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Venticinque anni fa l’Italia portava alla sbarra il criminale di guerra Erich Priebke, responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Così venne scritta la Storia della nostra Norimberga

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Venticinque anni fa, l’8 maggio del 1996 si apriva a Roma, di fronte a un tribunale militare, il processo nei confronti di Erich Priebke, ex capitano delle SS corresponsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il massacro nazista di 335 innocenti trucidati, il 24 marzo del 1944, nel segreto di una cava alle porte di Roma, come rappresaglia per l’attacco partigiano in via Rasella a una compagnia di un reggimento di SS sudtirolesi. Quel processo, la storia dell’uomo che ne fu il protagonista, il suo destino, da vivo e da morto, hanno segnato profondamente la coscienza e la storia dell’Italia repubblicana. Priebke, scoperto nel 1994 da un cronista della tv americana Abc ai piedi delle Ande e qui poi intervistato da Repubblica, non avrebbe mai rinnegato, né espresso pentimento per la partecipazione alla strage, diventando un simulacro di fede nazista scaduta e tuttavia pronta a riaccendersi in fiammate residuali. Ma Priebke sarebbe stato anche la prima e ultima Norimberga di un Paese, il nostro, che a differenza della Germania non aveva conosciuto nel primo dopoguerra un processo di denazificazione e defascistizzazione. Questo spiegherà le convulsioni di quel giudizio in cui gli effetti del primo verdetto di assoluzione saranno annullati con un provvedimento di legge di segno opposto e contrario in una notte di agosto che l’Italia non dimenticherà. Sulla spinta di un sentimento e della memoria di una comunità, quella ebraica, che costringerà l’applicazione della legge a ricomporsi con la forza della memoria. Rinnovando così il monito di Primo Levi: conoscere per non dimenticare, comprendere affinché mai più si ripeta. Torniamo a raccontarvi quella storia con le firme e i ricordi di chi ne fu testimone.
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Il nazista che visse cento anni

La biografia di Erich Priebke è lunga cento anni, perché un secolo è durata la vita di questo militare dell’esercito tedesco, criminale di guerra per responsabilità riconosciuta negli eccidi della Seconda guerra mondiale perpetuati nella città di Roma. Era nato nel 1913 a Hennigsdolf, piccolo centro prussiano a nord ovest di Berlino. Rimasto orfano molto presto, cresciuto da uno zio, lavora da cameriere vagando per l’Europa (Berlino, Londra, San Remo) prima di aderire al Partito nazional socialista dei lavoratori tedeschi. Un’adesione nel 1933, l’anno cruciale dell’incendio del Reichstag, della presa del potere di Hitler e del salto di qualità nella progressiva nazificazione della società tedesca. Convinto sostenitore della nuova Germania, si iscrive alla Gestapo, la polizia segreta del Terzo Reich. Lo scoppio del conflitto si avvicina inesorabile, l’aggressione della Polonia è alle porte. La figura del giovane Priebke scompare, s’inabissa per tornare qualche tempo dopo, legandosi indissolubilmente al massacro delle Fosse Ardeatine.

Dopo la svolta dell’8 settembre 1943, ha inizio l’occupazione nazista, l’inverno più lungo per la città di Roma. Il nastro da riavvolgere porta lontano, nel cuore della Seconda guerra mondiale. Era lui, impeccabile con la divisa tirata a lucido, nel pomeriggio assolato del 24 marzo 1944 a chiamare i condannati a gruppi di cinque. Gridava i nomi in un italiano sicuro e con meticolosa attenzione segnava a matita una crocetta per quelli che erano scesi verso l’interno delle grotte, incontro alla morte. Una lunga chiama preludio a un massacro efferato. La sua voce era l’ultima cosa che i prigionieri ascoltavano, mentre la lista dei 335 caduti si completava di nomi e storie così diverse: generali e straccivendoli, operai e intellettuali, commercianti e artigiani, un prete e 75 ebrei; monarchici e azionisti, liberali e comunisti, e tanti aggiunti alla rinfusa, per raggiungere il numero stabilito confutando così la logica terribile della rappresaglia in stile nazista. Il giorno precedente un attacco partigiano in via Rasella aveva colpito l’undicesima Compagnia del terzo Battaglione dello SS Polizei Regiment Bozen causando 33 morti. Uno per dieci era la ferrea logica dell’occupante. Per un tedesco caduto sarebbero passati per le armi dieci italiani, oppositori delle leggi di guerra del Terzo Reich.

Il carretto dove venne nascosto l'ordigno e gli istanti successivi all'esplosione in via Rasella il 23 marzo 1944
Il carretto dove venne nascosto l’ordigno e gli istanti successivi all’esplosione in via Rasella il 23 marzo 1944 

In anni successivi, il nesso tra l’azione partigiana e la rappresaglia nazista viene proposto come paradigma di lettura sulla Resistenza e i suoi errori. Si arrivò perfino a sostenere che sui muri di Roma fossero comparsi manifesti che chiedevano ai partigiani di consegnarsi preventivamente alle autorità naziste. Con fatica e tenacia la verità si è fatta strada, la logica degli eventi ha prevalso nelle ricostruzioni della storiografia più qualificata e nelle aule di giustizia che hanno affrontato la vicenda. Con la necessaria distinzione tra il giudice e lo storico da più parti è stato affermato che la ritorsione delle Ardeatine fu condotta rapidamente e in segreto. Ebbe inizio 22 ore dopo l’attentato e nessuno seppe nulla, tranne i protagonisti coinvolti: esecutori, mandanti e condannati a morte. Il 25 marzo verso mezzogiorno (quando uscivano i quotidiani in tempo di coprifuoco) un comunicato dell’agenzia di stampa ufficiale Stefani annunciò che “Il comando tedesco ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani siano fucilati”. E con lapidaria precisione concludeva: “Quest’ordine è già stato eseguito” (A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, 1999). La notizia fa il giro della città a cose fatte. Priebke sa tutto, conosce i dettagli, è a Roma da tempo, ben prima dell’8 settembre del ’43, sembra che abbia iniziato come attaché di polizia e interprete nelle missioni romane del Fuhrer.

Il comunicato dell’agenzia Stefani, 25 marzo 1944
Il comunicato dell’agenzia Stefani, 25 marzo 1944 

Con l’ordine eseguito alle spalle, a guerra conclusa si rifugia in Argentina, a San Carlos di Bariloche, sotto l’ombra delle Ande. Una vita in disparte con moglie e figli fino a quando – il 6 maggio 1994 – un cronista della rete televisiva statunitense Abc News non lo scova a seguito di una soffiata del centro Simon Wiesenthal di Los Angeles. Il giornalista Sam Donaldson lo segue e lo incalza, gli chiede delle sue giornate romane, di un massacro lontano, lo accusa di essere un criminale di guerra. Priebke nega, poi ammette di aver eseguito degli ordini “contro chi meritava la morte”. L’Abc News non è la sola a raggiungere Bariloche.

L’intervista di Emanuela Audisio del 9 maggio 1994

 

Ai piedi delle Ande

Bariloche era distante: duemila chilometri da Buenos Aires, venti ore di treno, ventidue di pullman, quattro ore di strada di montagna dalla città più vicina. Una località di montagna dove anche la tennista Gabriela Sabatini andava a sciare. Herr Priebke a Bariloche si trovava bene: c’era il lago Nahuel Huapi, le vette con la neve, i salmoni da pescare, i cani San Bernardo, e a destra il Cile.

Bariloche, Argentina
 

Un posto di confine, con varie vie di fuga. “La Svizzera delle Ande”, per le agenzie turistiche. Proprio lì, in quella che ora sembrava una Bassa Baviera argentina a Walt Disney, era venuta l’idea per Bambi, un cervo dalla coda bianca. Era maggio, pioveva. Erico Priebke, come si faceva chiamare, era sull’elenco telefonico. Abitava in via 24 Settembre, al numero 167, all’ultimo piano (quarto) di una palazzina che aveva affittato ad una casa di cura. Rispose al campanello: “Italiana? Ah entri, quanti ricordi”. La sua casa: tre stanzette modeste, un vecchio divano, nulla di lussuoso. Erico aveva 81 anni, era alto, camminava ancora dritto. Sua moglie Alicia, 82 anni, occhi azzurri anche lei, invece si era incurvata, sotto una cascata di capelli bianchi. A Bariloche stavano bene: tetti d’ardesia, chalet con i gerani, salumerie con specialità tedesche in vetrina, birrerie dal nome ‘Vecchia Monaco’, cioccolato e apfelstrudel, edicole con dei giornali di Francoforte. E soprattutto vecchi camerati che non si pentivano. Ex nazisti? Senza ex. Vergognarsi? E perché mai? Priebke era direttore della scuola ‘ Primo Capraro’, dove non si parlava male di Hitler e dove i film cattivi, quelli sui campi di concentramento, non venivano proiettati.

Erich Priebke e sua moglie Alicia Stoll in Argentina
 

A Bariloche era morto Antoon Maes, pittore in Argentina, ma capo della propaganda hitleriana in Belgio. A Bariloche viveva Reinhardt Kopps sotto il nome di Juan Maler, ufficiale nazista orgoglioso, che in Germania firmava libri e opuscoli che inneggiavano all’eliminazione di ebrei e turchi. Era stato lui a segnalare a Sam Donaldson, della rete televisiva Abc News, la presenza di Priebke a Bariloche. Si riunivano spesso questi nazisti in pensione, in feste della birra nostalgiche, e cantavano. Anzi inneggiavano, che male c’era? A Priebke piaceva parlare di Badoglio, del duce, si vantava di aver aiutato Skorzeny a liberare Mussolini a Campo Imperatore, di aver messo in contatto nell’agosto del ’43 Edda e Galeazzo Ciano con Hitler. Anzi, lui al Führer aveva anche fatto da traduttore a Roma. “Ho bellissimi ricordi della città e soprattutto di un ristorante con terrazza al Foro dove a noi ufficiali ci trattavano benissimo. Il vino rosso era ottimo”. Per lui, Roma era una cena con vista. Repubblica per caso aveva la sede da quelle parti? E al reporter americano non aveva mica negato di essere Priebke. “Non mi sono mai nascosto, ho sempre viaggiato con il mio nome, a Berlino e per turismo in Italia. Ho anche provato a chiedere un incontro con Herbert Kappler nel carcere di Gaeta, ma senza fortuna, e quando andai a trovarlo a casa la moglie mi disse che era appena morto”. Già, sfortuna. 

Lo scoop di Abc News

 

Il 6 maggio 1994 il giornalista Sam Donaldson di Abc News colse di sorpresa Erich Priebke dopo il proprio turno di lavoro nella scuola “Primo Capraro” di San Carlos de Bariloche, in Argentina, mentre stava entrando nella sua macchina. Grazie a questa intervista Priebke fu estradato in Italia nel novembre del 1995.
Immagini tratte da Abc News

Raccontava che dopo la guerra si era nascosto al nord, ma gli era toccato lavorare, una gran fatica. “Nel ’48 un padre francescano, mi disse: per la Germania non posso fare niente, ma se vi accontentate dell’Argentina posso aiutarvi. Accettai. Ero a Vipiteno dove sotto falso nome mi ero rifugiato con moglie e due figli piccoli”. Per caso dall’Italia avevamo portato una bottiglia di rosso?  L’avrebbe molto apprezzato, magari la prossima volta. Era partito da Genova con una nave italiana, ma prima era stato ribattezzato. “Vendemmo tutta la nostra roba per pagare i biglietti, ma non potevo usare la mia identità, così chiesi al Vaticano, che mi diede una mano tramite il vescovo austriaco Alois Hudal mentre prima era stato padre Pfeiffer, tedesco, ad aiutarmi, lo conoscevo perché a Roma si era molto adoperato per chiedere clemenza per i prigionieri. Il mio nuovo passaporto era bianco con le insegne della Croce Rossa, però bisogna dire che il Vaticano aiutava tutti, anche gli ebrei, non solo noi tedeschi”. Arrivò il momento della domanda sulle Fosse Ardeatine: potevamo chiedere? “Ma certo, querida”. Aveva sparato? “Certo, ma non ricordo con precisione. Una di sicuro, forse due, anche tre. Ma che importanza aveva?  Ero un ufficiale, mica un contabile. E quello era un ordine. Kappler da inflessibile costrinse anche il cuciniere a fare fuoco.  Fucilammo cinque uomini in più. Uno sbaglio, ma tanto erano tutti terroristi”. No, non lo erano. Il giornalista della tv argentina, appena arrivato, gli chiese se poteva mimare il colpo della pistola. Nessuna timidezza, fece quel gesto, con il braccio piegato all’ingiù, ma non capiva: perché interessava tanto? Lui aveva solo eseguito un ordine. “Non erano nemmeno nostri i soldati morti in via Rasella, ma del Sudtirolo, più italiani che tedeschi”. Serie B, insomma, non veri ariani. Nessuna macchia di sangue sulla sua memoria, rimorsi nemmeno. “È un peccato”. Cosa? L’aver obbedito, non essersi sottratto? “Ma no, non avere più tempo per andare a pesca di salmoni”.

La casa di Priebke piantonata dalla polizia locale. Bariloche, 19 novembre 1995
La casa di Priebke piantonata dalla polizia locale. Bariloche, 19 novembre 1995 

Giorni dopo, quando arrivò la richiesta di estradizione e il mandato di arresto Priebke diventò meno ciarliero, ma non perse la sua superbia. Riconosceva di aver sbagliato a lasciarsi intervistare. “Mia moglie e mio figlio mi hanno rimproverato, sono stato un incosciente, anzi uno stupido. Roma è una bella città, ma tornarci alla mia età da prigioniero non mi va. Come avvocato ho scelto Pedro Bianchi, grande penalista, difensore di molti militari argentini tra cui il generale Videla, che ha fatto assolvere. Mi ha rassicurato: gli italiani sono pasticcioni, faranno qualche errore nella procedura legale. Anche qui c’è molta approssimazione, al commissariato quando mi hanno preso le impronte digitali, mi hanno macchiato, a noi tedeschi non sarebbe successo”. Già, l’inefficienza latina. Era stizzoso e si compiaceva: “I poliziotti erano sorpresi, mi dicevano, ma come, è qui da quarant’anni e ora vogliono arrestarla?”.  Lui era a posto, non c’era niente di scomodo nel suo passato e nel suo presente. “Perché si sono fissati con me? E non con tutti gli altri che vivono qui? La colpa è stata dei partigiani, non mia”. Non si capacitava dell’ostinazione: perché l’Italia voleva ricordare?
 

Senza rimorso

Erich Priebke non aveva cambiato idea, né chiesto scusa del suo terribile passato. C’è voluto del tempo, molto tempo per ritrovare quell’uomo, sfilarlo dalla quotidianità di una vita normale in un piccolo paese dell’Argentina per condurlo di fronte alle responsabilità che solo la storia riesce a riproporre. Giulia Spizzichino, un’ebrea romana segnata dalle deportazioni e dalla strage delle Ardeatine, parte in missione per fare pressione sulle autorità argentine: “Ma chi ero io quel giorno di maggio del 1994 in cui dovevo mettere tutti i miei ricordi in una valigia e partire verso l’ignoto? Era lì che aveva trascorso la sua latitanza Erich Priebke, fin lì avrei dovuto portare la mia angoscia e il mio desiderio di giustizia” (G. Spizzichino con Roberto Ricciardi, La farfalla impazzita. Dalle Fosse Ardeatine al processo Priebke, 2013).

Giulia Spizzichino e il giudice Agostino Quistelli, durante un'udienza del processo Priebke
Giulia Spizzichino e il giudice Agostino Quistelli, durante un’udienza del processo Priebke 

Maggio 1994, dunque il ministro della giustizia Alfredo Biondi, guardasigilli nel governo di Silvio Berlusconi, chiede l’immediata estradizione di Priebke. Mentre stava cercando degli atti sul processo a Kappler – svoltosi a Roma nel 1948, Kappler venne condannato all’ergastolo, altri cinque gerarchi prosciolti – per supportare giuridicamente la richiesta di estradizione, Antonio Intelisano, procuratore militare, aveva trovato, nascosti in un mobile a palazzo Cesi, un immobile cinquecentesco in via degli Acquasparta, allora sede della procura generale militare, 695 fascicoli aperti nel dopoguerra nei confronti dei vari gerarchi nazisti. Giacevano lì dimenticati da tempo, stipati dentro quello che verrà definito come “l’armadio della vergogna”. In 415 fascicoli erano riportati i nomi dei colpevoli. Nel fascicolo sulle Fosse Ardeatine c’era anche il nome di Priebke, che un cancelliere frettoloso aveva trascritto come Priek. “Grazie a quell’armadio – scrive Franco Giustolisi ne L’armadio della vergogna – si è goduto cinquant’anni di libertà”. La Corte suprema argentina concede l’estradizione il 2 novembre 1995. Priebke giunge in Italia il 21 novembre e, una volta atterrato a Roma, viene rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea. Il processo si apre a Roma l’8 maggio 1996. Nel cuore del quartiere Prati, a un chilometro e mezzo in linea d’aria dal Vaticano. L’ex capitano delle SS Erich Priebke, che di Kappler a Roma era stato il vice, ha 83 anni. Sono passati 52 anni dall’eccidio simbolo della ferocia dell’occupazione nazifascista a Roma e Priebke è chiamato a rispondere per concorso in violenza con omicidio continuato. A sostenere l’accusa – davanti al tribunale militare presieduto dal giudice Agostino Quistelli – è il procuratore capo della Procura militare, Antonino Intelisano.

 

Alla sbarra 

Il processo ha una grossa risonanza mondiale. Arrivano giornalisti da tutto il mondo. L’aula è troppo piccola per contenerli tutti, un dettaglio che rivela, col senno di poi, la sottovalutazione del caso da parte delle autorità militari. Priebke, impassibile, silenzioso, assiste disciplinato a tutte le udienze, tranne una, il 18 luglio, quando si sottopone a una visita medica. Ogni mattina, davanti all’ingresso del tribunale militare, Settimio Di Porto, 71 anni, titolare di una valigeria a Porta San Paolo, si presenta con un cartello: “Voglio che ci sia giustizia”, vi è scritto.  È talmente assiduo, che una mattina, quando si presenta in ritardo, il maresciallo lo accoglierà con un “A’ Di Porto, e ‘ndo te eri cacciato oggi?”. È figlio di deportati ad Auschwitz: il padre Giuseppe Di Porto, a 18 anni, la mamma, Marisa, ne aveva quattordici. Suo nonno, il pasticcere Giacomo Di Porto, era uno delle 335 vittime alle Fosse Ardeatine. Anche uno zio dell’allora moglie, Manuele Moscardi, era stato ucciso nelle medesime circostanze. “Andavo lì per dare voce a mia madre che non ne aveva mai voluto parlare. Abbiamo avuto un’infanzia stupenda, e quando mio fratello gli chiese cos’era quel numero tatuato sul braccio mio padre rispose che era il numero di telefono. Per il resto non se ne parlava, specie le donne. Ne hanno cominciato a parlare da vecchi, coi nipoti. Fino a quel momento ciò che era successo nei campi di concentramento rappresentava un tabù. Mio padre era ambulante, andava ogni giorno al mercato di piazza Vittorio e la domenica mattina a Porta Portese. Era un lavoratore pazzesco. L’unico svago che si concedeva era la partita della Roma all’Olimpico, la domenica pomeriggio. I miei genitori riversarono sul lavoro la loro sofferenza”.

Anche Riccardo Pacifici, 57 anni, già guida della comunità ebraica di Roma, ricorda la rimozione di una memoria ritenuta troppo dolorosa. “Nessuno ne voleva parlare. Ricordo che quando per la prima volta, nell’estate del 1990, organizzammo il primo viaggio in un campo di concentramento, a Birkenau, alcuni sopravvissuti si rifiutarono di partecipare: “Non ce la sentiamo”, spiegarono. Antonio Intelisano oggi ha 78 anni. Seduto nel salotto della sua casa a Roma, parla in modo preciso di quel processo.  Fu lui a raggiungere Priebke a Bariloche, dopo l’arresto delle autorità argentine, nell’agosto del 1995. “Quando me lo trovai davanti mi ricordò la banalità del male descritta da Hannah Arendt su Eichmann”. Una trasferta transoceanica infruttuosa, perché Priebke si avvalse della facoltà di non rispondere. Ma, argomenta adesso il magistrato, non fu un viaggio vano, perché costrinse il governo argentino a interrogarsi sulla propria storia di paese che nel dopoguerra aveva accolto un gran numero di nazisti in fuga dai processi. “Gli argentini superarono il divieto di estradizione e alla fine Priebke venne mandato in Italia”.

Da sinistra Settimio Di Porto, Riccardo Pacifici e Antonio Intelisano 
Da sinistra Settimio Di Porto, Riccardo Pacifici e Antonio Intelisano  

Sin da subito in tanti in aula protestano per il comportamento tenuto dal presidente Quistelli, che minimizza l’importanza delle testimonianze. Le parti civili e il pm Intelisano ne chiedono circa un centinaio. Il tribunale ne ammette una decina per le parti civili, altrettanti per l’accusa, quattro per la difesa. Alcuni dei partigiani che erano stati torturati nella sede della Sicherheitspolizei, la polizia di sicurezza dalla quale dipendeva la Gestapo, in via Tasso, erano ancora vivi. Due di loro, Felice Napoli e Riccardo Mancini, racconteranno di essere stati torturati direttamente da Priebke, nel primi mesi del 1944. Dirà Riccardo Mancini nell’udienza del 15 maggio 1996: “Avevo 21 anni, quando venni catturato nel gennaio 1944. Mi dissero: Parla, perché se non lo fai troveremo il sistema per farti parlare noi. A un certo punto questo essere (indica Priebke) fa un passo avanti e mi dà due schiaffoni. Io mi paro istintivamente, avevo ventun anni. Mi hanno legato con le mani alla maniglia della porta dell’ufficio. Priebke ha continuato a menarmi, mi ha rotto il naso, ho ancora il segno, non respiro da una parte da cinquant’anni”. Racconterà Felice Napoli, nell’udienza del 27 maggio 1996: “Avevo 24 anni. Il 9 aprile 1944 mi hanno portato in via Tasso dal consolato tedesco, mi hanno torturato, e il 10, quasi in fin di vita, in barella, mi hanno ricoverato all’infermeria del carcere al reparto del tribunale militare tedesco. Questo signore (Napoli si alza in piedi e fa un passo verso Priebke) alla seconda tortura, con i piedi (Napoli emula il gesto di Priebke che scaccia con la scarpa): mi faceva: “Parla Napoli, parla Napoli”, mentre io ero pieno di sangue” 

Per non dimenticare. Il videoreportage

 

A Roma, in via Tasso: oggi Museo storico della Liberazione, allora sede di interrogatori e torture delle SS dove era impiegato Erich Priebke al servizio di Herbert Kappler. Con Modestino De Angelis, figlio di una delle 335 vittime delle Fosse Ardeatine. Servizio di Francesco Giovannetti e Concetto Vecchio

Un capitano di vascello della marina tedesca, Carl Schreiber, il direttore dell’archivio di stato delle SS, in aula sostiene che i nazisti potevano disubbidire agli ordini superiori, e che nessuno era mai stato punito per non aver voluto partecipare alle rappresaglie contro i civili. È un colpo alla difesa di Priebke. Viene rintracciato in Svizzera Karl Hass, un ex maggiore delle SS dato per morto, che accusava Priebke di essere il responsabile dell’organizzazione dell’eccidio, insieme a Kappler. Aveva rilasciato alcune interviste nelle quali sosteneva che Priebke aveva deciso di aggiungere cinque civili in più nella lista, che secondo gli ordini di Hitler doveva essere di 330: dieci per ogni tedesco ucciso dai gappisti in via Rasella. Ma il giorno prima dell’udienza in cui avrebbe dovuto testimoniare Hass tenta la fuga, cade dalla finestra dell’albergo e si rompe il bacino. Viene ricoverato al Celio, dove il tribunale si trasferisce per un’udienza. Testimonia in barella, minimizzando il ruolo di Priebke. Il 17 giugno il procuratore Intelisano presenta una istanza di ricusazione contro Quistelli, e il giudice a latere Rocchi, impegnato nel processo contro Priebke. “Sono venuto a conoscenza sia da articoli di stampa, che dalle affermazioni fatte da qualche avvocato in udienza di una notizia di reato, e di fatti di notevole gravità che presuppongono l’astensione della Corte”. “Non era mai successo a memoria di giudice”, ricorda adesso Intelisano che un pubblico ministero ricusasse la Corte. Un’analoga ricusazione viene presentata dalla parte civile, Giuseppe Nobili, Quistelli ammetterà di avere detto, nel corso di una conversazione privata avuta tra il novembre e il dicembre 1995 con il generale dei carabinieri Franco Mosetti, che Priebke tuttalpiù sarebbe stato imputabile di omicidio colposo plurimo, reato caduto in prescrizione”. La Corte d’appello militare respinge i ricorsi di Intelisano e di Nobili.
 

L’attesa

Il 1 agosto 1996 è un giovedì. La sentenza è attesa per il tardo pomeriggio in una Roma già svuotata dalle vacanze. Priebke ha seguito tutto il processo in maniera imperturbabile. Ha continuato a prendere appunti su un quaderno, ma per il resto ha taciuto. “Sono preparato al peggio, spero di morire in Paradiso, a Bariloche” ha detto il 22 luglio in un’intervista al quotidiano argentino El Diario del Rio Negro. “Sono un nazionalista di destra, non sono un fanatico né un antisemita. Per me la politica è finita nel 1945”. In carcere riceve quindici lettere al giorno, legge molto, tiene un diario e fa ginnastica. Ha seguito Sanremo e, dice, la conduttrice argentina Valeria Mazza, che affiancava Pippo Baudo, gli “è piaciuta molto”.

Erich Priebke durante il processo nel tribunale militare di Roma, 1996
Erich Priebke durante il processo nel tribunale militare di Roma, 1996 

Tullia Zevi, la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, nella tarda mattinata di quel giovedì 1 agosto si affaccia in aula. Dice: “L’immagine dell’Italia si difende con una sentenza di condanna, e poi con un gesto umanitario: la concessione degli arresti domiciliari. Sarebbe stato importante avere dal Vaticano un messaggio chiaro su questo processo. Da cinquant’anni aspettiamo che il Vaticano condanni il nazismo, ma non per questo noi condanniamo la Chiesa cattolica”. “Cosa si aspetta dal tribunale?”, le chiedono. 

Che la Corte sia all’altezza della storia, ma mi pare che finora le sia mancata la cultura e la preparazione per affrontare una vicenda ed una tragedia di tali proporzioni”.

Ricorda Riccardo Pacifici: “Era pomeriggio, faceva caldissimo. Mi recai nel quartiere ebraico e bussai alla porta di Raimondo Di Neris, che tutti conoscevamo come lo zi Raimondo, sopravvissuto alla Shoah e famoso nella nostra comunità perché la sera che tornò da Auschwitz volle fare la serenata sotto la finestra della fidanzata che lo aveva aspettato. Quattro giorni prima gli avevo proposto: “Ci mettiamo davanti alla porta del tribunale e quando Erich Priebke esce dall’aula tu gli dai una cinquina, una sberla, in favore di fotografi e telecamere”. “Ci sto”, disse zi Raimondo. Quando salì sul mio motorino, al portico di Ottavia, mi confessò che per l’agitazione non chiudeva occhio da quattro notti”. “Per la prima volta la mia generazione a Roma poteva assistere a un processo nei confronti di un nazista presente in carne e ossa. Lo potevamo vedere da vicino: era seduto lì, a un metro da noi. Mio padre mi aveva portato davanti all’ospedale militare del Celio, da dove, nel Ferragosto del 1977, fuggì in Germania Herbert Kappler, il comandante della Gestapo che aveva ordinato l’uccisione dei 335 cittadini romani alle Fosse Ardeatine, il 24 marzo 1944, come rappresaglia per l’attentato partigiano in via Rasella, nel quale morirono 33 nazisti e due civili, tra cui il dodicenne Piero Zuccheretti. I miei genitori si salvarono per caso dalla Shoah, i nonni paterni vennero assassinati entrambi a Birkenau. Era un appuntamento con la giustizia che aspettavamo da sempre, ma dopo avere seguito per tre mesi tutte udienze nell’aula troppo angusta del tribunale militare di viale delle Milizie sapevamo che tirava brutta aria, che il rischio della prescrizione del reato era concreto. Con Miki Steindler, il responsabile del Movimento culturale studenti ebrei, preparammo dei cartelli per contestare un’eventuale assoluzione. Volevamo farci trovare pronti per ogni evenienza. E perciò convinsi Di Neris a seguirmi in viale delle Milizie, dove ha sede il tribunale militare di Roma”.

Alle 17,30 un cancelliere informa gli avvocati e i giornalisti che la sentenza sarà letta entro mezz’ora, ma annuncia che nessuno al di fuori degli avvocati e dei giornalisti sarà ammesso in aula, per ragioni di spazio. La decisione suscita l’ira della piccola folla assiepata all’interno del tribunale militare.

È una vergogna, un’infamia. Questo ci dice che il verdetto è stato già deciso. Voi volete assolvere Priebke”,

commentano ad alta voce. Una tv a circuito chiuso viene fatta collocare nel corridoio, lungo una ventina di metri e largo cinque. Erich Priebke attende il suo destino in una saletta.

La sentenza

Sono le 18,01 quando il presidente Quistelli legge la sentenza, che l’Ansa sintetizza così: “Il tribunale militare di Roma ha deciso di non doversi procedere contro Priebke, perché gli ha concesso le circostanze attenuanti e quindi il reato è considerato prescritto. Il tribunale, pur riconoscendo le responsabilità dell’imputato, ha prosciolto Priebke, ritenendo di applicare le circostanze attenuanti. Il tribunale ha deciso l’immediata scarcerazione dell’imputato”. Priebke ha un ghigno quando l’avvocato glielo comunica. “Fatelo uscire, che ci pensiamo noi”, urlano dal corridoio. Due anziane si accasciano a terra, colpite da un malore.

Alle 18,50 la notizia dell’assoluzione arriva a Montecitorio, dove si sta votando la riforma delle forze armate. Il presidente di Rifondazione comunista, Armando Cossutta, chiede la parola per esprimere il suo sdegno: i deputati si alzano in piedi e applaudono a lungo. Il presidente della Camera, Luciano Violante, commenta: “Credo che non ci sia niente da aggiungere a questa unanime espressione di tutti i settori”. Il Senato, su decisione del presidente di turno, Domenico Fisichella (Alleanza nazionale), osserva un minuto di silenzio. Dice il giurista cattolico Leopoldo Elia del Ppi. “Siamo sempre rispettosi delle pronunce giurisdizionali, ma in questo caso particolarissimo sentiamo che qualcosa di profondo è stato toccato”. L’unico a smarcarsi è il capogruppo leghista, Francesco Speroni: “Anche noi esprimiamo profonda solidarietà a tutte le vittime delle Fosse Ardeatine e ai loro familiari e alla comunità ebraica, tuttavia rispettiamo la decisione dei magistrati senza sentirsi turbati”. A Palazzo Chigi il premier Romano Prodi fa diffondere una nota piena di amarezza. “Con quello che ci è costato portarlo qui!” commenta il responsabile dell’ufficio estradizioni del ministero della Giustizia, Eugenio Selvaggi. I giornalisti telefonano a Tullia Zevi: “È una sentenza terribile”, commenta.

Sto andando a portare dei fiori ai martiri delle Fosse Ardeatine”.

 

Tullia Zevi durante una cerimonia in omaggio delle vittime delle Fosse Ardeatine
Tullia Zevi durante una cerimonia in omaggio delle vittime delle Fosse Ardeatine 

 

L’assedio

Alle 19,20 Erich Priebke è ancora nell’aula del tribunale, impossibilitato a uscire, perché la gente non vuole liberare il corridoio e anche fuori dal tribunale si sono radunate spontaneamente centinaia e centinaia di persone giunte da tutta la città. Filtra la notizia che sarà scarcerato in serata. Ricorda Pacifici: “Chiamai subito il centralino degli aeroporti di Roma, mi spiegarono che il primo volo per Buenos Aires sarebbe decollato alle 23,30. Decidemmo che non ci saremmo più mossi dal corridoio”. Il corridoio si trasforma quindi in un bastione, l’argine all’ingiustizia. Il sindaco Francesco Rutelli riesce ad entrare nel palazzo, raggiungendo il primo piano, quello delle aule. Se qualcuno sperava in una mediazione, Rutelli li delude: “Fino a ieri potevo pensare che se qui sotto, in via Giulio Cesare, avessi incontrato Mengele potevo chiamare un carabiniere e farlo arrestare, consegnarlo a un processo e ad una certa condanna”. Il sindaco decide di illuminare con i fari le Fosse Ardeatine, e di lasciare al buio il Colosseo, la Piramide, Castel Sant’Angelo, il Mausoleo di Augusto, l’Ara Pacis, la Torre Campanaria del Campidoglio, piazza Montecitorio. Nel ghetto in tanti abbandonano le piccole botteghe del quartiere per riversarsi per strada. Non c’è ancora internet, la notizia corre di bocca in bocca. Quasi ogni famiglia ha un parente o un amico morto alle Fosse Ardeatine. “Dicono che è troppo vecchio, poverino – s’indigna un’anziana – ma mio marito, che aveva 21 anni, non ha avuto neanche la possibilità di invecchiare, adesso ci manca anche che gli diano anche una bella medaglia a Priebke”.

Alle 19,30 il procuratore Intelisano parla ai giornalisti:

A Priebke verrà restituito il passaporto e potrà andare dove vuole. È un cittadino libero”.

Priebke, chiuso in una stanza insieme al suo avvocato Velio Di Rezze, può solo ascoltare le voci che provengono dal corridoio: “Priebke, siamo tutti qui che ti aspettiamo. Dio ti maledica!” gli urlano, dopo che i giornalisti hanno riportato le frasi di Intelisano. Fuori, sulla strada, è già pronto il cellulare per condurre Priebke nel carcere militare di Forte Boccea. La folla, cresciuta col passare delle ore, ha srotolato questo striscione: “Voi lo avete assolto, la storia lo condanna”.  Anche alle Fosse Ardeatine si è radunata una grande folla, composta da gente comune, militanti politici, ragazzi dei centri sociali, esponenti della comunità ebraica, arrivano Rutelli, il segretario del Pds, Massimo D’Alema e il premier Romano Prodi.  Il vicepremier Walter Veltroni si è recato al ghetto per partecipare alla funzione serale in sinagoga. Dice: “Il paradosso è che Priebke può rimanere libero in Italia, ma non all’estero”. Settimio Di Porto, dopo aver seguito tutte le udienze, il 30 luglio è volato Israele, per le vacanze. Da una cabina telefonica di Hertzlya, una località sul mare, munito con una sacca ricolma di gettoni, si fa raccontare dai presenti quel che sta accadendo nel corridoio. “Avrei voluto essere lì”, dice adesso.

Velio Di Rezze ha deciso di difendere Priebke per venti milioni di lire, una cifra molto inferiore alle richieste avanzate da altri avvocati di grido. Non è un uomo di destra, anzi. È stato anzi consigliere comunale del Pds. Ricorda che nel 1948, al primo processo sulle Fosse Ardeatine, cinque ufficiali nazisti vennero assolti per non avere avuto responsabilità nei fatti di cui erano accusati. “Anche il mio assistito doveva essere assolto con formula piena perché ha eseguito un ordine. Nel 1948 il processo alla fine non scatenò nessuna reazione nell’opinione pubblica. Non mi aspettavo una simile reazione da parte dell’opinione pubblica italiana. Mi meraviglia che proprio oggi, a cinquant’anni di distanza e in uno stato democratico, ci sia da fronteggiare una simile protesta. Tutto il processo è stato esageratamente montato ed enfatizzato dalla stampa e dall’opinione pubblica. Ora siamo qui, prigionieri in tribunale, ed io sono sconfortato come il mio assistito. Lui anzi, è più paziente di me, si limita a scuotere la testa e a ripetere sconsolato: “Questa è la democrazia”. Com’è stato possibile prescrivere Priebke? “Una sentenza figlia del compromesso e dell’amnesia” commenta. Una doppia vergogna”, commenta amaro l’avvocato di parte civile, Marcello Gentili. “È la peggiore delle sentenze possibili. È un compromesso, ma le sentenze devono fare giustizia e non compromessi”, gli fa eco Paola Severino, l’avvocato dell’Unione delle comunità ebraiche italiane di Roma. “La decisione che ordina l’immediata scarcerazione di Priebke – aggiunge l’avvocato Oreste Bisazza Terracini – equivale ad una sostanziale assoluzione e ciò la rende ancora più inaccettabile”.

Alle 21 il presidente Quistelli, asserragliato nella sua stanza, fa giungere ai giornalisti una breve dichiarazione: “Ho fatto del mio meglio. Lo abbiamo ritenuto colpevole, ma la nostra cultura giuridica riconosce la prescrizione. È per me una sentenza giusta secondo i criteri del diritto. Sono tranquillo. Se non si è d’accordo con la sentenza sono previsti gli strumenti per appellarsi”. La sentenza di proscioglimento per Erich Priebke è stata presa a maggioranza, non all’unanimità, tra i tre membri componenti del tribunale militare, il presidente Agostino Quistelli, il giudice a latere Bruno Rocchi e il capitano Sabatino De Marchis. Si verrà a sapere che una scheda di dissenso, sigillata, è stata infatti consegnata dal presidente Quistelli alla cancelleria. Il motivo del dissenso e soprattutto chi ha espresso il disaccordo dalla sentenza è considerato un segreto della camera di consiglio. Stufi di aspettare, alcune persone tentano di sfondare il cordone dei carabinieri per raggiungere la stanza di Priebke. I militari impediscono l’ingresso con interventi decisi. Uno dei ragazzi urla a un carabiniere: “Duemilasettecento carabinieri sono morti per uomini come Priebke. Come fate a difenderlo?”. “Non andremo via di quei. Deve passare davanti ai nostri occhi”, conferma Pacifici. Quistelli chiede l’intervento della forza pubblica per sgomberare l’aula del tribunale. “Non mi aspettavo una reazione del genere, visto tutto quello che sta succedendo forse avrei fatto meglio ad astenermi”, fa filtrare il suo spavento. I carabinieri hanno posizionato una transenna tra la stanza del giudice e i manifestanti asserragliati nel corridoio. Il sottosegretario alla Difesa Massimo Brutti arriva in tribunale: “La magistratura militare è da rifondare”, dice. Un tale gli urla: “Non accettiamo la solidarietà di questo governo, potevate pensarci prima”.

La videostoria di una sentenza

 

Urla e disperazione: le immagini dentro e fuori il tribunale militare di Roma, dopo la sentenza per l’ex ufficiale dell SS: assoluzione per prescrizione del reato. 1 agosto 1996. Immagini Rai

 

“Rimanete lì”

In una sera piovosa di aprile, nel suo ufficio a Monteverde, Pacifici tira fuori dalla tasca il cellulare e mostra un vecchio video che circola su Youtube. Lo si vede urlare, pieno di indignazione, quel giorno nel corridoio. “Te venimo a pijà“, grida un tale accanto a lui. Una giornalista chiede a un giovane se per caso li è lì per lavorare. Risposta: “Sì, signò. Stamo a lavorà per pijallo“. Nel video si vede Pacifici rilasciare una dichiarazione in favore di telecamera: “Il presidente Quistelli molto gentilmente ci ha ricevuti, era presente anche la sottosegretaria dei Verdi Carla Rocchi, ho chiesto consiglio a Elio Toaff. Mi ha detto:

Agite secondo coscienza”.

Ricorda adesso Pacifici: “A un certo punto Quistelli mi volle vedere. Mi chiese di fare sgomberare l’aula. “Non voglio vedere un altro caso Kappler” gli risposi. “Lei deve accettare la sentenza”, mi disse il giudice. “Mi faccia chiamare il rabbino Elio Toaff, farò quello che mi dirà lui”. Composi il numero di Toaff, lo chiamai su un fisso, era in vacanza all’Isola d’Elba. Toaff era stato un partigiano, e lo chiamai, mettendolo in viva voce. Gli spiegai che se lo avessimo fatto uscire Priebke sarebbe volato in Argentina. “Rimanete lì” disse Toaff. Quistelli sbiancò. Uscii dalla stanza e lo dichiarai davanti alle tv”.

Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, telefona al ministro della giustizia Giovanni Maria Flick: “Hai saputo che hanno occupato il tribunale militare?” Poco dopo Flick riceve una telefonata dal sottosegretario Brutti: “Vieni qui, ché la situazione è ingovernabile”. In quel momento il ministro sta preparando le riforma della giustizia, quelle passate alla cronaca politica come “il pacchetto Flick”. Flick chiama il ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, che si trova alle Eolie. Maurizio Boccacci, il leader del gruppo di estrema destra Movimento politico, rilascia la seguente dichiarazione alle agenzie: “Esprimiamo grande gioia per questa sentenza, per la prima volta in Italia, tramite un tribunale militare, è stata applicata la legge ed è stato interpretato il codice. Vogliamo ricordare alla comunità ebraica che, come in passato avevamo promesso di fargliela pagare duramente in caso di una condanna pilotata di Priebke, ora ci dichiariamo pronti a riprendere la lotta se qualcuno tentasse di intaccare la sentenza e chi l’ha emessa”.

Alle 21 viene aperto il cancello d’ingresso delle Fosse Ardeatine. È un generale degli alpini del Commissariato generale per le onoranze dei caduti di guerra a portare la chiave, dato che il custode, finito il turno pomeridiano, se ne era andato a casa. Sul marciapiede un migliaio di persone attendono di entrare. Quando le porte si schiudono si scatena una gran ressa. “Non siete voi i primi a dover mettere piede qui” dice una donna esasperata ai giornalisti e ai fotografi.

Alle 21,30 la piccola folla nel corridoio non ne può più. Un gruppo cerca di forzare il blocco dei carabinieri, per provare a entrare nella stanza dove si trova Priebke. “Era successo, ricorda Pacifici, che erano entrati nel palazzo i senatori verdi guidati da Athos De Luca, e nel varco si erano infilate molte delle persone che erano per strada. È un’onda che sale, raggiunge il primo piano del tribunale. I militari capiscono che Priebke rischia il linciaggio. Sorge un altro scontro con loro”. “Il capitano Priebke ha paura”, dice il suo avvocato, De Rezze. “Sta vivendo ore di profonda angoscia. È desolato, anche se è naturalmente felice di esser stato prosciolto”. Là fuori, nella sera d’estate, ci sono mille persone, sparpagliate lungo viale delle Milizie e nella traversa di via Damiata, dove, molti ragazzi dei centri sociali, vengono guardati a vista da un gran numero di agenti di polizia armati e coperti da caschi integrali. Fermano un giovane con l’accusa di avere fornito delle false generalità, il giovane si divincola, urla, la folla si muove in suo soccorso, è la scintilla provoca degli scontri. Cinque agenti vengono contusi, due carabinieri sono portati in ospedale, quattro auto della polizia sono danneggiate.

La via d’uscita

In una delle stanze del tribunale è in corso una riunione a cui partecipano il pubblico ministero Antonio Intelisano, il sottosegretario alla Difesa Massimo Brutti, il questore di Roma Rino Monaco, il procuratore generale della Corte d’appello militare Giuseppe Scandurra, per cercare di sbloccare lo stallo.  Anche Pacifici vi partecipa: “Ricordo che il passaporto di Priebke era sulla scrivania del magistrato. Ottenemmo di poter mandare una ragazza della nostra comunità, Karen Di Porto, a controllare ogni quindici minuti che Priebke fosse nella sua stanza: non volevamo che fuggisse, come Kappler”. Nel corso della riunione sopraggiunge il ministro Flick, il quale prospetta la soluzione di applicare gli articoli 715 e 716 del codice di procedura penale in materia di estradizione, visto che sussiste una richiesta da parte della Germania. La soluzione quindi sta nella legge. Ne ha già informato al telefono il capo della polizia Ferdinando Masone. Flick è accompagnato dal suo capo di gabinetto, Loris D’Ambrosio. E già mezzanotte e mezza.

Sono quasi le due di notte quando il ministro Flick annuncia personalmente alla folla dei manifestanti che Erich Priebke è stato arrestato dalla polizia giudiziaria in via provvisoria e sta per essere portato in un carcere civile. Aggiunge che la misura deve essere convalidata entro 96 ore dal presidente della Corte d’appello e che il ministro deve chiederne il mantenimento entro dieci giorni (cose che avverranno). Annuncia l’immediata comunicazione al governo tedesco e che questo deve formalizzare entro quaranta giorni la sua richiesta d’estradizione. Priebke non può essere scarcerato fino alla pronuncia della Corte d’appello. Le parole del ministro vengono salutate con un applauso.

Alle 2,30 Priebke può lasciare il tribunale. È scortato da un nugolo di carabinieri, che lo portano via su un cellulare ed è accolto dalle imprecazioni della gente che lo attende in strada. Partono i cori di Bella ciao e Bandiera rossa. Viene portato a Regina Coeli, dove giunge alle 2,40. Passa quindi da un carcere militare a un carcere civile. Lo rinchiudono nell’ottava sezione, quella riservata ai detenuti da controllare a vista, una cella di otto metri quadrati, con un bagno, priva di televisore ed arredata con letto, tavola e sedia, che si affaccia sull’interno del carcere.

All’indomani Repubblica titolerà a tutta pagina: La vergogna Priebke. Scriverà Giuseppe D’Avanzo: “Non una volta dalla sua bocca è venuta fuori una frase di pietà, mai che avesse chiesto perdono ai parenti delle vittime. L’unica volta che ha preso la parola, durante il giudizio preliminare, ha ripetuto quel che ancora fermamente pensa: “Tutta la responsabilità ricade sulle spalle dei gappisti che organizzarono l’attentato di via Rasella. Sono loro i veri responsabili di quanto è accaduto poi, alle Fosse Ardeatine”. Il 15 ottobre 1996 la Cassazione annullerà la sentenza del tribunale militare, e l’anno dopo, il 22 luglio 1997, Priebke verrà condannato a 15 anni di carcere che, in appello, verranno trasformati in ergastolo, confermato dalla Cassazione il 16 novembre 1998. Priebke morirà a Roma nel 2013, all’età di cento anni.

La prima pagina di Repubblica, 2 agosto 1996

Tutto, dunque, si era deciso nel breve spazio della notte di quell’agosto 1996. Maurizio Molinari ha incontrato l’allora ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, per ripercorrere quelle drammatiche ore di 25 anni fa. Illuminarne il punto di svolta e la posta in gioco. 

I segreti di una notte che cambiò la Storia

di Maurizio Molinari

 

Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia
Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia 

Professor Flick, quando è la prima volta che ha sentito il nome di Erich Priebke?

“All’inizio del suo processo dinanzi ai giudici militari, perché Priebke venne in un primo momento giudicato dalla magistratura militare”.

Come venne informato?

“Non ricordo a quale titolo venni informato perché il caso era estraneo alle mie competenze essendo un fatto che dipendeva dal Ministero della Difesa e dalla magistratura militare. L’unica cosa che feci, quando seppi della celebrazione del processo nella sede del tribunale militare, poco adatta per la previsione dell’afflusso dei parenti delle vittime, dei giornalisti e del pubblico, fu offrire ad Andreatta allora Ministro della Difesa le aule spaziose di Rebibbia, dove opera una sezione della Corte d’assise. Lui mi ringraziò e disse “no, facciamo noi, è questione nostra, provvediamo noi””.

Quando uscì la sentenza che consentiva a Priebke di tornare libero dove si trovava?

“Al Ministero a lavorare. Tra l’altro sapevo dai giornali che stava per uscire la sentenza che riguardava materia di giustizia militare. E nel pomeriggio i telegiornali cominciarono a parlarne, per via dell’assedio dopo la lettura del dispositivo della sentenza. Mi telefonò anche il Presidente Oscar Luigi Scalfaro, preoccupato: “Priebke è rimasto bloccato, e con lui anche i giudici militari. Pare ci siano dei disordini dinanzi al tribunale militare”. Poi mi chiamò Massimo Brutti, sottosegretario alla Difesa, per segnalarmi la stessa cosa. In quel periodo a Roma non c’erano né Giorgio Napolitano, Ministro degli Interni, perché per tradizione prendeva vacanza dal primo al 15 agosto e rientrava per Ferragosto, né il Ministro Andreatta. A Brutti dissi “non posso fare molto, comunque verifico la situazione””.

Cosa le disse in particolare Scalfaro?

“Mi disse che c’erano problemi di ordine pubblico al tribunale militare di Roma proprio per la conclusione del caso Priebke con una sentenza che dichiarava prescritto il reato commesso”.

Scalfaro era preoccupato per la possibilità di Priebke di tornare in libertà?

“Scalfaro aveva compreso quanto stava avvenendo: nella formula del dispositivo c’era l’ordine di immediata scarcerazione di Priebke se non detenuto per altra causa”.

E lei cosa fece?

“Massimo Brutti mi chiese di andare a vedere se potevo aiutare a sbloccare la situazione. Io dissi “guarda che non è competenza mia, o meglio può essere competenza mia soltanto il problema che si innesta adesso, che è un problema nuovo e diverso”. Il problema che nasceva dalla pendenza, accanto alla richiesta di estradizione italiana, già eseguita dall’Argentina, di una analoga richiesta avanzata anche dalla Germania”.

Nacque così la soluzione tedesca?

“Feci verificare subito, la segnalai a Brutti, ne parlai con Veltroni vicepresidente del Consiglio: l’Italia era sotto osservazione, in quel periodo, in vista della nostra entrata nello Spazio comune europeo, il cosiddetto Schengen. Sia in materia di privacy che di cooperazione giudiziaria dovevamo garantire standard di collaborazione reciproca”.

Ma non eravamo ancora dentro Schengen. Fu una forzatura?

“Tutt’altro. Il codice di procedura penale già prevedeva, e tuttora prevede (articoli 715  e 716), che nel caso di richieste di estradizione da parte di uno Stato, la persona possa essere arrestata in caso di urgenza dalla polizia giudiziaria e poi il fermo sia convalidato dalla Corte d’Appello del luogo in cui si trova la persona. Ma, in assenza di convalida della Corte o in caso di mancata richiesta di mantenimento dell’arresto da parte del ministro della Giustizia entro dieci giorni, la persona deve essere rilasciata immediatamente”.

Dunque era decisivo l’avallo del capo della polizia?

“Più che l’avallo, l’impulso. L’avallo è quello del ministro se decide di chiedere la conferma del provvedimento nel termine dei dieci giorni. Lo segnalai al capo della polizia, che era Masone. Era una situazione problematica. Era stato informato anche lui che c’erano problemi seri”.

Quali problemi seri?

“Si temevano disordini da parte dei giovani della comunità ebraica da un lato ed esponenti dei comitati di base dall’altro lato, l’ambiente dove il processo si era svolto era una stanza, un ufficio del terzo piano del tribunale militare. Quindi con scale strette per arrivare. Tra l’altro il palazzo era completamente gremito e occupato dalle persone che erano venute per assistere e che avevano già sollevato problemi per poter entrare e assistere alla lettura della sentenza”.

I giovani della comunità ebraica erano convinti che solo rimanendo lì avrebbero potuto evitare la liberazione di Priebke. L’assedio al tribunale era un gesto di rivolta contro un’ingiustizia. Ricordo bene quei momenti. Erano pronti a tutto pur di non lasciarlo andare.

“Venni informato di questa situazione che si stava proponendo da alcune ore, decisi prima di studiare il caso, ne parlai poi da un lato a Masone, dall’altro con Veltroni perché il presidente del Consiglio Prodi non era a Roma. E ne parlai telefonicamente con il ministro Napolitano”.

Cosa decise di fare?

“Di andare sul posto perché la situazione stava sempre più esasperandosi. Lo feci, dopo aver avvertito il capo della polizia. Mi resi conto che serviva una soluzione. E in fretta”.

Con chi ne parlò?

“Dissi a Masone che la polizia giudiziaria era tenuta a emettere un provvedimento cautelare, previsto specificamente dalla legge sulla estradizione, in attesa della convalida o meno da parte della Corte d’Appello”

E Masone come reagì?

“Mi chiese “ma poi tu lo fai decadere?”. La legge infatti prevede che il Ministro possa far decadere un provvedimento di quel genere se non ne chiede il mantenimento entro dieci giorni dalla convalida della Corte. In sintesi, la polizia giudiziaria interviene nel caso d’urgenza; la Corte d’Appello convalida il provvedimento entro quattro giorni; il ministro deve chiedere la conferma del provvedimento entro dieci giorni. In materia estradizionale è espressamente prevista una legittima interferenza del potere politico. Io lo rassicurai e gli dissi che ero disposto a mettergli per iscritto che non avrei fatto decadere un provvedimento emesso dalla polizia giudiziaria e convalidato dalla Corte per fermare il soggetto in attesa dell’estradizione, visto che altrimenti sarebbe scattato l’ordine di immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa”.

Fu allora che la soluzione legale si trovò?

“Si perché a quel punto la polizia giudiziaria – mi sembra di ricordare il Questore di Roma, Rino Monaco – firmò il provvedimento e Priebke venne trasferito, non era più sotto la giustizia militare. Il provvedimento di polizia giudiziaria fu il momento per poter riprendere in consegna Priebke, questa volta nell’ambito della giustizia civile, di fronte a un’istanza di estradizione da parte della Germania che aveva presentato tale richiesta all’Argentina più o meno in contemporanea all’Italia”.

Il punto però è che quando il tribunale militare decide il rilascio di Priebke, di fatto la legge è dalla parte dell’ex nazista.

“La legge è stata dalla parte di Priebke finché non è intervenuto un altro provvedimento previsto dalla legge. Giorni dopo si riunì la Corte d’Appello di Roma – Sezione civile – che convalidò il fermo estradizionale compiuto dalla polizia giudiziaria”.

A posteriori possiamo dire che se lei non avesse trovato la soluzione con Masone, Priebke sarebbe tornato libero con un gigantesco atto di ingiustizia nei confronti delle vittime delle Fosse Ardeatine, la strage a cui partecipò.

“Fu una scelta di tipo rigorosamente giuridico che riuscì a sbloccare anche una situazione molto preoccupante dal punto di vista dell’ordine pubblico e politico. Anche perché non dimentichiamo che la sentenza non era definitiva, e fu infatti riformata in appello con la condanna di Priebke. Quindi la sua fuga, ancorché al momento possibile, non sarebbe stata legittima, né giusta”.

Dunque l’assedio da parte dei cittadini romani ebbe un impatto?

“Quando andai sul posto trovai una situazione molto tesa, venne anche bruciata la giacca del mio capo di gabinetto, il compianto Loris D’Ambrosio e venne infranto il vetro posteriore della Croma, la macchina di servizio. C’erano dei tumulti, la polizia li bloccò, li sedò e aprì la via anche perché le scale altrimenti erano tutte occupate: non si saliva e non si scendeva. Era una situazione molto preoccupante con Priebke chiuso in una stanza da cui non poteva uscire”.

Cosa pensò davanti ai tumulti?

“Molta gente voleva esprimere la sua collera, la sua ira per la decisione del tribunale che era una decisione di prescrizione, di non doversi procedere per prescrizione dei reati di cui Priebke era accusato. Ricordo che, per tranquillizzarla, qualcuno, credo Riccardo Pacifici, disse al megafono che ero andato a prendere Priebke per portarlo in prigione. Mi arrabbiai molto, dissi ai giovani ebrei che il Ministro era venuto solo in applicazione della legge, per verificare la situazione di un soggetto su cui pendeva una domanda di estradizione da parte della Germania”.

Per la comunità ebraica di Roma furono ore al cardiopalma. Si passò dal rischio di una seconda fuga di un criminale nazista – dopo quella di Herbert Kappler dal Celio nel 1976 – alla decisione di tenerlo in cella sulla base dell’estradizione tedesca. Per quei ragazzi che assediavano il tribunale nazista, e per il rabbino Elio Toaff che seguiva la situazione dall’isola d’Elba, fu la sua decisione a testimoniare che la giustizia aveva prevalso.

“Io ho fatto solo il mio dovere, immagino che se Priebke fosse tornato libero probabilmente nel giro di una o due ore sarebbe andato in Argentina o da qualche altra parte. Mi è stato detto che risultava che c’erano già tutti gli elementi preordinati per poter assicurare a Priebke un’uscita assai rapida dal nostro Paese. Con quella decisione feci inoltre venire meno una situazione di illiceità, che sarebbe potuta degenerare. I giudici militari chiusi in una stanza protestavano energicamente, si sentivano sequestrati”.

Quanto l’ha segnata il caso Priebke?

“È una delle cose che ricordo come più significative del mio incarico ministeriale”.

Durante quelle giornate convulse il suo dialogo con la comunità ebraica non si interruppe mai. Chi fu testimone diretto di quei momenti – come chi scrive – deve darle atto di aver saputo ascoltare e comprendere in frangenti non facili. Trovando la via d’uscita nel rispetto della legge.

“Il dialogo con la comunità ebraica fu cordiale, aperto, anche se duro all’inizio con i giovani della comunità. A cominciare da Pacifici, di nome ma non di fatto”.

La scelta di essere duri, da parte dei giovani ebrei, nasceva non solo dall’emozione di una comunità flagellata dal nazifascismo, con così tanti sopravvissuti e figli di sopravvissuti. Ma anche dalla determinazione di Toaff di evitare un secondo caso Kappler. Le posso assicurare che c’era questo timore dietro l’assedio al tribunale militare per evitare che Priebke tornasse libero. Il suo interlocutore dunque era Pacifici?

“Sì, uno dei punti di riferimento dei giovani della comunità ebraica era Pacifici”.

Quale fu il momento nel quale disse a Pacifici che la soluzione era il fermo estradizionale?

“Gli dissi che stavo dando applicazione alla legge e di lasciare che la legge facesse il suo corso. E la legge prevedeva un provvedimento dell’autorità di polizia giudiziaria e il trasferimento di Priebke in un carcere civile, non penale, perché a questo punto Priebke diventava destinatario di provvedimenti della giustizia civile. Poi se la sarebbe vista la giustizia civile, con la revoca o la conferma dello stato dell’arresto, come avvenne subito dopo, il martedì successivo in camera di consiglio, con la sua convalida. È una procedura ragionevolmente anomala, come ho detto, perché prevede un mix di intervento politico e di intervento giuridico. In questi casi il Ministro, per ragioni politiche e istituzionali, può infatti bloccare l’iniziativa della polizia”.

Fu questa “procedura ragionevolmente anomala” che evitò ad un criminale nazista di farla franca. Il giorno dopo cosa successe?

“Da tutto il mondo arrivavano telefonate, ma non mi piaceva parlare di queste cose e dissi al centralino di non passarmele”.

C’è un dettaglio che ricorda in particolare di quanto avvenne?

“Allora fumavo. Ero abbastanza stanco perché avevo fatto tutta la notte in piedi, e al mattino c’era il Consiglio dei ministri con alcuni disegni di legge sulla giustizia, il primo “pacchetto Flick”. Poi andai al Quirinale. Ero abbastanza distrutto e il Presidente della Repubblica mi fece portare un posacenere e mi autorizzò a fumare la pipa in sua presenza. Ricordo che mi colpì e gliene fui grato, mi offrì un caffè, un tramezzino e un posacenere per poter fumare. Disse solo “Ministro, fumati pure la pipa perché so che lo fai quando sei nervoso”.

Quanto avvenne allora potrebbe ripetersi oggi?

“Non all’interno della Ue. Oggi per fortuna abbiamo il ‘mandato di cattura europeo’ per affrontare simili situazioni”.

Il luogo segreto dove è sepolto Erich Priebke
Il corpo del nemico

Erich Priebke muore a Roma l’11 ottobre del 2013. Ha compiuto cento anni. Il viaggio delle sue spoglie che nessuno vuole seppellire

di EZIO MAURO

Un’auto grigia fa lampeggiare i fari nel buio delle 3,45 di notte, davanti alla sbarra abbassata dell’aeroporto militare di Pratica di mare, a 35 chilometri da Roma. E’ finito da poco il sabato, comincia una domenica di fine ottobre attraversata dai temporali, vento forte, temperatura 10 gradi. Quando entra nel perimetro blindato dello scalo la macchina viene registrata come una station wagon. Quando esce, 40 minuti dopo, è un carro funebre in incognito perché porta con sè, nascosta sotto una coperta, la bara che nessuno vuole seppellire, nè in Italia nè all’estero: quella di Erich Priebke, capitano delle SS, aiutante di Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine morto a cent’anni l’11 ottobre 2013, senza trovare da allora una porzione di terra dove avere sepoltura.

Nessuno vuole quel corpo che ha attraversato il secolo caricandosi degli orrori del Novecento, simbolo di un’ostinazione nazista dalla vita alla morte. Una fissità ideologica che portò il capitano a non chiedere mai perdono per i suoi crimini, a non pentirsi, anzi a rivendicare il suo antisemitismo, a negare le camere a gas nei lager, a nascondere dietro la meccanica degli ordini da eseguire la contabilità insopportabile delle 335 vittime giustiziate il 24 marzo del 1944 dai nazisti, per rappresaglia dopo l’attentato partigiano di via Rasella. Priebke riesce a sfuggire alla giustizia e a nascondersi in Argentina per quasi mezzo secolo. Soltanto nel ‘94 – cinquant’anni dopo le Fosse Ardeatine – è arrestato ed estradato in Italia. Nel 1998 la Cassazione rende definitiva la condanna all’ergastolo. Pochi mesi dopo l’età avanzata consente al condannato di scontare la pena agli arresti domiciliari.

La civiltà della democrazia ha dunque permesso all’uomo che teneva la contabilità dei giustiziati dentro le Fosse Ardeatine, cancellando un nome dopo l’altro dall’elenco che Kappler e il questore Caruso avevano predisposto, di camminare nelle strade italiane senza che la scorta abbia mai dovuto intervenire per difenderlo. La Repubblica processa perché non dimentica, condanna in quanto vuole giustizia, ma non cerca vendetta nei confronti del carnefice infine sconfitto. Nonostante questo, la figura di Priebke è diventata un simulacro di fede nazista scaduta e tuttavia pronta a riaccendersi in fiammate residuali, come testimoniano i manifesti listati a lutto appesi ai muri dopo la sua morte, “Riposa in pace, Capitano”, il videotestamento e l’adunata dei fanatici nostalgici ad Albano, quando si tentò di organizzare le esequie nel convento della Fraternità lefebvriana San Pio X, ma gli scontri con la polizia consentirono solo una veloce benedizione alla salma nel giardino.

Proprio qui nasce il dilemma di Stato: che fare del corpo del nemico, cinquant’anni dopo? Nella storia e nella letteratura la profanazione o il rispetto delle spoglie del vinto rivelano la vera natura del vincitore, fin da quando Achille dopo aver trascinato Ettore morente nella polvere gli annuncia che il suo corpo verrà sbranato da cani e uccelli: ma quando il vecchio Priamo si inginocchia nella sua tenda, baciando la mano che gli ha ucciso il figlio e chiedendo pietà, gli restituisce la salma, evitando che per l’oltraggio supremo resti insepolta. La democrazia, che ha giudicato il passato, deve adesso dare sepoltura alle spoglie del boia, unendo così giustizia e umanità nell’ultimo passaggio. Ma questo corpo da vivo non ha mai voluto separarsi dalla colpa, superandola. Dunque ne è ancora investito. Bisogna evitare che da morto diventi oggetto di una contesa ideologica trasformando la tomba nella sede di un conflitto permanente, bisogna impedire il fanatismo e l’oltraggio.

Il Comune di Marino rifiuta di ospitare i funerali, Roma dice no alla sepoltura, la Chiesa proibisce esequie benedette, Germania e Argentina non vogliono riprendersi la salma, due istituti religiosi non aprono le porte, quattro sindaci negano il permesso di tumulazione, la strada dei cimiteri militari tedeschi in Italia è bloccata, perchè il capitano non è morto in guerra come vuole il regolamento. Intanto sono passati 14 giorni, la bara è nell’hangar vuoto dell’aeroporto, con la porta chiusa a chiave e una finestra socchiusa. Nessuno l’ha più toccata dopo la zincatura completamente rifatta nella prima settimana, il quarto giorno. Si crea un comitato di crisi su cui scaricare il caso, tre persone guidate da un funzionario dello Stato. Cercano un varco tra i fantasmi e la memoria, per dare una conclusione dignitosa alla morte dell’uomo che registrò per cinque ore la sfilata dei prigionieri condannati dalla rappresaglia nella misura disumana di dieci per ogni tedesco ucciso, e passavano davanti al capitano con le mani legate dietro la schiena, giustiziati con un colpo di pistola alla nuca dopo essersi inginocchiati davanti ai cadaveri dei compagni che li avevano preceduti.

È riflettendo su quell’orrore che nasce la soluzione. Priebke è stato condannato, quindi è morto tecnicamente da detenuto, anche se agli arresti domiciliari. Dunque si può seppellirlo come un carcerato, nel cimitero di una prigione, senza la necessità di un permesso del sindaco. L’Italia gli garantisce la sepoltura, ma conferma il suo status, mentre evita di trasformare la tomba in sacrario nazista. Così il corpo del carnefice avrà la sua terra, sul suolo del Paese che ha profanato con l’eccidio: ma l’avrà in perpetuo nel luogo dove si sconta la pena dopo la condanna in un regolare processo. Per procedere bisogna avere l’assenso dei figli del capitano al “funerale in località segreta per ragioni di ordine pubblico”.

Poi può scattare il Nos, il nulla-osta di sicurezza che consente di prendere tutte le decisioni operative necessarie senza renderle pubbliche. L’ultimo timbro sigilla l’operazione con il segreto di Stato di terzo grado. Solo il direttore del carcere prescelto conosce quel che sta per accadere, mentre non lo sa il sindaco, il presidente della Regione, la comunità cittadina. Non lo sanno i cinque detenuti “comandati” a ripulire dalle erbacce e dai rovi il vecchio cimitero dove da vent’anni non ci sono sepolture, e visto attraverso le 11 sbarre del cancello di ferro sormontato da una piccola croce sembra il recinto funebre del ‘900, abbandonato nella ruggine del tempo.

È lì che si dirige la station wagon, scortata da un’auto civetta con due sottufficiali. Dopo due ore, un trasbordo, ancora un tragitto nelle curve in salita, quindi la bara coperta entra nel carcere nella sospensione della domenica, quando non si lavora, non ci sono visite, nessun detenuto è fuori dalla cella. I due militari hanno pala e piccone, sono loro che scavano. Un’ora di lavoro, qualcosa di più. Calano la bara, la ricoprono di terra. Nell’ultimo atto piantano nel terreno secco una croce di legno scuro che hanno portato dalla capitale, senza un nome e una data: soltanto un numero, registrato su un foglio nella busta sigillata chiusa in cassaforte, che verrà consegnato al figlio di Priebke quando arriverà da New York per visitare la sepoltura del padre. Il segreto circonda la fine.

E fu per mantenere il segreto “e non lasciare tracce”, come dice la sentenza, che furono ammazzati i cinque prigionieri in più, portati alle Ardeatine in soprannumero. E segretamente si decise che ogni ufficiale doveva eseguire personalmente due esecuzioni, seguito dai soldati, compresi quelli impiegati negli uffici, mandati ad uccidere per compromettere tutti in un rito nazista di sangue. È tutto questo che finisce in quella fossa mentre la democrazia, compiuto il suo dovere, può riprendersi i suoi diritti, a partire dalla memoria. L’ultima fotografia, inviata a Roma, è quella di un rettangolo di terra smossa, bruna, dove non ci sono i rovi perchè non c’è nemmeno l’erba, in mezzo all’abbandono brullo del cimitero, con la cappella sbarrata e un unico cipresso a vegliare. Il muro, naturalmente, tutt’attorno. Perché Priebke ha avuto la sua terra che lo rifiutava, ma è una terra prigioniera.

Sorgente: I giorni del boia – la Repubblica

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