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(Marcello Veneziani) – Ma chi è stato veramente Pier Paolo Pasolini e perché se ne parla ininterrottamente da più di mezzo secolo, quando era in vita e poi dopo la morte? Il 5 marzo è il centenario della sua nascita ma non è l’occasione per riparlare di lui, perché in realtà non si è mai smesso di farlo.

Come poeta, scrisse poesie che meritano di essere ricordate, anche se le più belle a mio parere sono quelle in friulano; ma non è tra i più grandi del Novecento. Come narratore scrisse romanzi importanti, che sono documenti di vita e realtà, nel suo lato più oscuro, ma non è tra i più grandi del Novecento. Come cineasta realizzò film di cui ancora si parla, soprattutto per l’onda di trasgressione e di scandalo che li accompagnarono; ma non fu, a mio sommesso parere, uno dei più grandi del Novecento. Film importanti, significativi documenti, ad alta densità simbolica, ma esiterei a definirli capolavori (non li amo, alcuni li detesto).

Perché allora Pasolini è l’autore italiano più vivo e più controverso, se non del Novecento, certo della sua seconda metà, che non esito a definire minore? Perché Pasolini è la somma di tutto questo, ed è straordinario scrittore civile di denuncia, paradigma dell’intellettuale militante e disorganico, scontento e apocalittico, capace di essere trasgressivo anche rispetto alle trasgressioni in cui militava. Pasolini fu personaggio, nella vita, nelle polemiche, nei gesti, sul set, sulla scena, in tv, anche quando odiava la tv, presente in prima fila in Rai e sui giornaloni della borghesia imprenditoriale. Fu quello che altrove si chiama public figure; ma lo fu pure il suo amico Moravia, che fu più solido di lui come narratore, almeno in alcune sue opere. E nacque quindici anni prima di lui e sopravvisse altri quindici anni dopo di lui. Ma alla sua morte Moravia fu accantonato, fu subito deposto nel passato.

Invece, Pasolini è ancora vivo anche se parlava, vestiva, giocava a pallone, esisteva in bianco e nero, ossia si avverte la sua appartenenza a un modo ormai passato; che si faceva poi passato remoto quando evocava la civiltà contadina, il cristianesimo delle madri, la povertà ancestrale del Friuli e di tante zone del sud; quando ripudiava la modernità e si rifugiava nei borghi antichi, negli altari, nei capolavori del passato, nella madre terra. Fu nemico del patriottismo, che per lui s’identificava col padre, militare di carriera; ma fu amante e profeta del matriottismo, perché amava la terra, le radici, le origini, le tradizioni, il legame ombelicale con tutto ciò che risaliva alle madri. Ho scritto tanto su Pasolini, e non tornerò a dire le cose che ho sostenuto sulla sua visione del mondo, il suo populismo arcaico, il suo antimodernismo radicale, la sua critica del ’68 e del ruolo che esso ebbe nel passaggio dalla società cristiano-borghese alla società cinica-neoborghese. Eppoi i suoi dialoghi con i fascisti, persino le sue poesie dedicate a loro, pur detestando egli il fascismo, soprattutto nelle incarnazioni più recenti, nel capitalismo, nella Dc e nello stesso antifascismo.

Pasolini lamentò che l’Italia non avesse avuto una Grande Destra, con una cultura adeguata. Ma la Grande Destra per Pasolini non era la solita pappa liberale, moderna, atlantica, antifascista che invocano sempre i nemici di ogni destra reale; ma la Destra della Tradizione, fieramente antimoderna, rurale, popolare, religiosa. Quella che dovrebbe dire, con Pasolini “Difendi, conserva, prega”. Il nuovo potere, diceva Pasolini, “non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia”. E denunciava l’omologazione che coinvolge tutti, sessantottini e fascisti inclusi, col loro “fascismo nominale e artificiale”. E aggiungeva: “ci siamo comportati coi fascisti razzisticamente…frettolosamente e spietatamente. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. Magari erano solo adolescenti”. E a Italo Calvino che si augurava di non incontrare mai un neofascista, replicò che è “una bestemmia, perché al contrario dovremmo far di tutto per incontrarli”. Pasolini criticò l’antifascismo archeologico (era il ’74, figuriamoci oggi) e lo definì stupido o “presuntuoso e in malafede perché finge di dar battaglia a un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo”.

Di Pasolini amo, oltre che le poesie in friulano, gli scritti civili, che poi si ritrovano in buona parte negli Scritti corsari, nelle Lettere luterane e nelle Belle bandiere. E tante analisi, tante denunce. Fu rivoluzionario e reazionario, comunista e populista, osceno e devoto ma sempre a modo suo; non riuscì ad essere progressista, liberale e nemmeno libertario. Fu contro la tv, contro l’aborto, contro i figli di papà in corteo, contro l’industrializzazione.

La sua omosessualità, benché abbia avuto un ruolo centrale nella sua vita, in fondo non gli aggiunge e non gli toglie granché; e non fu il suo tratto più originale, considerando quanti scrittori e poeti del novecento lo sono stati. Ma Pasolini visse l’omosessualità come scandalo e passione, peccato e irruenza; non amò mai il mondo gay e le manifestazioni per esibire la propria omosessualità, detestò associare le scelte sessuali a chissà quale progresso; patì perfino rispetto alla madre e ai suoi valori religiosi la sua condizione di omosessuale, senza peraltro mai rinunciarvi, anche con esperienze oltre i limiti. Fu l’AntiD’Annunzio del secondo novecento, in un senso speculare e invertito rispetto all’Italia del primo novecento che si rispecchiava nel suo Vate. Pasolini non ha smesso di parlarci anche da morto. Non è attuale, ma vivo.

Sorgente: Perché Pasolini è ancora vivo – infosannio – notizie online

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