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Il 27 aprile del 1937 muore a Roma Antonio Gramsci, “uno dei più originali pensatori dei nostri tempi, il più grande degli italiani dell’epoca nostra” nelle parole di Palmiro Togliatti

“La sintesi più completa dello scienziato scrupoloso, dell’uomo d’azione, del capo rivoluzionario”, nella penna di Giuseppe Di Vittorio. “Capo di un Partito operaio – aggiungeva il futuro segretario generale della Cgil – Gramsci portava un interesse appassionato alla situazione dei contadini, dei braccianti, degli artigiani, dei piccoli commercianti, dei tecnici e degli intellettuali, di tutti gli strati del nostro popolo (…) Il fascismo aveva compreso quale grande capo aveva in Antonio Gramsci il popolo italiano, e glielo rapì, assassinandolo gradualmente, freddamente, in oltre dieci anni di lento e sistematico supplizio (…)”.

“Vivere significa partecipare e non essere indifferenti a quello che succede”, scriveva l’11 febbraio 1917 Gramsci in un articolo destinato a rimanere nella storia. E la sua vita, il suo agire non contraddiranno mai la sua parola.

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

L’8 novembre del 1926 il fondatore del Partito comunista, in violazione dell’immunità parlamentare, viene arrestato a Roma e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. È accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato, incitamento all’odio di classe. Sarà condannato a vent’anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione.

“Carissima mamma – scriveva nel maggio del 1928 – non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione”.

Una triste profezia che si avvererà nove anni dopo. Antonio Gramsci, infatti, morirà in una clinica romana il 27 aprile 1937. Aveva formalmente riacquistato piena libertà da pochi giorni.

“È morto Gramsci”, annunciavano i fogli comunisti e antifascisti in esilio, mentre Mussolini sul suo giornale deriderà il defunto sottolineando come fosse morto da uomo libero “in una clinica di lusso”.

Gramsci is dead, Gramsci è morto – scriverà Guido Liguori – recitava il titolo del libro di qualche anno fa di Richard Day, teorico statunitense del comunismo-anarchismo di estrema sinistra. Voleva dire che era morta la sua teoria dell’egemonia e più in generale il suo pensiero politico, in favore di una teoria immediatistica e di una azione inevitabilmente e dichiaratamente parziale degli attori sociali marginalizzati e divisi. E invece Gramsci è vivo. È il saggista italiano più diffuso nel mondo, in tutte le lingue e tutti i continenti. Gramsci è vivo e lotta, lotterebbe insieme a noi, se noi sapessimo anche minimamente essere degni del suo esempio di vita e del suo pensiero rivoluzionario”.

 

Sorgente: Gramsci è morto. No, Gramsci è vivo e lotta – Collettiva

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