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Missione europea. Il presidente degli Usa, tornati centrali grazie all’aggressività russa, è in Europa per intestarsi la fine di Putin. Ma senza diplomazia resta la guerra che potrebbe essere lunga

Guido Moltedo

Il commander-in-chief è in Europa per una visita presentata come “dramatic”. Ha atteso un mese di guerra per decidere la trasferta europea. L’andamento della campagna russa in Ucraina fa pensare che Putin sia in serie difficoltà, si sente dire nei palazzi di Washington. Altri segnali, a Mosca, lo confermano.Il presidente statunitense ritiene che la caduta del capo russo sia probabile, perfino prossima.

E intende intestarsi il merito della capitolazione del nemico nella sua veste di capo dell’Occidente in armi, che ostenta la sua leadership tra i capi di stato e di governo dell’Alleanza, ma anche del G7 e del Consiglio europeo. Malizia vuole che un simile calcolo, sulla tenuta pericolante di Putin, sia confermato dal cambiamento di atteggiamento di Trump nei confronti del leader russo. Poco prima dell’inizio della guerra, aveva definito il capo del Cremlino “smart”, “savvy”, in gamba, astuto, e l’invasione di un paese sovrano “geniale”. Tre giorni fa, l’ex-presidente cambia radicalmente registro e dice che, fosse ancora lui alla Casa bianca, avrebbe già inviato i sottomarini con le atomiche sulle coste russe.

LA MISSIONE EUROPEA di Biden, al di là delle ipotesi più o meno rosee sul conflitto dei suoi strateghi, segna comunque l’accantonamento definitivo della diplomazia, da parte americana ed europea, come possibile terreno di confronto per porre fine al conflitto in Ucraina e la scelta di quello militare come unico campo di scontro con i russi, dove non può che esserci una parte sconfitta. Si decide un’intensificazione notevole delle forniture di armi agli ucraini. E il rafforzamento dei contingenti in Slovacchia, Romania, Bulgaria e Ungheria.

Una svolta che impegna l’America ma soprattutto l’Europa, esponendola a rischi enormi, destinati ad aumentare, anche in presenza di una sconfitta finale della Russia, fosse perfino prossima. Oltre ai pericoli di un allargamento del conflitto, c’è intanto la “bolletta” militare europea che s’impenna, con il riarmo tedesco e con il bilancio della difesa italiana, un aumento di tredici miliardi di euro. A questo s’aggiunga il dramma dei milioni di ucraini da accogliere. L’annuncio che centomila profughi saranno accolti negli Usa fa capire come i riverberi della crisi in corso sfiorino solo l’America mentre investono pesantemente l’Europa. Stesso vale per le conseguenze delle sanzioni, che intendono essere ancora più dure, dopo gli incontri di ieri, e che peseranno molto di più sui cittadini europei che su quelli americani.

L’approccio muscolare deciso da Biden e condiviso dagli alleati non solo pone ai margini l’opzione diplomatica, ma non sembra neppure mettere in conto lo scenario di una guerra lunga e sfibrante, destinata incattivirsi ancor di più, a farsi sempre più rischiosa, non solo per i russi ma anche per la Nato, oltre che, soprattutto, per gli ucraini. Sembra appunto basarsi sull’assunto di una capitolazione russa abbastanza prossima. Su questo esito Biden ricostruirebbe la sua presidenza, nata fragile e apparsa, in questa sua prima parte di vita, sempre al di sotto delle aspettative.

LA SCONFITTA DI PUTIN, con i suoi legami con la destra repubblicana e con Trump e la sua cerchia, sarebbe evidentemente una dose massiccia di energia per risalire la china, innanzitutto in vista del voto di novembre, con in ballo il controllo dei due rami del Congresso, oggi in mano al Partito democratico e sottoassedio da parte dei repubblicani.

DOPO I “NUMERI” del suo predecessore a Bruxelles, nel luglio 2018, che Biden, non nominandolo, ricorda di fronte agli alleati, per segnalare il ritorno alla normalità nelle relazioni tra alleati, che rischiavano di andare in crisi irreversibile, l’Europa ritrova un presidente dalle buone maniere che riesce in quello che il detestabile Trump non era riuscito a ottenere: l’aumento delle spese militari nel loro bilancio. Ma questo risultato, che avrà ripercussioni nelle opinioni pubbliche europee, non avrà la risonanza che avrebbe avuto in America ai tempi di Trump, o anche prima. Né avrà particolare eco il ristabilimento di buone relazioni con gli alleati europei. Da tempo, ormai, lo sguardo dell’America è rivolto verso la Cina. L’Europa e le sue vicende interessano molto meno.

LA GUERRA IN UCRAINA continua a essere una notizia importante solo sui grandi media statunitensi, mentre nella stampa locale, dopo un mese di conflitto, non è il titolo principale, quando non è del tutto assente dalle prime pagine o tra i titoli di testa dei notiziari. Della guerra interessano le conseguenze, il prezzo della benzina che sale. L’inflazione che minaccia il ceto medio.

Per scuotere l’interesse dell’opinione pubblica americana, si agita il pericolo di una guerra sporca, con il ricorso da parte russa ad armi chimiche e biologiche e perfino a quelle nucleari. E poi l’emergenza alimentare come effetto collaterale della guerra: “L’emergenza cibo sarà reale, il prezzo delle sanzioni non lo paga solo la Russia ma anche i nostri alleati europei”, riconosce Biden, per poi proporre una maggiore produzione di grano da parte degli Stati Uniti e del Canada. Come sempre, anche all’estero, il presidente americano parla innanzitutto al suo pubblico. Così la paura dell’arma sporca, non si sa basata su quali informazioni, si mescola con la prospettiva di un’America che riempie i vuoti creati dalla guerra con le proprie risorse, grano, gas, armi.

Certo, è prevalentemente un gioco di rimessa, quello di Biden, rispetto a quella che è stata l’iniziativa aggressiva di Putin, ma è una partita che mira a ridare la centralità che l’America stava irrimediabilmente perdendo nel mondo. Partita carica di incognite, prima delle quali, come si è detto, la durata della guerra. Sarebbe paradossale che l’errore madornale commesso da Putin – l’illusione di una guerra lampo – sia replicato dall’Occidente. L’illusione di una sconfitta in tempi brevi di Putin.

Sorgente: Guerra ucraina, Biden già si vende la pelle dell’orso | il manifesto

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