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A Herat il racconto di madri vedove che fanno le domestiche per 50 centesimi al giorno e non possono sfamare i bimbi: cedere una ragazzina «rende» meno di duemila euro. Ma i taleban puniscono i ladri

Francesca Ghirardelli

Con il corrispettivo di cinquanta centesimi di euro in valuta locale, la signora Marjan di Herat è riuscita ad acquistare un sacchetto di ceci per cena. Una volta a casa, però, la bombola che usava per cucinare si è esaurita, niente più gas. Senza un soldo in tasca, non potendo sostituirla, Marjan ha detto ai suoi bambini di riposare un po’, prima di sedersi a mangiare. Li avrebbe chiamati lei, quando fosse stato tutto pronto. «Quella notte si sono svegliati due volte per la fame, e in entrambi casi la donna ha ripetuto che la cena non era ancora cotta. Il mattino seguente ha venduto i ceci crudi e ha comprato pane per la colazione».

Lo racconta Shirin, coordinatrice di un’associazione di aiuto alla popolazione civile, attiva da 20 anni a Herat. Conosciamo lei, Marjan e una terza donna, la signora Zarmina, da remoto, in una video chiamata. I loro nomi non sono quelli reali, perché «in Afghanistan ora è così per chi lavora con la società civile, siamo in pericolo in ogni momento». Shirin gira il telefono e mostra dalla finestra il giardino del nuovo vicino, un taleban. L’attivista ha riunito le due donne perché raccontino le loro storie, più eloquenti e concrete delle statistiche, già spaventose, di Nazioni Unite e Oms su questo inverno afghano di fame. «Marjan, vedova con sei figli, è una donna orgogliosa, abituata a risolvere i problemi da sé» precisa Shirin. Fino a tre anni fa il figlio maggiore, muratore in Iran, inviava denaro a casa. Poi, un infortunio in cantiere gli ha spaccato la spina dorsale e l’ha lasciato disabile. Marjan fa la domestica a ore. «Dall’arrivo dei taleban, però, i servizi nelle case non sono più molto richiesti, con la crisi in pochi spendono soldi per il personale di servizio», racconta. Così, quando il figlio più piccolo ha avuto bisogno di cure, non ha trovato altra soluzione: ha deciso di vendere un rene. «Pagano dai 200.000 Afghani in su, cioè da 1.900 euro. Dipende dal compratore e da chi vende, dallo stato di salute. Al momento degli esami medici, però, ho scoperto che il mio rene non era in buone condizioni». Così, l’affare è saltato. «Prima della caduta del governo, i casi di traffico d’organi erano rari» spiega Shirin. «È la povertà che spinge a ricorrervi. A un certo punto si sono viste code fuori dagli ospedali per registrarsi all’espianto. Così i taleban sono intervenuti, dichiarandolo illegale. Ora la pratica si esercita in maniera più discreta, ma resta diffusa».

Con una ventina di uffici in vari villaggi, l’associazione di Shirin in passato lavorava al fianco delle autorità locali per il sostegno di donne e bambini. «Prima di agosto avevamo libertà d’azione, ora il campo è limitato. E mancano fondi. Non passa giorno senza che donne in lacrime ci chiedano aiuto». Fa capire come, senza lavoro né sostegni umanitari, non restino alternative. «Dall’elemosina non si racimola nulla. Nemmeno rubare è un’opzione, perché con i taleban si va incontro ad amputazione delle mani ed esecuzioni. Oggi un uomo è stato impiccato a un incrocio in centro, all’aperto, in modo che tutti assistessero. Altri tre ladri sono stati messi alla forca ieri».

Alla sua destra siede la Zarmina, 26 anni, un marito deceduto di cancro e cinque figli. «Anche io lavoro come domestica, per 50, 100 o 200 Afghani al giorno (cioè da 50 centesimi a 2 euro). Ma dall’autunno non c’è più molta richiesta». Le sue risorse si sono esaurite subito: un mese dopo la vittoria dei taleban ha tentato di “cedere” la figlia di 8 anni a una famiglia che non riusciva ad avere bambini. «Erano pronti a pagare 200.000 Afghani, meno di 2.000 euro, ma i parenti di mio marito si sono opposti », dice e in video mostra i suoi figli, indicando la bambina da cedere. Chi compra minori, spiega Shirin, «ha diversi scopi: il matrimonio, l’adozione, ma anche lo sfruttamento sessuale».

Così, nell’Afghanistan dei nuovi padroni, senza una rete familiare solida, un’occupazione né risparmi, per sopravvivere e tenere in vita i figli, non resta che contare letteralmente sul proprio corpo. O cedere ad altri il sangue del proprio sangue.

Sorgente: «Noi madri vedove, per fame vendiamo i figli e gli organi»

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