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(ANGELO D’ORSI – Il Fatto Quotidiano) – “Un soffio di follia criminale” si sta abbattendo sull’Italia. Lo denunciava Antonio Gramsci, oltre un secolo fa, davanti al delirio nazionalistico, generato dalla Guerra mondiale, nel quale venne coinvolto, oltre a tutte le forze politiche, tranne i socialisti, e la quasi totalità del ceto intellettuale. E prima di lui, il premio Nobel Romain Rolland esterrefatto per questo “obnubilamento generale dell’intelligenza”, invitava i letterati scienziati e artisti europei a stare al di sopra della mischia, ossia a non mescolarsi alla “canea nazionalistica”. Userebbero credo le stesse parole oggi, davanti alla gigantesca union sacrée antirussa. Entrano in gioco qui due fattori: il primo è il classico riflesso condizionato della guerra, per cui il mondo viene diviso in due metà, e ciascuna accusa l’altra di essere portatrice di barbarie, e si autorappresenta come vessillo di civiltà. La guerra come meccanismo di “imbottitura dei crani” (ancora Gramsci), grande apparato di menzogna, fondato sulla semplificazione, le false notizie (si pensi alle finte immagini circolate nei giorni scorsi e presentate come istantanee i filmati dall’Ucraina quando spesso erano dal Donbass, addirittura da scenari di guerra mediorientali!). Il secondo fattore è l’antica diffidenza verso la Russia, che spesso diventa russofobia (ne avemmo un esempio lo scorso anno quando dalla Federazione Russa giunsero navi e camion di aiuti contro la pandemia) ma in questi giorni la russofobia si sta mutando in russofollia (chi voglia approfondire legga Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti Editore). E la russofollia non distingue tra popoli e i loro capi, non salva gli intellettuali: letteratura, musica, arte finiscono sulla graticola. Gli episodi degli ultimi giorni sono uno più agghiacciante dell’altro. Il fotografo Alexander Gronssky cancellato dal festival di fotografia europea di Reggio Emilia: motivazione? È russo e vivente! E il fatto che egli abbia protestato contro la guerra e sia stato arrestato, non conta. Il giornalista della Rai Marc Innaro censurato perché ha mostrato sullo schermo di quanto si sia estesa la Nato a Est, spiegando questo come uno dei fattori della reazione russa. Il sindaco di Milano Sala cancella l’esibizione alla Scala di un prestigioso direttore d’orchestra, Valery Gergiev: motivazione? È russo e addirittura “amico di Putin”, provocando come conseguenza la rinuncia di una celebre soprano, Anna Netrebko, a esibirsi nel teatro. E che dire della sconcertante gaffe di rettore e prorettore dell’Università Bicocca? Prima annullano un breve corso su Dostoevskij, affidato a Paolo Nori, e dopo le proteste degli stessi docenti ci ripensano e invitano Nori a un colloquio che lui, giustamente declina. Un esempio di stupidità, fornito dal Rettorato milanese che ha pochi paragoni. Non basta: il Teatro Govi di Genova-Bolzaneto (che da poco aveva riaperto dopo la pausa pandemica) si sente autorizzato ad annullare un intero festival dostoevskiano. Vale la pena di leggere il comunicato “con grande dispiacere che annunciamo la decisione, durissima da prendere, di rinunciare all’evento per affermare a gran voce la nostra posizione: Il Teatro Govi è un luogo di cultura, pace e speranza che non vuole aprirsi a chi preferisce le bombe alle parole. Siamo consapevoli che essere di nazionalità russa non significhi automaticamente essere guerrafondai e siamo consapevoli che in una guerra a soffrire siano i popoli di tutte le fazioni coinvolte, ma in questo terribile clima mondiale preferiamo prendere una posizione netta, nella speranza che si ritorni alla Pace nel più breve tempo possibile”. Nulla di nuovo sotto il sole. Cambiano solo oggetti e soggetti. Nel 1916 a Torino si contestò un concerto di Arturo Toscanini perché aveva inserito un brano di Wagner nel repertorio: come osa far risuonare la barbarica musica germanica nelle orecchie sensibili della cittadinanza torinese? – si chiedeva sarcastico Gramsci. La sua fu la classica vox clamantis in deserto. E il giornalista socialista in un articolo chiese scusa a Toscanini, al quale toccò di peggio qualche mese dopo al Teatro Augusteo a Roma, quando il pubblico fischiò per la presenza di brani di musicisti tedeschi, tanto da costringere il maestro ad abbandonare la sala. E fu ancora Gramsci a difendere il tedesco Robert Michels (destinato a naturalizzarsi italiano, poi), uno dei grandi della scienza politica mondiale, escluso dall’ateneo torinese dove teneva dei corsi come Libero docente. Perché tedesco, e l’Italia era in guerra con la Germania. Oggi siamo di nuovo a quel punto. La guerra ottenebra le menti. E nella fattispecie, riaffiora la russofobia. Invano, negli anni Trenta, Leone Ginzburg, un russo (di Odessa!) che aveva scelto Torino, per farsi italiano e combattere contro il fascismo, si batteva perché ci si rendesse conto che l’identità europea non poteva prescindere dalla Russia: si può essere e sentirsi europei senza Tols

Sorgente: Che Europa sarebbe senza i Tolstoj e i Dostoevskij – infosannio – notizie online

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