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di Federico Fubini

Nel 1919 un giovane economista di nome John Maynard Keynes si trovò della delegazione di Londra alla conferenza di Versailles, che doveva stabilire i termini della pace dopo la Grande guerra.

Per mesi Keynes studiò i leader dell’epoca da vicino e dopo la firma del trattato scrisse un pamphlet in cui formulava una previsione: quegli accordi avrebbero portato a un’altra guerra.

John Maynard Keynes
John Maynard Keynes

«Le conseguenze economiche della pace» diventò subito un best seller, anche perché presentava un’idea ben precisa: coprire la Germania di debiti per indebolirla avrebbe generato solo sete di rivalsa nella nazione umiliata. Seguì la repubblica di Weimar, con la devastazione del marco, l’iperinflazione e decine milioni di poveri che sostennero Adolf Hitler.

Un secolo dopo, dobbiamo chiederci se abbiamo imparato la lezione di Keynes. C’è stata una Versailles 2.0 sulle spoglie dell’Unione sovietica, che abbia gettato i semi del revanchismo e dell’aggressione di oggi? Non è una domanda di interesse puramente storico: da essa dipende il modo in cui usciremo da questa tragedia, proprio come la testimonianza di Keynes spinse le potenze vincitrici del 1945 a non ripetere gli errori di un quarto di secolo prima.

E la risposta, a prima vista, è no: dopo il 1991 non ci fu una «pace iniqua».

Non nel senso inteso da Vladimir Putin, quando sostiene che sull’espansione della Nato la Russia «fu ingannata dall’impero delle menzogne».

Forse però la storia è più ricca di sfumature di quante ne percepisca il dittatore del Cremlino e per capirlo il «Corriere» lo ha chiesto a due protagonisti di allora, Jeffrey Sachs e Andrei Shleifer.

Il primo già allora celebre economista e leader dello Harvard Institute for International Development, l’agenzia dell’ateneo di Cambridge, Massachusetts che nei primi anni ‘90 ottenne (per assegnazione diretta, senza gara) contratti per molte decine di milioni di dollari dell’amministrazione Clinton per agire da consulente del Cremlino guidando la Russia fuori dal comunismo.

Il secondo, Shleifer, russo ma fuggito negli Stati Uniti durante l’adolescenza, all’epoca fu coinvolto da Sachs nel programma di riforma post-sovietico e oggi è l’economista più citato al mondo, con cattedra a Harvard.

A Mosca nei primissimi anni ’90, Sachs e Shleifer si divisero i compiti. Sachs avrebbe lavorato sull’eredità del debito sovietico e aiutato il presidente russo Boris Yeltsin a gestire l’economia, consigliando una terapia choc di liberalizzazione istantanea e totale dei prezzi e degli scambi finanziari con il resto del mondo.

Shleifer avrebbe fatto lo stesso con un big bang di privatizzazioni delle aziende pubbliche.

Entrambi lavorarono a stretto contatto con i riformatori del Cremlino, Egor Gaidar e Anatoly Chubais, mentre il loro collaboratore di Harvard Jonathan Hay stese personalmente molti dei decreti presidenziali con cui Eltsin cercò di archiviare settant’anni di comunismo nel volgere di tredici mesi a partire dal novembre del 1991.

Senza alcun processo democratico, senza che nessuno chiedesse ai russi cosa volevano e in quanto tempo volevano realizzare i cambiamenti.
Senza darsi cura di costruire prima un diritto civile e commerciale, dei tribunali, una piazza finanziaria o l’embrione di una rete di welfare in grado di accompagnare la terapia choc.

Il «Corriere» di recente ha chiesto a Shleifer di esprimersi sulla situazione in Russia ma l’economista ha declinato («non mi interesso realmente di questi temi»).

È possibile che dietro la sua riluttanza ci sia anche il desiderio di non rivangare una pagina controversa della sua vita: un giudice distrettuale americano nel 2004 dichiarò lui, sua moglie e Jonathan Hay responsabili di «frode» e conflitti d’interesse perché nei primi anni ‘90 avevano investito fortemente nei programmi di privatizzazione in Russia mentre guidavano la mano di Eltsin nel progettarli ed eseguirli.

Per chiudere la controversia a carico di Shleifer, l’università di Harvard versò 26,5 milioni al dipartimento della Giustizia di Washington, licenziò in tronco il suo braccio destro Hay e chiuse per sempre l’Istitute for International Development.

Jeffrey Sachs nel 2012 (Afp)
Jeffrey Sachs nel 2012 (Afp)

 

 

Non c’è invece alcun dubbio sull’integrità personale di Jeffrey Sachs, ma l’economista da molto tempo non parla degli eventi della transizione post-sovietica.

Aveva accettato di rispondere alle domande del «Corriere» ma, dopo averle viste, non si è più fatto vivo.

Eppure sono le stesse che gravano sulla Russia di oggi.
Il fallimento delle riforme liberiste di Yeltsin ha aperto la strada alla dittatura di Putin? Non sarebbe stato più prudente costruire una costituzione, istituzioni democratiche e un quadro legale più solido, prima di avviare il Paese nella «shock therapy» che avrebbe dovuto proiettarlo di colpo nel capitalismo? Non furono commessi errori in quella drammatica transizione, anche da parte degli economisti delle grandi università americane sbarcati a Mosca per guidare la mano del governo?

Katharina Pistor della Columbia University allora era una ricercatrice a Mosca a stretto contatto con Sachs e Shleifer ed è convinta che le radici della Russia dittatoriale e aggressiva di oggi siano anche nelle scelte di trent’anni fa. «Loro credevano che l’efficienza dei mercati avrebbe salvato il Paese, Sachs ci credeva davvero ed era difficile fargli ascoltare argomenti diversi – dice –. Bisognava essere chiusi nell’ideologia liberista o vivere a diecimila metri dal suolo per credere che tutto sarebbe andato bene».

Alla prova dei fatti invece il big bang progettato nei laboratori economici di Cambridge portò al naufragio della stagione di Eltsin e spalancò le porte alla restaurazione autoritaria, statalista e revanscista di Putin.

La scelta sostenuta da Jeffrey Sachs di lasciare il vasto debito estero dell’Unione sovietica tutto a carico della sola Russia, senza offrirle qualcosa di simile a un piano Marshall, schiacciò il Paese e lo portò al terribile default del 1998.

La liberalizzazione istantanea dei prezzi di per sé non generò un mercato efficiente, ma un’occasione d’oro per i profittatori: moltiplicò di molte volte il costo della vita, distrusse il rublo, creò in poche settimane decine di milioni di poveri. A quel punto le ondate di privatizzazione si risolsero in un saccheggio delle risorse dello Stato ad opera dei pochi vicini al potere che disponevano ancora di risorse.

«Trasformare la Russia era difficilissimo, una missione molto incerta dall’inizio. Ma il momento è stato sprecato e chi consigliò i russi porta una parte di responsabilità», dice oggi Katharina Pistor.

Il trauma fu così profondo che nel ’93 il parlamento si rifiutò di riassegnare a Yeltsin nuovi poteri speciali di approvare altre riforme per decreto. La crisi politica che ne seguì fu risolta dall’assalto dei tank del Cremlino alla Casa Bianca, lasciando una scia di 147 morti, il precedente di un presidente senza contropoteri, un profondo senso di umiliazione nazionale e di risentimento.

«Vorrei chiedere perdono per i sogni che non si sono realizzati – avrebbe detto Yeltsin alla cerimonia di passaggio dei poteri con Putin anni dopo –. Credevo in quei sogni. Credevo che avremmo coperto la distanza in un balzo. Non lo abbiamo fatto».

 

Yeltsin lascia il Cremlino, dopo aver annunciato a sorpresa con un messaggio tv l’intenzione di dimettersi 6 mesi prima della scadenza del suo termine. È il 31 dicembre 1999: accanto a lui c’è Vladimir Putin, che ne prende il posto. (Ap)
Yeltsin lascia il Cremlino, dopo aver annunciato a sorpresa con un messaggio tv l’intenzione di dimettersi 6 mesi prima della scadenza del suo termine. È il 31 dicembre 1999: accanto a lui c’è Vladimir Putin, che ne prende il posto. (Ap)

Sorgente: Dove abbiamo sbagliato con Putin? L’ascesa dello zar e gli errori dei grandi economisti di Harvard

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