo in cui le guerre non erano totali e finalizzate alla distruzione del nemico, ma piuttosto un prolungamento armato della diplomazia, si farebbe un accordo. In questo mondo e in questo secolo, e comunque finché c’è Putin al potere a Mosca, è più prevedibile uno stato di conflitto prolungato. Il fattore tempo diventerà in questo caso decisivo. Ed è lecito chiedersi chi dei due campi potrà avvantaggiarsene.

Sul lungo periodo, le democrazie sono più deboli. Dipendono dal consenso. E l’opinione pubblica, testata ogni istante, è volubile, si stanca facilmente, si annoia, si assuefà. Soprattutto non sopporta per troppo tempo sacrifici fatti per altri; specialmente nella nostra Europa, così disabituata ormai al sacrificio bellico da rabbrividire al solo pensiero di un grado di temperatura in meno nel prossimo inverno. Per sintetizzare questa fragilità, gli autori di un lungo saggio su Foreign Affairs (Liana Fix e Michael Kimmage) citano una frase di Alexis de Tocqueville: «Non c’è guerra prolungata che non finisca col mettere in pericolo la libertà di una nazione democratica».

Per render chiara la portata del problema, basti pensare che tra due anni, nel 2024, si voterà tanto negli Stati Uniti quanto — a Dio piacendo — in Ucraina. E mentre Putin può sentirsi ragionevolmente sicuro di essere ancora al potere per quella data, la libertà del voto in democrazia potrebbe invece riservare sorprese a Washington, magari rilanciando il vecchio amico di Vladimir, Donald Trump; e perfino a Kiev, se le cose per l’«eroe Zelensky» dovessero andar peggio nei prossimi anni. Lo zar si potrebbe trovare così senza più contendenti, e avrebbe mano libera.

D’altra parte le società aperte dell’Occidente hanno dalla loro un’incredibile vitalità economica, scienza e finanza, una superiorità tecnologica schiacciante, anche nel campo militare, un presente digitale e un futuro di intelligenza artificiale cui molto difficilmente la Russia, Paese in declino economico e demografico, potrà tener testa (basti fare un raffronto tra il vaccino Pfizer e quello Sputnik).

Le guerre lunghe, come la Guerra Fredda, l’Occidente di solito le vince. Ma il danno che nel frattempo verrebbe provocato alla stabilità mondiale, dall’approvvigionamento energetico dell’Europa a quello alimentare dell’Africa, rendono il fattore tempo comunque pericoloso. Per ridurne il rischio, non basterà perciò contenere e forse nemmeno respingere sul fronte le forze armate russe, ma servirà conquistarsi nel mondo più alleati di quanti ne siano stati trovati finora.

Questa guerra non deve diventare una specie di partita «the West vs. the rest», l’Occidente contro tutti. È invece una guerra in difesa dell’indipendenza di ogni Stato sovrano, per impedire che le frontiere tornino ad essere cambiate con la forza, come accadeva nel Novecento, e per non darla vinta ai tiranni che non esitano a sacrificare decine di migliaia di vite umane per prendersi un bottino. E se in questi due mesi Usa ed Europa sono stati determinati, efficaci e pronti nel difendere il sacrosanto diritto ad esistere dell’Ucraina, c’è forse ora da allargare il fronte delle nazioni che temono l’instabilità anche più di quanto non temano Putin.

La guerra della diplomazia, nel XXI secolo e in un mondo policentrico, può offrire armi ancora non utilizzate nello scontro con l’espansionismo russo e la sua deriva autocratica.

 

Sorgente: Le nuove alleanze necessarie- Corriere.it

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